Tributi e famiglie disagiate: anche Mongiana delibera il "baratto amministrativo"

L'Amministrazione Comunale di Mongiana, con deliberazione n. 50 del 27/07/2015, nel tutelare in ogni modo il diritto di ciascun nucleo di preservare le risorse economiche per i bisogni primari, volendo al tempo stesso garantire il rispetto delle regole del pagamento dei tributi, ha individuato nel "Baratto Amministrativo" un'idonea modalità che concilia l'obbligo del pagamento di tributi con le disponibilità economiche del nucleo familiare, quale ulteriore strumento di politica sociale a favore dei nuclei disagiati". A renderlo noto è il sindaco Bruno Iorfida. "L'art. 24 della legge 164/2014 "Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio" disciplina la possibilità per i Comuni - spiega il Primo Cittadino - di deliberare riduzioni o esenzioni di tributi a fronte di interventi per la riqualificazione del territorio, da parte di cittadini singoli o associati. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, strade, ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale ed in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano ed extraurbano". "Grazie a questo strumento . assicura il sindaco Iorfida - riusciremo a far diminuire la parte debitoria di alcuni nuclei familiari svantaggiati, riuscendo così ad aiutare concretamente le persone. Sono contento veramente per questo atto. A breve verrà pubblicato il bando che consentirà ai cittadini in essere di presentare istanza. Ringrazio gli amministratori tutti che mi hanno appoggiato in questa iniziativa rivolta alle fasce deboli". 

 

