Dal terremoto di Reggio e Messina alla Rivoluzione d’Ottobre, la lunga storia dell’incrociatore Aurora

Ci sono simboli che sfidano il tempo, a tal punto da sopravvivere a ciò che li ha resi celebri. Un caso particolare è quello dell’incrociatore Aurora, la nave da cui partì il primo colpo di cannone che diede l’abbrivo alla Rivoluzione d’Ottobre.

Si tratta di un’unità da guerra dal destino particolare, l’unica a fregiarsi del vessillo di Sant’Andrea, prima e dopo quello dei soviet. In questi giorni è ritornata alla ribalta, poiché dopo un restauro, durato due anni, è ritornata al suo posto a San Pietroburgo, dove continuerà ad essere esposta come museo.

La storia dell’incrociatore è legata agli eventi più tragici del Novecento. Un segno particolare lo ha lasciato anche in Italia, dove partecipò attivamente ai soccorsi a Reggio e Messina, dopo il devastante terremoto del 1908.

Nonostante fosse in linea da meno di un lustro, quando giunse nelle acque dello Stretto, l’Aurora vantava uno stato di servizio di tutto rispetto. Progettata dall’ingegnere Ratnik, responsabile dei cantieri navali di San Pietroburgo, era stata impostata nel 1897. Varata l’11 maggio 1900, dopo l’allestimento, era entrata in servizio nel 1903. Lunga 127 metri e larga 17, poteva raggiungere la velocità di circa 20 nodi con un equipaggio formato da 550 marinai agli ordini di 20 ufficiali. Il nome gli era stato dato in onore dell’omonima fregata che, durante la guerra di Crimea (1853 – 1856), aveva difeso con successo la città di Petropavlov. Dopo il varo, era andata a far parte della potente flotta del Baltico. Dalle gelide acque del nord Europa, fu spedita sui tiepidi marosi del Pacifico, dove presa parte attiva al conflitto russo-giapponese (1904-1905). Partecipò anche alla battaglia di Tsushina (27-28 maggio 1905), nel corso della quale la marina nipponica fece strage del naviglio zarista.

L’Aurora fu tra le poche navi a scampare alla falcidia provocata dai siluri del Sol Levante. Colpita da una corazzata e pesantemente danneggiata riuscì a tenersi a galla fino a raggiungere, avventurosamente, il porto di Manila, nelle Filippine. Riparata e riportata in Russia, a partire dal 1907 fu adibita a nave scuola per i cadetti.

In tale veste, il 28 dicembre 1908, si trovava in Sicilia, quando il flagello del terremoto si abbatté su Reggio e Messina. Fu tra le prime unità a portare soccorso alle popolazione delle sue martoriate città. La mattina del 29 dicembre, raggiunse la rada di Augusta dove, secondo i piani emanati dall’Alto Comando di Pietroburgo, avrebbe dovuto incontrare la squadra navale del suo Paese impegnata in un’esercitazione nel Mediterraneo. Trovò ad attenderlo il solo incrociatore Bogatyr, mentre al suo fianco la corazzata Slava, salpate le ancore, si apprestava a partire alla volta di Messina. La sera precedente, ricevuto un cablo contenente la richiesta di portare aiuti immediati, l’ammiraglio Livtinov aveva dato ordine alla corazzata Cesarevic e all’incrociatore Makarov di muovere alla volta della città dello Stretto.

Nelle stesse ore in cui l’Aurora dava fondo alle ancore ad Augusta, le due navi erano già entrate nel porto di Messina ed avevano iniziato a sbarcare uomini e mezzi.

Erano state precedute di poche ore dalle cannoniere Gilijak e Koreek, anch’esse della flotta russa, provenienti da Palermo; il giorno successivo le avrebbero raggiunte la corazzata Slava, due giorni dopo il Bogatyr, mentre l’Aurora si sarebbe diretto su Reggio.

La Cesarevic e il Makarov rimasero stabilmente in porto; la Slava, il Bogatyr e l’Aurora iniziarono a far la spola tra Reggio, Messina e Napoli divenuta retrovia della catastrofe e centro di raccolta dei feriti recuperati dai marinai russi nelle città dello Stretto.

