Montepaone, Fratelli d'Italia ricorda il giorno dell'Unità nazionale

Riceviamo e pubblichiamo

" Parlare di unità d'Italia, nel meridione del nostro bel paese, ad oggi, risulta essere ancora un argomento quasi dogmatico, ostico nell'interpretazione ed intriso di tanto rancore ed idealismo (quasi fanatismo).

Per questo motivo è compito dei presidi partitici più patriottici ricordare alla popolazione la rilevanza politica e sociale dell'unità, a prescindere dal dato storico che può, in alcuni casi, essere sottoposto ad un cauto revisionismo.

Il tricolore, la solidità nazionale, l'unità e la democrazia rappresentano valori costituzionalmente garantiti sui quali non può e non deve porsi veto o dubbio alcuno, a prescindere dai pareri personali e dalla “presunta” logica meridionalista.

D'altra parte, migliaia di figli della nostra amata Calabria hanno immolato la propria vita a salvaguardia dell'unità nazionale, sentendosi parte viva di questa patria, troppe volte sconvolta da immotivati campanilismi ed insensati agguati alla sua esistenza.

Oggi dunque si festeggia l'anniversario dell'unità nazionale ed in tal modo si rende omaggio a tutta la nostra storia, la nostra cultura, la nostra società “unica” ed “unita”.

Fratelli d'Italia con la sua azione politica quotidiana vuole essere fronte e falange di salvaguardia del dogma della patria, rispettando e proteggendo i valori della nostra nazione in un cammino comune volto a rendere l'Italia unita non solo idealmente ma anche fattivamente.

L'obiettivo è quello di garantire una eguale qualità della vita, del lavoro, della salute e della pubblica amministrazione con atteggiamento propositivo e lungimirante a fronte dell'attuale spaccatura sociale che ancora insiste nella nostra nazione.

Il lavoro continuo sui territori, in Italia ed in Europa, vuole essere il nostro contributo a mantenere vivo l'orgoglio unitario che dovrebbe appartenere ad ogni singolo cittadino, un eredità storica e sociale che non vogliamo venga dimenticata".

Giuseppe Grande - Circolo “Audentes” Fratelli d'Italia Montepaone

La Calabria, prima e dopo l'unità d'Italia

La querelle sulle vicende pre e post unitarie dell’Italia, è stata studiata e dibattuta da moltissimi ricercatori. Ne son venute fuori delle verità storiche che mettono in risalto ciò che in passato era il Regno delle Due Sicilie. Sud Italia, con una economia positiva, dati Quaderni Banca d’Italia. Sud con uno stato sociale e culturale avanzato. Sud con lavoro e senza disoccupazione, dati SVIMEZ. La Calabria, oggi la è regione più povera dell’intera Europa, ma nel periodo pre unitario, dati SVIMEZ, era una delle regioni più industrializzate della penisola italiana e lo rimase, nonostante la chiusura della sua industria pesante, sino alla prima guerra mondiale. Solo dopo l’unificazione, nasce la questione meridionale, con il Sud ridotto a colonia del Nord che, avendo un nuovo bacino di acquirenti, oltre 9 milioni di “affamati”, diventa più ricco e opulento. Fiumi d’inchiostro sono stati versati da autorevoli storici: Gramsci, Lucarelli, Gobetti, ecc…, ma nonostante ciò nulla è mutato nel Sud e in particolare in Calabria.

E’ risaputo, che l’economia è il motore della storia. Ma l’economia viene attivata da scelte politiche. Di conseguenza, non avendo la Calabria economia, essa non ha politica. E, non essendoci la politica, i politici calabresi è come se non esistessero. Esistono i “partiti”, sia di destra, sia di sinistra, sia di centro, ma sono tenuti in scarsa considerazione nella stanza dei bottoni romana.