Paesi di Calabria: Mongiana

 Mongiana, la “montis jianua”, la “Porta della montagna”, l’ingresso dell’incantevole scenario impreziosito di boschi di conifere delle Serre vibonesi. Circa l’etimologia del toponimo ci sono diverse interpretazioni: per il serrese Mons. Bruno Tedeschi deriverebbe dall’omonimo ruscello che scorre in località Ninfo; secondo altri, dal latino “montis janui” (monte di Giano per la probabile presenza, nei dintorni di un tempio dedicato al dio della guerra; oppure potrebbe trattarsi di “montis gens” (gente di montagna) e altri ancora, molto improbabile, la vogliono derivare dal nome di ingegneri francesi che lavoravano nelle locali ferriere e che si chiamavano “Mong” o “Mongeon”. Oggi questo ridente paesino, a quattro passi dalla più famosa Serra San Bruno è meta di flussi turistici per i suoi incantevoli paesaggi naturali e perché conserva il fascino del suo passato borbonico. Le origini di Mongiana, non molto antiche, risalgono alla fine del ‘700 e sono collegate alla costruzione delle Reali Ferriere per la lavorazione del ferro volute dai Monarchi borbonici, secondo il Piano di Alessandro Persico, amministratore degli arredamenti della Calabria Ulteriore e su disegno dello spagnolo Giovanni Francesco Contò. Della fabbrica restano i ruderi dell’antico ingresso fatto di belle colonne in ghisa e altri manufatti. Tutto il complesso di archeologia industriale è stato sottoposto, di recente, a restauro conservativo e i lavori già ultimati ne mostrano l’antico splendore ed importanza con museo e sale per congressi e studi. Le officine di Mongiana insistevano in un unico stabile esteso per oltre 2 km e lungo il corso dei fiumi Ninfo e Allaro. La ferriera comprendeva 3 altiforni detti di Santa Barbara, San Francesco e San Ferdinando e vi si lavoravano circa 30 mila cantaia di ghisa all’anno con un consumo di 40 mila cantaia di carbone di faggio; inoltre vi erano 2 forni di seconda fusione detti di Wilkinson che producevano 60 cantaia giornaliere di oggetti figurati e la macchina di Robinson per tirare ferri, scomparsa nel 1855 a seguito di un’alluvione. All’interno del complesso c’era anche la fabbrica di armi costituita da un imponente edificio di tre piani abbellito, all’epoca, dalle statue del re e della consorte sovrana.  All’interno dell’edificio industriale vi erano le officine dei forgiatori di canne di fucili, baionette e piastrine con 26 fuochi. Le officine fornivano alla Casa regia napoletana: 12 mila cantaia di proiettili, mortai e bombe; vi si costruivano enormi ruote di ferro fuso, pezzi di macchine, docce, tubi, campane, attrezzi militari e rotaie. Tutto il complesso comprendeva, anche, 26 alloggi per gli impiegati, 6 caserme per gli operai ed altre 3 per semplici manovali ed un quartiere per la truppa ivi di stanza. I manufatti per Napoli prendevano la via del mare dal porto di Pizzo che qui vi arrivavano a dorso di muli attraverso un sentiero che poi sarebbe diventato la “strada nazionale borbonica”, la stessa che ancora oggi dallo snodo dell’Angitola si arrampica fino ai centri montani delle Serre. Per molti anni le fabbriche non conobbero soluzione di continuità ed anche con i francesi di Murat. Anzi, quest’ultimo incrementò la lavorazione del ferro battuto nelle circa 300 fabbriche della vicina Serra dove il minerale veniva trattato con una particolare vernice dorata, per cui i nostri lavori risultavano più appetibili dei napoletani. Insomma grandi cose per tre secoli orsono, poi venne l’Unità d’Italia! Della grande operosità di Mongiana e paesi limitrofi, per fortuna, è rimasta la tradizione dei cosiddetti “ferraioli” che hanno arricchito chiese, palazzi e monumenti vari e non solo in Calabria.. È rimasto famoso il detto “la maestranza di la Serra” estesa naturalmente anche ai centri vicini. La tradizione non è andata perduta, anzi ancora oggi proliferano i lavoratori del ferro battuto e negli anni ’20 del secolo scorso molti “ferraioli”  operai, manovali, tecnici, attratti dall’Eldorado “Montecatini”, sono emigrati verso Crotone in fitta schiera e solo da  Mongiana, tantissimi, basta dare uno sguardo ai cognomi ancora presenti nel capoluogo pitagorico: Bava, Ciccarelli, La Grotteria, Panucci, Pisani, Totino, Canfora ed altri. Mongiana non è solo Ferriere. C’è Villa Vittoria sede dell’Amministrazione Forestale, la riserva naturale biogenetica di Cropani – Micone, tutto attorno un vasto orto botanico che è parte integrante del Parco regionale delle Serre. Ma senza tema di essere smentito, la rinascita di Mongiana la si deve a lui, don Peppino Scopacasa che negli anni ’90 ha intrattenuto residenti, emigranti, turisti e uomini di cultura con l’irripetibile “Agosto per il ritorno degli emigrati”. Un mese, ma anche durante l’anno, ricco di mostre di pittura e fotografiche, sagre di prodotti tipici e soprattutto gli incontri letterari con poeti e scrittori provenienti da ogni dove. Per i Beni culturali ricordo le tante sculture in legno, ferro, granito e bronzo, in particolare il monumento funerario a Luigi Morabito e quello ai Caduti con la statua in bronzo fuso, entrambe opere dello scultore Giovanni Salvatore Pisani (Mongiana 1859 – Milano 1920), lo stesso che ha lasciato tante opere scultoree in tutta Italia e nel cimitero monumentale di Serra San Bruno la statua bronzea del “Redentore” e il busto marmoreo del serrese Mons. Giuseppe Barillari, vescovo di Cariati. E nella chiesa parrocchiale è custodita una pregevole statua lignea della Madonna  delle Grazie di scuola serrese. Oggi cosa resta a Mongiana? Di sicuro le Ferriere borboniche restituite alla fruizione di studiosi e turisti e tanta tranquillità e bellezze paesaggistiche  e soprattutto, come scriveva l’indimenticabile don Peppino: “qui l’animo umano, che il meccanismo della vita moderna sembra aver inaridito sotto una scorza di freddo materialismo, si spoglia d’amarezza e preoccupazione, per liberarsi leggero nella contemplazione delle bellezze naturali, in un mondo incontaminato dall’affanno terreno.”