Terminata la missione nel Mediterraneo, a partire dal 1910, iniziò una lunga crociera negli oceani, Pacifico, Atlantico ed Indiano, partecipando, tra l’altro, nel 1911, ai festeggiamenti per l’incoronazione del re del Siam, l’attuale Thailandia. Dopo essere ritornata nella sua base, nel corso della prima guerra mondiale venne impiegata sul Baltico a difesa della città di Riga. Nel 1916 venne fatta rientrare a San Pietroburgo per essere sottoposta a manutenzione straordinaria. Qui, il 25 ottobre del 1917, entrò nella storia facendo partire dal castello di prua il primo colpo di cannone che diede l’avvio alla Rivoluzione d’Ottobre.

Nel 1918, durante la guerra civile, l’incrociatore venne trasferito a Kronstadt e posto in riserva. Le sue bocche da fuoco, una volta smontate vennero, spedite ad Astrakhan dove armarono la batteria della flottiglia rossa del Volga e del Caspio.

Nel 1924 venne schierata nuovamente sul Baltico dove funse da nave scuola. In occasione del decennale della rivoluzione fu insignita dell’Ordine della Bandiera Rossa.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, la colse nella rada di Oraniembaum. Venne, quindi, impiegata a difesa di Leningrado come batteria antiaerea mentre, nel 1941, le sue batterie furono smontate per ordine di Georgij Zukov e furono mandate al fronte insieme ai cannoni della flotta del Baltico per contrastare l’avanzata delle truppe tedesche. Montati su un treno speciale, i cannoni del vecchio incrociatore furono schierati a difesa di Pietroburgo, la città teatro delle sua antiche gesta, ribattezzata nel frattempo Leningrado. L’unità venne gravemente danneggiata dal fuoco dell’artiglieria tedesca, il 30 settembre 1944.

Recuperata nel 1944, al termine del conflitto venne sottoposta ad un lungo e complicato restaurato. Ritornata in linea come nave scuola, nel 1956 venne trasformata in museo galleggiante e collocata sulla Neva, nel punto esatto da cui sparò il famoso colpo di cannone.

Decorata con l’Ordine della Rivoluzione d’Ottobre nel 1968, continuò a far sventolare la bandiera rossa fino al luglio 1992.

Da allora, sul suo pennone garrisce al vento il vessillo navale di Sant’Andrea, lo stesso che oltre cento anni fa, videro fremere i superstiti di Reggio e Messina.  

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Ponte sullo Stretto: si, lo voglio

Appena arrivato al governo, il ministro Costa ha affermato che il ponte sullo Stretto "si deve fare". Se non è il solito proclama, mi sta bene, e per una buona serie di motivi:

1.       L’intenzione è antichissima, ce l’aveva già Dionisio il Vecchio.

2.       Gettare ponti è un atto politico e sacro, se i Romani chiamavano il loro sacerdote “pontifex”.

3.       A differenza della natura, che è come è, un’opera umana può essere bella o brutta secondo chi e come la progetti.

4.       Il ponte non guasta un panorama naturale, giacché Messina e Reggio non sono spuntate come i funghi, bensì sono state fondate e costruite e ricostruire dagli uomini.

5.       Il mondo è collegato da ponti. Quando uno ammira quel volo di fantasia che è il ponte e tunnel tra Copenhagen e Stoccolma, resta solo a bocca aperta! Si vede che lì non ci sono ecologisti e furbetti.

6.       Ecologisti che passino lo Stretto a nuoto e nudi io non ne ho ancora visti! So bene che sta dilagando una ventata di passatismo e antiumanesimo tipo Rousseau, ma è quello che da Rousseau portò dritto dritto a Robespierre e alla ghigliottina di massa: alla larga! Da buon reazionario, io sono modernista accanito.

7.       L’utilità è evidente, rendendo più sicuri i collegamenti, oggi aleatori per condizioni di mare.

8.       La zona è sismica, ma se dovesse passare questo principio non dovremmo costruire niente in due terzi del pianeta, tra cui la California e il Giappone, e almeno mezza Italia. Ci sono, entro i limiti umani, espedienti per ridurre il rischio.

