Quando c'era il carnevale

La festa del Carnevale ha avuto, fino alla seconda metà del Novecento in Calabria, importanza e centralità nelle comunità calabresi e nonostante ciò, lo studio e l’interesse rivolto ad esso è sempre stato marginale rispetto al lavoro dedicato ad altri aspetti della cultura subalterna delle classi popolari. La scomparsa del Carnevale “tradizionale” ne rende ancora più difficile la ricostruzione. Un patrimonio perduto fatto di riti, suoni, sapori e “spirito”. Il Carnevale abbracciava un lungo periodo che solitamente andava dal 17 gennaio, (festa di S. Antonio Abate) identificato nella festa come Sant’Antuoni di lu puorcu al martedì grasso. Marti di lazata (lazari in serrese vuol dire conservare) o marti di l’azata (l’alzata del gomito per salutare le feste carnevalesche e conservare le carni del maiale appena “sacrificato”). Pochi sanno che le domeniche di Carnevale, nelle Serre e nelle pre-Serre erano quattro: quella degli amici, quella dei compari, quella dei parenti (o dei denti) e quella di Carnevale. Grande protagonista della festa restava comunque il maiale. Attorno a lui, simbolo dell’abbondanza alimentare, riserva familiare di carni salate e grassi utilizzati poi nella cucina, quando ancora il colesterolo non si era insinuato nelle nostre vene, la festa veniva costruita. Il grande abate Padula da Acri in una sua raccolta di scritti sociali, ci lascia questo detto popolare :

Amaru chi lu puorcu non s’ammazza,

cà e vide e li desidera i sazizzi.

E ancora

Miegliu criscere ‘u piorcu ca ‘nu figliu

Puru l’ammazzi e ti n’unti lu mussu.

Ai più indigenti infatti, veniva consigliato “Di lardaruolu ‘mpignati ‘u figghjiuolu”, pur di non rimanere senza carne di maiale in questi giorni di festa.  Lardaluoru era il giovedì grasso, giorno in cui il carnevale vero e proprio aveva inizio, festa che si concludeva poi con lo “scoppio” della pancia di Carnilivari rimpilzatosi d’ogni ben di Dio. Una sorta di esorcismo alla fame, agli stenti che erano compagni di viaggio della stragrande maggioranza dei calabresi. La farsa, ( come i Maggi e le Buffonate) è il teatro povero di strada spesso improvvisato e sempre di tradizione orale delle quali le testimonianze scritte sono davvero esigue, era presente in tutte le comunità, essa costituisce un genere antico risalente alle commedie latine.  Imprescindibile per capire lo spirito del Carnevale è l’opera di, Michele De Marco, (Ciardullo) che nei suoi scritti dedica ampio spazio alla festa e allo sfortunato suino “protagonista forzato” della stessa. Amori ostacolati o testamenti scherzosi, figure come Pulcinella o lo studente calabrese (spesso caratterizzato negativamente), propri della commedia napoletana, tornano ricorrenti nelle farse calabresi. In tanti paesi le farse erano riti esercitati dall’intera comunità con modalità espressive di classi sociali diverse. La contrapposizione non era solamente di tipo locale e classista. La satira era diretta a tutte le categorie sociali, ma anche a forestieri, dei quali spesso si prendeva di mira ridicolizzandolo il dialetto diverso, agli abitanti di un paese vicino (esempio lampante in Serra le poesie di Mastro Bruno dedicate ad esempio ai brognaturesi) ma anche agli abitanti di un'altra zona del paese e, spesse volte, ironica nei confronti degli appartenenti al proprio gruppo sociale. Gli attori, che nelle piazze inscenavano anche più atti, con delle vere e proprie scenografie anche se scarnite e minimali, provenivano spesso dagli ambienti più poveri. Non vi erano comici di mestiere ma “stabili recitatori”. I recitatori, i suonatori, erano spesso contadini, braccianti artigiani che una volta appalesata la loro bravura nell’imitare e nel far ridere, erano chiamati in altre occasioni conviviali durante l’anno come matrimoni o battesimi. L’ondata di migrazione degli anni Cinquanta, segna la fine dell’antica festa. La cultura tradizionale subisce un’inarrestabile declino e una grave e profonda trasformazione. Il Carnevale già in quegli anni si disgrega, diventa simbolo dell’erosione radicale dell’antica ritualità contadina. Da qui, parte la trasformazione della festa fino a scivolare in quella che oggi rappresentiamo anche in Calabria alle nuove generazioni.  Un ruolo decisivo svolgono gli emigrati che ritornano e infatti, se da una parte rimangono custodi della tradizione, congelata nei loro ricordi al momento della partenza, dall’altra introducono nuovi usi e diventano inventori di nuove tradizioni. La festa contadina muore quando gli emigrati (e quelli che sono rimasti) realizzano gli antichi sogni alimentari, soddisfano una antica fame di carne e di pane bianco che li perseguita da secoli ottenendo quella quantità di cibo che un tempo eccitava i loro sogni, la loro fantasia, il loro spirito carnevalesco, che gli permetteva di ridere delle propria fame e dei propri bisogni e di sfidare la miseria. Carnilivari, festa dell’abbondanza e del cibo, che aveva valore propiziatorio e fondante, si avvia alla fine, come quando il martedì sera veniva bruciato il suo fantoccio fatto di paglia e di stracci.  

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