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Mongiana: la signora Rosina, ultimo baluardo della civiltà contadina

Rosina, mani da soldato e gote arrossate dalla calura, m’indica una casetta abbracciata dai ciuffi di parietaria: «Andiamo lì – mi dice – saremo al fresco». Come le tante contadine del sud, anche nei campi, è avvolta nel nero di sempre. Oltre al lutto per il defunto marito, nelle sue parole si legge anche quello per la società contadina che ha lasciato il passo alla civiltà moderna: «Che volete ormai i tempi sono cambiati». E’ domenica mattina e i solchi battuti dal sole la vedono già dalle prime luci dell’alba intenta a parlare con le piante e ad ascoltare la terra. Rosina ha un cuore caldo come la pietra focaia e si preoccupa subito di donarmi qualcosa. Entriamo nella casa di Santa Maria di Cropani, nel comune di Mongiana, dove una credenza e un vecchio tavolo occupano mezza stanza, quattro sedie impagliate s’impossessano del resto mentre il cane fa una tregua con se stesso per non finire subito un tozzo di pane raffermo. Economa in tutto, mastica lentamente e mi ricorda una vecchia zia contadina: ad un cane che la guardava mentre gustava una pasta alla crema disse: «Prendi, mangiane anche tu, da come mi guardi sembra che non ne hai visto mai». E’, forse, una delle ultime rappresentanti della civiltà contadina calabrese, o almeno di quella parte di civiltà contadina pura, fatta di uomini e donne dalla vita passata ad imbrunire sull’uscio di una sola stanza. Dalle credenze popolari suggestive, fatte di miti e di superstizioni ma anche di sofferenza e coraggio. Già, perché per dirla con Ignazio Silone, i contadini, quelli del sud, non sono come quelli che ci mostra la televisione che a lavoro ci vanno fischiettando, no. Nell’alta montagna ci vanno sofferenti, e, forse, imprecano pure. Mi racconta di quella volta quando una zingara, durante la fiera di ferragosto a Serra, la guarì da uno strano male che le portava forti dolori di testa e che spesso la faceva a cadere a terra come fosse morta: «Voi non ci credete – mi dice sorridendo – ma quella donna indovinò i soldi che mio marito aveva in tasca, fu questo che mi convinse a sottopormi ai suoi rimedi particolari». Gli occhi spietati della memoria la invitano a parlare di amori, odi e drammi personali e collettivi. Li rievoca come fossero episodi di un lungo viaggio che sta per giungere al capolinea. Come uno di quelli che era solita fare da bambina, quando, con la propria famiglia andava a lavorare per conto di «padroni», avidi e ottusi. Ma sempre a contatto con la grande madre terra.

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Mongiana ed i suoi "Luoghi del cuore"

C’è, anche, Mongiana nell’elenco dei “Luoghi del cuore” del Fai, il progetto con il quale il Fondo ambiente italiano, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, ogni anno cataloga le località da “non dimenticare”.  L’iniziativa, nell’edizione del 2014, ha coinvolto “un milione e seicentomila persone” che hanno indicato quelli che considerano i loro “luoghi del cuore”.  Tra le oltre ventimila segnalazioni, distribuite in più di quattromila comuni, figurano ben quattro siti ubicati nel comune di Mongiana. Le località entrate nella classifica dei “tesori più o meno noti, che rivestono un significato importante per il loro valore emozionale e identitario, e non solamente storico, artistico e paesaggistico”, ci sono, anche,: la Fabbrica d’armi borbonica, le Reali ferriere, Villa Vittoria ed il parco cittadino. A darne comunicazione, il sindaco Bruno Iorfida che, nei giorni, scorsi ha ricevuto la comunicazione ufficiale del presidente del Fai Andrea Carandini. Nelle comunicazione inviata al primo cittadino del borgo delle ferriere, il rappresentante del sodalizio ha evidenziato come l’iniziativa non abbia soltanto un valore simbolico. “Grazie al censimento – infatti – in questi dodici anni il Fai è intervenuto a favore di 45 beni in 15 regioni, spesso con il concorso degli Enti pubblici, creando circuiti virtuosi”.  Intervento di cui, anche quest’anno, potranno beneficiare  i “Luoghi del cuore che hanno ottenuto almeno 1.000 voti”, previa presentazione di una candidatura al Fai da proporre entro il 9 giugno. Grande la soddisfazione del sindaco Iorfida il quale ha commentato: "sono veramente soddisfatto nell'apprendere la notizia. Vuol dire che il lavoro di promozione e valorizzazione del territorio sta funzionando nel migliore dei modi. Questo piccolo ma importantissimo traguardo ci dà la spinta per continuare a promuovere un territorio dalle peculiarita e potenzialità enormi. Questo è stato anche possibile grazie anche al Corpo Forestale dello Stato UTB Mongiana avendo contribuito a far venire visitatori e a far conoscere il nostro territorio. Mongiana è un luogo dove storia e natura si intrecciano dando al visitatore diversi spunti di riflessione e scorci incantevoli. Facendo rivivere per un attimo ciò che eravamo".