9.       Costruire qualcosa è un bene in sé, perché mette in moto e l’economia direttamente interessata, e tutto un vasto indotto. La Calabria vedrebbe arrivare denaro che si trasformerebbe in lavoro. Lavoro, non bidelli, quello che si suda!

10.   Ce la mafia? Con i lestofanti non mafiosi e con quelli mafiosi basta una normale attività di magistratura e forze di polizia.

 Ah, ovviamente io ritengo che il solo modo per dar sul serio vita al ponte sia una gestione commissariale con pienissimi poteri: immaginate, se no, ogni meschino comune di cento anime, quanti ostacoli, quante carte… e se non gli fate una piscina olimpionica (antimafia, è banale, per sottrarre i giovani alle cosche!) non dà l’autorizzazione.

 Sì, voglio il ponte.

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Finti poliziotti a casa del figlio di Gratteri

Due persone, presentatesi come agenti di Polizia, hanno citofonato al portone dell'abitazione messinese in cui vive il figlio di Nicola Gratteri, Procuratore Aggiunto di Reggio Calabria. Lo studente universitario, perplesso dalla circostanza che nessuno fosse ancora salito fino all'appartamento, è uscito dalla porta di casa rendendosi conto in questo modo della presenza di due individui che che dal piano superiore stavano raggiungendo quello in cui è ubicata la residenza del giovane. L'episodio è stato reso noto alla Polizia cui il ragazzo si è rivolto e che sta indagando per fare luce sulla vicenda. Anche il papà, che al momento era fuori dall'Italia, è stato messo a conoscenza dell'accaduto. 

 