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A Mongiana, si parlerà della seta in Calabria

Appuntamento domani alle 17,30 con la seconda serata dell’Anno letterario MoMò. La rassegna, organizzata dall’associazione culturale per la promozione sociale “MoMò” si svolgerà nella cornice di Villa Trozzo Scrive, a Mongiana. Protagonista dell'iniziativa sarà “La seta a Catanzaro e Lione” (Rubbettino), della giornalista catanzarese Angela Rubino. All’incontro, patrocinato da Confimpresa (Confederazione della Piccola Media Impresa e dell'Artigianato) e dell’Associazione Nazionale “Briganti”, prenderanno parte, oltre all’autrice del libro, Diego Giovinazzo, segretario nazionale di Confimpresa, lo storico Mario Saccà e Francesco Lo Giudice, Dott. Ric. In Sociologia Politica – UNICAL e Giuseppe Bartiromo (tra i fondatori dell’Associazione Briganti Nazionale). I temi che saranno affronteranno nel corso del dibattito andranno al di là dell’aspetto storico, legato all’illustre passato che vide il capoluogo calabrese distinguersi in tutta Europa, per la straordinaria qualità dei tessuti serici prodotti nelle sue filande. La serata, infatti, sarà arricchita dal racconto delle esperienze di imprenditori che illustreranno uno spaccato della Calabria contemporanea. Veranno, infatti, narrate le storie del Lanificio Leo, la più antica fabbrica tessile attiva in Calabria e della Cooperativa “Nido di Seta”, che a San Floro pratica la gelsi bachicoltura a scopo didattico. All’incontro seguirà un “Aperitivo Sociale”. La serata sarà suggellata dalle note dei The clack's bat (jazz/blues/oldies), la cui esibizione avrà inizio intorno alle 19 circa (ingresso libero).

Mongiana ed il misterioso “delitto dell’amuleto"/ PARTE II

Il pezzo che segue è la prosecuzione un articolo pubblicato ieri al quale è possibile accedere cliccando qui:

Le indagini si muovono in tutte le direzioni. Gli inquirenti iniziano a scavare nel passato della vittima e scoprono che vent’anni prima Demasi era stato condannato ad otto anni di galera per aver ucciso con un colpo di fucile una donna, Carmela Gallace. La pista, però, si rivela piuttosto inconsistente. Demasi, infatti, aveva sempre sostenuto di aver sparato alla cieca tra gli alberi per intimorire quelli che pensava fossero ladri. Oltre ai giudici che comminano una pena piuttosto mite, credono alla tesi anche i parenti della donna che “riallacciarono con lui buoni rapporti”.

Si cerca, quindi, di capire se l’omicidio possa essere nato nell’ambiente familiare, ma “un contadino, Antonio Nesci - che era stato il primo ad accorrere udendo il pianto del figlio della vittima - testimoniò sul sincero dolore dell’Antonio”.

Non emerge nulla, neppure dalle indagini che riguardano “due altri fittavoli, Angelo Belcastro e Domenico Caré, pure vicini, [che] non avrebbero avuto ragione alcune per commettere quel delitto”.

Scartate tutte le altre ipotesi, le attenzioni si appuntano su un uomo, “tale Ilario Cavallaro”. A spingere le indagini in quella direzione, sono soprattutto le dichiarazioni rilasciate dai “congiunti dell’ucciso” che indicano il movente in dissapori di carattere familiare. Cavallaro, infatti, nel 1942, “aveva sposato con il solo rito civile una figlia del Demasi, Rosina, allora di diciassette anni, senza vivere neanche un solo giorno con lei. Gli sposi si sarebbero stabiliti insieme al ritorno del giovane. Le cose, però, andarono per le lunghe. L’Ilario, partito per la Libia, fu fatto prigioniero dagli inglesi e solo nel ’46 rivide l’Italia”.

Rientrato dalla prigionia, “la cerimonia religiosa fu rinviata” perché lo sposo “chiedeva al suocero che assegnasse in dote alla moglie una certa somma di denaro e, in più il terreno, sostenendo che quei beni, in fondo, erano solo un indennizzo per tutti gli assegni familiari che Demasi aveva percepito, attraverso la figlia sposata ad un militare, durante quattro anni”.

Il rifiuto era stato accompagnato dalla ferma decisione di “Rosina”, la quale “pentita delle nozze, non aveva alcuna voglia di vivere con il marito e fu solidale con il padre”. L’intera vicenda aveva avuto delle conseguenze di carattere giudiziario, tali da indurre i carabinieri ad arrestare Cavallaro con l’accusa di essere l’autore dell’omicidio. Insieme a lui vengono mandati in galera, “il padre, Bruno, e i fratelli Salvatore e Rocco, poi tutti rilasciati avendo potuto essi provare che quella notte si trovavano a Serra San Bruno, loro paese di residenza”.

Anche Ilario dichiara, inutilmente, di aver trascorso la notte dell’omicidio nel paese della Certosa. Nonostante l’assenza di prove contro di lui, sulla base di un “processo tipicamente indiziario”,  viene “condannato, oltre alle pene accessorie, a venticinque anni”.

Nel 1955, però, in occasione del “giudizio di secondo grado” i magistrati vogliono approfondire la questione e decidono d’indagare tutti i punti oscuri delle vicenda. Cercano, quindi, di capire per quale motivo il cadavere sia stato appeso ad una trave, ma soprattutto che cosa possa rappresentare quello strano amuleto lasciato dall'assassino. Si rivolgono, quindi, a Raffaele Corso il quale nella sua perizia scrive: “ La testuggine non è riprodotta integralmente, ma nel guscio soltanto, cioè senza la testa, la coda e le zampe. Evidentemente, l’artefice non ha voluto ritrarre il rettile vivo, come si vede in un quadro del secolo XVI, dove esso figura come emblema dell’amore felice. […] Pertanto bisogna indirizzare le indagini verso pratiche magiche locali, tenendo presente che in Calabria, come in altre regioni i superstiziosi, per ricondurre all’amore i riottosi, ricorrono alle arti della strega, la quale mette in pratica, secondo l’occasione, filtri non comuni. Qualche abile strega locale, informata degli antichi usi, avrà suggerito al delinquente l’amuleto della gioia amorosa nella forma priva di vita e cioè del solo guscio”. Lo studioso aggiunge: “ La testuggine, che viva simboleggia la fecondità, morta starebbe la sterilità. Tanto e vero che la testuggine viva si mantiene tuttora nelle case delle popolane come simbolo della feconda pace e si ritiene segno di prossima disgrazia la sua scomparsa o la sua morte”. In altre parole, la conclusione dell’etnografo è che  “l’uccisore voleva indicare, anzi gridare di fronte a tutti che, colpito come uomo perché privato della sua donna, si era vendicato. Questo il filo sottile fra il delitto e l’amuleto”.

La spiegazione però, non convince “la Corte” che, in assenza di “prove precise”, assolve l’imputato.

Scarcerato il maggiore indiziato, l’omicidio resta, quindi, impunito con il risultato che la testuggine “rimarrà fra la gente di queste campagne come il simbolo del mistero che avvolge il fosco delitto dell’amuleto”.

 

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Mongiana ed il misterioso “delitto dell’amuleto"/ PARTE I

“In questa provincia v’è un Comune, Mongiana, il cui nome rimarrà negli annali della criminologia per uno strano delitto – rimasto finora impunito – che per la prima volta nella storia delle istruttorie giudiziarie, ha chiesto l’intervento di un perito non medico né chimico né psichiatra, ma studioso, e insigne etnografo: il professor Raffaello Corso, titolare di quella materia nell’istituto Superiore Orientale di Napoli. E a lui, infatti, che i giudici dell’Assise d’Appello di Catanzaro hanno chiesto di spiegare qual è il significato del misterioso amuleto appeso al collo di un contadino, Francesco Demasi, di settanta anni, trovato morto e legato ad una trave del suo casolare, in contrada S. Maria di Cropani”.