Il terremoto del 1908 ed i soccorritori romani a Reggio

Reggio e Messina hanno festeggiato da alcune ore la nascita di Cristo quando, alle 5,21 di lunedì 28 dicembre 1908, una potente scossa scuote i sismografi di tutta Europa e rade al suolo tutto ciò che si trova in un raggio di diversi chilometri. Dei suoi 140 mila abitanti Messina ne vede perire 80 mila, 15 mila rimangono sotto le macerie di Reggio, tanti altri vengono seppelliti dai resti delle povere case nei centri minori.  L’Italia ed il mondo vengono messi al corrente del disastro solo la mattina successiva, quando il Corriere della Sera pubblica la notizia. A darne comunicazione al Governo è la torpediniera “Spica”, costretta a navigare fino a Nicotera Marina, sulla costa Calabra per trovare un telegrafo ancora funzionante. La notizia recapitata al ministro della Marina, l’on. Mirabello, si presenta con il seguente tenore: "Oggi la nave torpediniera Spica, da Marina di Nicotera, ha trasmesso alle ore 17,25 un telegramma in cui si dice che buona parte della città di Messina è distrutta. Vi sono molti morti e parecchie centinaia di case crollate. È spaventevole dover provvedere allo sgombero delle macerie, poiché i mezzi locali sono insufficienti. Urgono soccorsi, vettovagliamenti, assistenza ai feriti. Ogni aiuto è inadeguato alla gravità del disastro. Il comandante Passino è morto sotto le macerie". I primi soccorsi alle due città devastate giungono alcune ore più tardi, all’alba del 29 dicembre con l’arrivo dei marinai della flotta russa in quei giorni impegnati in manovre delle acque del Mediterraneo. Da tutta la Penisola, oltre agli aiuti predisposti dal Governo presieduto da Giovanni Giolitti, arrivano squadre di soccorso frutto della gara di solidarietà nazionale. Al personale della Sanità militare, cui viene demandato il compito di predisporre gli ospedali da campo e fornire il personale medico e paramedico specialistico, si uniscono contingenti di volontari della Croce Verde, della Croce Bianca, di organizzazioni umanitarie e degli ospedali civili. La Croce Rossa e l’Ordine dei Cavalieri di Malta mettono in funzione anche dei “Treni Ospedale” che si occupano della cura e del trasferimento dei feriti in altre città. Nelle ore caotiche e tormentate del post terremoto Roma assolve il proprio compito di capitale del Regno. Dalla Città Eterna, oltre alle direttiva, partono treni carichi di aiuti. Le squadre di soccorso provenienti dal nord giungono in treno a Roma, da qui proseguono per Napoli da dove  partono le navi sulle quali viaggiano soccorsi e soccorritori. I soccorritori romani concentrano la loro attività soprattutto a Reggio e su buona parte della costa calabra. A poche ore dalla tragedia, Giovanni Cena, per le colonne di Nuova Antologia, da Palmi, una delle cittadine calabresi maggiormente colpite dal terremoto, scrive: "Il tenente, Bodeo, romano, ch’era qui in distaccamento, dopo aver salvato i suoi, ha, con 500 assicelle per letti dei soldati, fatto costruire tredici baracche". Ai militari, che