Inizia con queste parole, un dettagliato resoconto giornalistico, pubblicato nel maggio del 1956 sulla “Stampa “ di Torino.

Vergato da Crescenzo Guarino, l’articolo descrive l’ultima fase processuale di un omicidio perpetrato a Mongiana, il 27 luglio 1950.

Non si tratta del solito omicidio, di un assassinio come gli altri. Oltre alle modalità con le quali è stato consumato il crimine, di anomalo c’è un particolare: al collo della vittima, l’omicida ha appeso un ciondolo raffigurante una tartaruga.

Un simbolo che induce i magistrati della Corte d’Appello di Catanzaro a rivolgersi ad un illustre studioso per cercare di venire a capo del mistero. I giudici sperano, infatti, di capire quale possa essere stata la ragione per la quale l’assassino abbia lasciato quello strano oggetto.

La relazione presentata da Raffaele Corso rappresenta, però, solo l’epilogo di una vicenda iniziata qualche anno prima.

Siamo negli ultimi giorni nel luglio del 1950, fa caldo, è tempo di raccolto e le attività agricole fervono. Un contadino, Francesco Demasi, come ogni anno, con l’arrivo dell’estate si stabilisce nel suo fondo agricolo situato nella contrada Santa Maria di Cropani di Mongiana e vi trascorre tutto il tempo. La mattina bisogna iniziare i lavori prima che il sole sia alto. Per non perdere tempo, anziché fare ritorno nella sua casa di Mongiana, a fine giornata l’anziano si sdraia su un pagliericcio, fatto da una “coperta di lana grigia ed una giacca”, che ha allestito in una capanna senza porta. Accanto alla bicocca c’è un casolare nel quale l’uomo custodisce gli attrezzi ed altre povere cose. Trascorsa la notte, all’alba si sveglia, si alza e riprende le sue attività. Ogni giorno è uguale al precedente, fino al 27 luglio, quando “una guardia campestre, Bruno Monteleone, si recò alla stazione dei Carabinieri di Serra San Bruno per denunciare che, trovandosi a passare lungo la carrozzabile per Fabrizia, presso un fondo di Santa Maria di Cropani,  aveva udito delle grida di dolore e d’aiuto. Dalla voce riconobbe subito un suo amico, Antonio Demasi. Accorso nell’abitazione, si era trovato innanzi ad un fatto atroce: il corpo di Francesco, padre di Antonio, stava sollevato da terra, legato ad una fune che, girandogli sotto le ascelle, era sospesa al soffitto. Il vecchio, a piedi nudi, indossava dei pantaloni di tela blu ed una camicia di cotonina Kaki. Nell’interno del casolare, composto di una sola stanza, le poche cose alcuni recipienti di terracotta, due ceste del pane) tutte al loro posto dimostravano che non vi era stata lotta”.

La scena, macabra, si arricchisce di nuovi particolari quando le risultanze della “perizia necroscopica” evidenziano che l’uomo è stato soffocato nel sonno.

Qualcuno, quindi, nel cuore della notte, dopo averlo strangolato si è preso la briga di “trasportare” il cadavere nel “casolare”, di appenderlo con una fune ad una trave e di lasciargli addosso un misterioso amuleto.

Fosse stato consumato ai giorni nostri, il delitto avrebbe animato sicuramente una delle tante trasmissioni in cui si spettacolarizza, anche, la morte più violenta. Ma nell’Italia degli anni Cinquanta la vita, come la morte ha una sua sacralità.

CONTINUA

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Le ferriere calabresi: ascesa e declino di Mongiana /PARTE III

Il pezzo che segue è la prosecuzione di due articoli pubblicati ieri e l'altro ieri ed ai quali è possibile accedere cliccando sui link che seguono:

 https://www.ilredattore.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=1916:la-calabria-e-le-ferriere-itineranti&Itemid=953

https://www.ilredattore.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=1933:dalle-ferriere-itineranti-alle-attivita-protoindustriali&Itemid=953

 Alla fine del Settecento la situazione generale dell’attività siderurgica calabrese è tutt’altro che entusiasmante. Per cercare di risollevarne le sorti il governo, oltre ai tecnici stranieri, invia nelle Serre, Giovanni Conty. La condizione è talmente critica che appena giunto sul posto manda a Napoli una relazione nella quale chiede di essere messo nella condizione di ristrutturare l’intero complesso o, in alternativa, di essere avvicendato. Con l’ultimatum, Conty trasmette la proposta di varare una norma a tutela del bosco ed un dettagliato piano di sviluppo. Il piano contiene la proposta di trasferire l’attività in località Cima, alla confluenza dei fiumi Ninfo e Allaro, al centro di fitti boschi equidistanti dalle due coste. Il Ministero accoglie il piano, avallato da Alessando Persico, diretto superiore di Conty e dà il via libera alla realizzazione della nuova manifattura che, secondo quanto riportato dal quarto e quinto direttore della ferriera, Vincenzo Ritucci e Michele Carascona, sorge a partire dall’8 marzo 1771. Il nucleo intorno al quale nasce l’insediamento che assume il toponimo di Mongiana, un anonimo ruscello tributario del Ninfo, inizialmente è composto da due altiforni, coperti da una rudimentale tettoia e quattro baraccamenti. Nel 1789, Ferdiando IV, che nel 1759 aveva preso il posto di Carlo divenuto re di Spagna, fa bandire un concorso per un viaggio di studio da effettuarsi in Sassonia, Baviera, Austria, Francia ed Inghilterra. “Scopo del viaggio è studiare la composizione chimico fisica dei minerali, conoscere le nuove tecniche estrattive, avvicinarsi al mondo produttivo e, non ultimo, impadronirsi delle nuove tecniche adottate dall’industria europea”. Il viaggio dei sei vincitori, Carmine Lippi, Giovanni Faicchio, Giuseppe Melograni, Vincenzo Raimondi, Andrea Savaresi e Matteo Tondi si concluderà, nel 1797. Ritornati in patria il Governo, determinato a far fruttare le conoscenza acquisite dai suoi tecnici, spedisce in Calabria, Tondi, Melograni, Faicchio e Savaresi che stravolgono tutti i metodi di lavorazione. Le vicende del neonato “stabilimento” s’intrecciano con quelli della Rivoluzione francese. I lavori per la realizzazione della ferriere non erano stati rapidissimi, tanto che solo nel 1778 erano stati portati a compimento i lavori di livellamento dei fiumi, con creazione di cadute adatte ad alimentare il sistema di trombe usate per insufflare aria nei forni. Fino al 1790, anno della sua morte, Giovanni Conty annota solamente le produzione delle ferriere di Paino della Chiesa. Con tutta probabilità, complice il terremoto del 1783, la ferriera di Mongiana non era ancora entrata a regime. Alla morte di Giovanni Conty, l’amministrazione passa nelle mani del figlio, Massimiliano. Le prime produzioni di un certo rilievo risalgo agli ultimi anni del Settecento quando la ferriera produce 3.750 cantaia di ghisa, 1.870  cantaia di ferro fucinato, ovvero 337 tonnellate di ghisa e 168 di ferro. Alla lunga gestazione ed alla esigua produzione si aggiunge, nel 1796, il dato che l’artiglieria lamenta la pessima qualità del ferro, i difettosi calibri dei cannoni e l’approssimativa fattura dei proiettili prodotti in Calabria. Al termine della riconquista ad opera del Cardinal Ruffo, nel 1799 Massimiliano Conty, che si era schierato con la Repubblica, viene estromesso dall’amministrazione della ferriera che viene affidata a Vincenzo Squillace, capomassa delle bande di Cardinale. Ristabilita la situazione a Mongiana rimarranno solamente Faccio e Savarese, mentre Tondi e Melograni vengono allontanati dal Regno per aver sostenuto la repubblica. Nel 1800 il Re sancisce il passaggio delle ferriere dal Ministero delle Finanze a quello della Guerra e Marina. La direzione d’artiglieria invia i suoi ufficiali a sorvegliare. Nel 1801 arriva il capitano Ribas che abolisce il sistema del getto detto a conchiglia e lo sostituisce con lo staffaggio in sabbia. Sotto l’amministrazione di Squillace, vengono perfezionati gli altiforni ed