per dovere d’ufficio sono chiamati ad assolvere le mansioni dei soccorritori, si associano centinaia di civili. I romani non si risparmiano nella generosa opera d’aiuto, tanto che in molti casi sono tra i primi a giungere sui luoghi del cataclisma. Come riporta Nuova Antologia "la squadra di Roma, condotta dal Ballori e dal Rossi-Doria, fu la prima ad accorrere a Reggio". Tanti i superstiti strappati alle macerie dall’abnegazione di uomini che compiono fino in fondo il loro dovere. Sull’edizione dell’1-2 gennaio 1909 il quotidiano Roma riporta una corrispondenza spedita da Reggio Calabria il 31 dicembre nella quale si segnala: "Vi confermo ora che Reggio è quasi completamente distrutta. Si calcola che appena da un terzo della popolazione ascenda il numero dei superstiti. Continua l’opera di salvataggio compiuta con grande abnegazione. La truppa è giunta ieri da Napoli. Il servizio sanitario è disimpegnato dalla 9a compagnia di sanità di Roma e dalla Croce Rossa di Napoli". Sul primo dispaccio spedito per le colonne del Corriere della Sera l’inviato Nardini scrive: "Mentre scrivo qui accanto la folla urla disperatamente invocando prontezza di soccorsi. Restare tra queste rovine significa una sofferenza indicibile. I soldati e i marinai fanno sforzi inauditi, benché ormai affranti; anche le suore di carità sono eroiche, e i pompieri di Roma fanno miracoli. Ma ormai tutto è distrutto e nessuna casa è servibile. I morti sono putrefatti, i feriti aggravati, i vivi sconvolti". Tanti i riconoscimenti ai soccorritori romani segnalati sui maggiori organi d’informazione. Del resto le squadre romane non limitano i loro interventi ai centri costieri, spesso si spingono nei paesi più remoti e meno accessibili. A Scilla, scrive Giovanni Cena, "Troviamo, oltre i medici inglesi, una squadra di coraggiosi studenti venuti da Roma, e la Croce Verde di Milano. Arrivati stamani, hanno già visitato i paeselli del monte, Melia, Solano. Ci danno delle cifre di morti e di feriti". A distanza di giorni nelle situazioni più disagevoli e precarie i soccorritori romani continuano a prodigarsi per portare avanti la loro opera. "Anche oggi, quarto giorno della catastrofe – scrive Olindo Bitetti - furono scoperti nuovi superstiti sotto le macerie. I pompieri romani compirono i medesimi eroismi dei russi". Nel marasma di polemiche che accompagna i soccorsi anche la stampa anti governativa evidenzia la presenza e l’attività dei soccorritori romani. L’Avanti!, organo del Partito socialista, del 4 gennaio 1909 a firma di Tommaso Rossi-Doria riporta la presenza a Reggio, già la mattina del 30, dei "medici romani Mancinelli, Cherubini, Ricci [che] hanno subito cominciato a medicare feriti". Ai fiumi d'inchiostro che hanno  giustamente celebrato le imprese dei marinai russi a Messina, quasi mai è corrisposta altrettanta solerzia nel narrare la storia a volte dimenticata di medici, studenti, popolani e soldati romani che sulle rive dello Stretto portarono il vessillo e la solidarietà della capitale d'Italia.