alle quattro ferriere (san Carlo, san Bruno, san Ferdinando, e Real Principe) sono assegnati compiti diversificati e complementari. Aumenta il prodotto annuale lordo che sale a 4.100 cantaia di ghisa e 2.293 di ferro. L’amministrazione Squillace va avanti fino al 1807 quando, sul trono di Napoli, arriva Giuseppe Bonaparte. Dal 1 gennaio 1808 lo stabilimento passa interamente nelle mani dei militari e rimarrà sotto il Ministero della guerra e marina per i successivi cinquant’anni. Viene nominato direttore Ritucci, mentre Squillace diventa cassiere. In pochi anni Ritucci ingrandisce e riorganizza lo stabilimento e pianifica la produzione. Intorno agli edifici di produzione sorgono le prime abitazioni destinate ai tecnici ed ai soldati. Vincenzo Ritucci rimane in carica fino al 1811, al suo posto viene inviato il capitano Michele Carascosa. La gestione Ritucci aveva sfornato prodotti buoni ma non sempre a buon mercato, Carascosa deve cercare, quindi, di abbassare i costi di produzione. Incarico che riesce a svolgere egregiamente. Nel 1814 Carascosa assicura che la produzione può superare agevolmente le 16.000 cantaia di ferro in barre. All’inizio del 1814 arriva alla direzione il capo squadrone d’artiglieria a cavallo Nicola Landi. Nel biennio successivo vengono prodotte 25.197 cantaia di ghisa e 5240 di ferro. Il risultato è notevole, raggiunto con 200 uomini in una fonderia di 31 metri per 15 da due malandati altiforni. In seguito alla Restaurazione la produzione scende sotto  4000 cantaia di ghisa, ma la produzione si specializza. Nel 1814 entrata in funzione la Fabbrica delle Canne ribattezzata dai Borbone Real Manifettura e Armeria. A partire dal 1815 le canne di fucile vengono spedite  alla manifattura di Torre Annunziata. Dopo la Restaurazione, oltre alle armi, Mongiana si specializza in produzioni destinate all’industria civile. Il successo dell’impresa induce il ministero ad inviare in Calabria un tecnico salernitano, Domenico Fortunato Savino che, in seguito all’alluvione del 1849 che danneggia pesantemente il complesso, rivoluziona la produzione e progetta, tra le altre cose, la nuova fabbrica d’armi e le fonderie. Savino aumenta e specializza ulteriormente la produzione, introducendo un nuovo metodo di fusione ed installando la “Tiraferri”, un laminatoio acquistato in Inghilterra. Intanto, dalla fabbrica d’armi, inaugurata nel 1852, partono i semilavorati destinati a Torre Annunziata e Poggioreale. Nel contempo, viene avviata la produzione di un fucile interamente costruito in loco, il modello “Mongiana”. In seguito ad un’inaspettata visita di Re Ferdinando II, nel 1852, Mongiana diventerà una colonia militare ed il direttore assumerà i poteri di sindaco. Nasce, così, il comune di Mongiana. A novembre del 1855, una nuova alluvione danneggia la fonderia. Dalla ricostruzione sorgeranno due altiforni gemelli, il san Ferdinando ed il san Francesco, i più grandi attivi in Italia. La rinascita è immediata. Grazie alle nuove infrastrutture ed ai 1550 addetti, nel 1857, la produzione, supera i 25 mila cantaia di ghisa. Il 28 agosto 1860, una colonna garibaldina, guidata dal capitano Antonio Garcea raggiunge Mongiana e ne assume il controllo. Ad appena un anno dall’Unità, la produzione si riduce drasticamente. Nonostante l’ottima qualità dei manufatti che, nel 1861, conquistano una medaglia ed un diploma all’esposizione universale di Firenze e nel 1862 una medaglia d’oro all’esposizione universale di Londra, con la legge n. 793, del 21 agosto 1862, Mongiana viene inserita tra i beni demaniali da alienare. Ad acquistarla, sarà un ex sarto catanzarese, un garibaldino giunto per la prima volta a Mongiana, con la colonna di Garcea, Achille Fazzari. La nuova proprietà riavvierà la produzione nel 1881, ma si tratterà di un fuoco di paglia. Dopo soli tre mesi, infatti, l’altoforno verrà spento. Con esso si spegnerà, anche, la speranza di una terra, ancora oggi, alla ricerca di se stessa.

Fine

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