Reggio ed il terremoto del 1908: morte, distruzione e abbandono

E’ trascorso oltre un secolo dal devastante terremoto che il 28 dicembre 1908 rase al suolo Reggio e Messina. A rammentarne la ricorrenza, più che gli uomini, sono le periodiche ed inquietanti scosse telluriche che si susseguono a largo delle coste calabresi. Segnali con cui le forze della natura sembrano intimare a non dimenticare. Obbedienti, ricordiamo ciò che accadde in Calabria, in particolare a Reggio e dintorni. Dopo il sisma, la città dello Stretto dovette attendere due giorni ed una notte prima che giungesse una qualche forma d’aiuto. Tra la fatale alba del 28 dicembre ed il tragico tramonto del giorno successivo, mentre su Messina convergevano le navi del soccorso internazionale, la città calabrese rimase in balia di se stessa, annichilita, priva di aiuti, preda di approfittatori e ladri. Amaro e impotente fu il commento scritto, a pochi giorni di distanza, dall’inviato della Stampa di Torino, Giuseppe Borghese: “ la povera Reggio è rimasta seconda anche nel compianto degli uomini: la funebre gloria di Messina ha oscurato la sua e perfino la notizia della sua morte tardò più lungamente a propagarsi. Il silenzio tragico che avviluppò per dodici ore Messina durò quasi ventiquattro per Reggio”.  Ai superstiti fu negata anche la soddisfazione di raccontare le proprie peripezie : “ a Reggio i giornalisti son venuti correndo, sono ripartiti correndo: perciò i superstiti sono insoddisfatti, avendo dovuto reprimere quell’avidità di raccontare che è l’unica consolazione di coloro che hanno sofferto le torture e gli spasmi di un inferno terrestre”. Tuttavia, grazie alle “frettolose” cronache di quei primi giornalisti, abbiamo un quadro, per quanto confuso, di quel che avvenne in città nei giorni successivi al terremoto. Sappiamo, ad esempio, che i primi soccorritori giunsero a piedi da Lazzaro, seguiti a breve distanza da una squadra agricola di Cirò, composta da 150 operai armati di vanghe e picconi. “Questa squadra ebbe contegno mirabile e diede aiuto alle migliaia di feriti giacenti presso la stazione. Gli stessi operai provvidero anche allo sgombero della linea ferroviaria favorendo la riattivazione delle comunicazioni ferroviarie. Appena giunti furono circondati da una turba di affamati ed il pane da essi portato venne a loro strappato letteralmente dalle mani, sicché essi dovettero patire la fame fino al giorno 30 quando cominciò l’arrivo delle navi”. Quelle navi però vagarono per giorni prima di trovare nuovi punti d’approdo. Le banchine, infatti, erano state spazzate via da tre gigantesche onde di maremoto generate dalle ripercussioni della scossa sul fondale marino. Provenienti da nord-ovest, dopo aver investito Ganzirri e la costa settentrionale di Messina, le onde si erano infilate nell’imbuto dello Stretto e si erano abbattute con inaudita violenza sulla costa occidentale dell’estrema Calabria. Nelle cittadine rivierasche, a iniziare da Palmi e giù fino a Reggio, come ebbe modo di rilevare il corrispondente dell’Hamburger Fremdenblatt, “la marea era penetrata fino ai primi piani e, carica di bottino in vite umane e beni, velocemente, si era poi rifugiata, così come in passato facevano i saraceni, nel bacino del mar Tirreno”. A Cannitello, su 2000 residenti se ne salvarono meno di 40; il villaggio dei pescatori della Chianalea di Scilla fu sbriciolato e spianato dalla marea. Il 90% dei suoi abitanti scomparve tra le onde. Maremoto e incendi fecero la differenza, ma accomunarono nella distruzione Reggio e Messina. Quel poco che lungo la costa reggina aveva resistito al terremoto fu travolto dalle onde. Su tutta l’area dello Stretto la pioggia fredda e battente aggiunse disagio a disagio, inondando di fango le rovine e ostacolando l’opera di ricerca dei superstiti. Le stazioni ferroviarie di Reggio e Villa San Giovanni erano crollate, il piazzale della stazione di Villa era sprofondato di circa due metri e il maremoto aveva travolto i treni in transito riducendoli ad ammassi di ferraglia. Le onde avevano scagliato barche da pesca e battelli in piena campagna, ben oltre i terrapieni della linea ferroviaria tirrenica. Il ponte in ferro di Pellaro era stato sollevato di peso e depositato sul torrente. Per oltre un mese, passeggeri e merci furono costretti a fare la spola tra i treni in arrivo e in partenza sulle due testate della linea. La maggior parte degli edifici pubblici di Reggio era crollata e dell’edilizia privata si erano salvati solo i pochi fabbricati bassi, costruiti nel rispetto delle norme antisismiche varate dopo il terremoto del 1783. Particolarmente gravi per conseguenze ed entità delle vittime, i crolli dell’Ospedale Civile e della Caserma Luigi Mezzacapo. Il crollo del nosocomio, nel quale perirono 260 dei 280 degenti, privò la città del luogo deputato a fornire cure ed assistenza. L’unica forza militare presente in città, la sola che avrebbe potuto dare un aiuto immediato, era stata annientata dal crollo della caserma Mezzacapo. Dei 600 soldati di leva del 22° Reggimento acquartierati nella caserma, ben 500 erano morti sotto le macerie insieme alla maggior parte dei loro ufficiali. Fu solo la mattina dell’ultimo dell’anno, con l’arrivo in città dei pompieri di Roma, dei volontari della Croce Rossa di Napoli e delle squadre di soccorso partite dalla Toscana, dalla Lombardia e dall’Emilia, che si organizzarono i primi soccorsi e si eressero le prime tendopoli. L’Ordine dei Cavalieri di Malta provvide a organizzare treni-ospedale adibiti al trasferimento dei feriti in altre città. Sulla costa reggina, intanto, operava già la squadra navale inglese i cui ospedali da campo stridevano per lindore e organizzazione nel marasma generale. Pur tra le inevitabili polemiche, con la proclamazione della legge marziale e l’affidamento all’Esercito delle funzioni di coordinamento dei soccorsi, fu poi avviata la fase di normalizzazione. Ma la città, distrutta, ci avrebbe messo trent'anni per risollevarsi.    

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"Catanzaro-Messina a porte chiuse è un'offesa alla città"

"La decisione del Casms è un’offesa perpetrata ai danni di una città e di una tifoseria sempre corrette e civili". Lo ha affermato l’assessore comunale allo sport Fabio Talarico, sottolineando “che l’amarezza dei tifosi e della società giallorossa sono pienamente condivise da parte dell’amministrazione, che deve rispettare, ma non condivide, un provvedimento deciso a livello nazionale che calpesta i diritti della tifoseria catanzarese e l’immagine di un capoluogo di regione sempre civile e corretto anche in ambito sportivo. Non consentire ai sostenitori giallorossi di assistere all’importante gara di campionato contro il Messina è una decisione che non solo penalizza gli appassionati, ma anche il club e gli stessi calciatori, che vengono privati di quel sostegno del pubblico che al 'Nicola Ceravolo' è sempre stato il dodicesimo uomo in campo. Sarebbe bastato un pizzico di buon senso in più, da parte del Casms, per evitare un provvedimento che lede l’immagine e il buon nome di un’intera città".   Questa mattina, inoltre, i consiglieri Vincenzo Capellupo, Domenico Concolino, Sergio Costanzo, Antonio Giglio, Antonio Corsi e Roberto Guerriero, hanno incontrato il Prefetto,  Luisa Latella, per discutere del provvedimento che ha vietato l'accesso al pubblico per la partita Catanzaro-Messina in programma  sabato prossimo  alle 20:30 allo stadio Ceravolo di Catanzaro. "Sappiamo che, inCCittà come nel resto d'Italia e del mondo – hanno spiegato - specie in questo periodo, ci siano problemi più gravi, ma sappiamo anche che lo sport rappresenta un fattore socialmente rilevantissimo, per i molteplici aspetti che investe. Abbiamo chiesto al Prefetto di spiegarci le motivazioni di una decisione che consideriamo sproporzionata, vessatoria, e mortificante, nei confronti dell'intera Città. Il Prefetto ha ricostruito l'iter istituzionale seguito, e ha sostanzialmente affermato, alla luce dei gravi elementi forniti dal Casms, e di una interlocuzione avviata già da una ventina di giorni, di non avere avuto altra scelta, nell'ottica di preservare l'incolumità di cose e persone, peraltro in un momento particolare in cui la presenza delle Forze dell'ordine è richiesta in modo più stringente per altre importantissime questioni nazionali di ordine pubblico. Pur ascoltando le nostre forti perplessità – hanno aggiunto i sei consiglieri comunali - in ordine soprattutto alla valutazione complessiva della questione, e a decisioni diverse che avrebbero potuto essere adottate (divieto di trasferta ai tifosi ospiti, ad esempio), il Prefetto ha garbatamente ma fermamente confermato le motivazioni e la ratio del provvedimento firmato. Rispettiamo quanto affermato dal Prefetto, e comprendiamo che sono varie le componenti che hanno portato alla decisione presa, e varie le responsabilità; probabilmente, più errori hanno portato ad un risultato che noi consideriamo assurdo. C'è, però, nella filiera di responsabilità che, nelle varie decisioni, si accavallano, un corto circuito, un aspetto più grave degli altri, che intendiamo porre in rilievo, e riguarda l'atteggiamento chiuso, ostinato e sordo della Lega Calcio. Consideriamo come fatto del tutto rilevante la fortissima contrarietà, manifestata apertamente dal Prefetto stesso, anche in passato e in forma ufficiale, nei confronti della Lega per l'ostinazione con la quale ha inteso fissare giorni e date di alcune partite fortemente a rischio, infischiandosene di tutte le implicazioni riguardanti l'ordine pubblico. Nello specifico, il Prefetto ha più volte sollecitato la Lega Calcio a non fissare le partite in casa del Catanzaro di sabato, e soprattutto di sera. A causa della collocazione geografica del “Ceravolo”, giocare di sabato confligge con attività commerciali (quali, ad esempio, il mercato degli ambulanti), e il buio serale complica fortemente la gestione dell'ordine pubblico. Non si spiega, quindi – hanno sottolineato -  Capellupo,  Concolino, Costanzo,  Giglio, Corsi  e  Guerriero - l'assoluta protervia e testardaggine della Lega Calcio nel non ascoltare nemmeno gli appelli ufficiali di Istituzioni dello Stato, probabilmente per favorire lo strapotere delle pay-tv e lo svuotamento degli Stadi. La stessa partita Catanzaro-Messina, se fosse stata fissata o spostata di domenica pomeriggio, probabilmente avrebbe avuto limitazioni diverse. Nel nostro ruolo di Consiglieri comunali, chiederemo all'intero Consiglio di esprimersi con un indirizzo di supporto a quanto affermato dal Prefetto nei confronti della Lega, e cioè di giocare le partite (e in particolar modo quelle considerate a rischio) soltanto la domenica pomeriggio. Il vero corto circuito – hanno concluso - è dato dall'arroganza di chi continua a non capire che lo sport deve appartenere ai cittadini, e non a chi antepone interessi economici e commerciali a valori che hanno ben altre connotazioni".

Violazione obblighi familiari: finisce ai domiciliari un 40enne

Ha violato le prescrizioni impostegli per assistere il nucleo familiare in un lungo periodo a cavallo tra il 1995 ed il 2012 e per questo reato i Carabinieri hanno arrestato  a Bagnara Calabra un uomo di  40 anni. Sarà sottoposto per tre mesi al regime dei domiciliari, su disposizione della Procura della Repubblica di Messina, città in cui il 40enne si è reso autore del reato per il quale è stato condannato. 

Un aliscafo Messina-Reggio ha urtato gli scogli: paura a bordo

Poco prima di fare ingresso nel porto di Reggio Calabria, un aliscafo della Ustica Lines che copre la tratta con Messina ha colpito gli scogli. Per i circa cinquanta passeggeri a bordo, tanta paura, ma nessuno di loro è rimasto ferito. Immediato è stato l'intervento della Capitaneria di porto che ha favorito il trasbordo dei viaggiatori sulla terraferma. 

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