Non si spiega come mai pur avendo il meridione, e in particolare la Calabria e la Sicilia i più alti rappresentanti dello Stato: Mattarella, Grasso e Minniti, non si riesca a migliorare le sorti del Meridione. Mi viene da pensare, che i nostri governanti nelle loro riunioni, giochino a Monopoli, è che i veri governanti siano altri. Mi viene da pensare che il potere risieda altrove e non nel senato o alla camera dei deputati. Potere occulto, vero potere, che vuole mantenere, il Sud come un mercato per il Nord.

Le disparità si avvertono. Gli investimenti pubblici: 296 euro pro-capite al centro-nord, 107 al Sud. Nella P.A. la spesa corrente al Sud è pari al 71% di quella del centro-nord.

Sarebbe ora di reagire, iniziando a colpire l’economia del nord che cresce grazie al Sud. Il 14% del PIL del centro nord è dovuto ai consumi delle regioni Meridionali. Dove la ex Fiat potrebbe vendere i suoi prodotti? In Germania? In Francia? In Giappone? Non credo proprio. E la Parmalat? E la Motta? Dove potrebbero vendere? Sempre giù al Sud. Le propagande televisive ci bombardano, invitandoci ad acquistare tali prodotti, come se il meridione non producesse nulla, come se il Meridione fosse una landa desolata. Mi soffermo solo sulla produzione dell’olio d’oliva. Il Sud produce quasi il novanta per cento di tutto l’olio nazionale. La Calabria si attesta al 34%, la Puglia al 36%. L’Umbria l'uno per cento, la Toscana il 2. Ciò nonostante le aziende del centro nord “oliano” tutta l’Italia. Da dove portano il loro olio? Non si potrebbe pensare ad una politica agricola di trasformazione e vendita del prodotto direttamente nei luoghi e dai luoghi di produzione?

Come uscirne?

Si potrebbe e si dovrebbe, incentivare il “compra solo prodotti del Sud”. Si potrebbero ritirare tutti i risparmi depositati nelle banche e negli uffici postali, gestite tutte dai capitalisti del nord. Si potrebbe chiedere ai nostri amministratori regionali che legiferassero affinché le aziende del Nord che vendono i loro prodotti qui da noi pagassero le loro tasse nei luoghi di vendita. Ma non basta, bisogna recidere alla radice la mala politica impostaci dall’alto e fare leva sul forte senso di appartenenza di un popolo che ha sempre subito che ora ha voglia di dire basta. In Calabria non esiste un movimento o un partito che abbia a cuore le sorti della regione. I molti che si astengono dal votare lo fanno perché non credono nei politici attuali e nelle loro promesse. In passato in Calabria fu fondato il Movimento Meridionale che avrebbe potuto far sentire la voce dei cittadini calabresi, purtroppo non ebbe molta fortuna. Se è vero che la storia è fatta di corsi e ricorsi credo che dopo aver sviscerato le vicende storiche del passato e fattone le dovute considerazioni, sia giunto il momento di creare una entità politica, un movimento politico popolare che, a fianco delle associazioni culturali, ridia la voce ai meridionali e ponga in essere azioni democratiche atte a far emergere e portare a compimento le giuste istanze di un popolo che si è “rotto” di emigrare, di pagare tasse, di essere considerato il figlio di un Dio minore e di ricevere solo le elemosine da parte di uno Stato che continua a discriminare i cittadini del Sud.

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Il soggiorno in Calabria di Francesco Saverio de Sanctis

Si celebra quest'anno, il 27 marzo, il II centenario della nascita di Francesco Saverio De Sanctis, il grande letterato, patriota  e ministro della pubblica istruzione, al quale - come è noto - è dovuta la più radicale riforma della scuola.

È piacevole , oltre che doveroso , ricordare che egli trascorse  oltre un anno in Calabria dopo che gli fu sottratto l' insegnamento alla Nunzianella di Napoli nel novembre del 1848, perché nel mese di maggio si era schierato insieme con i suoi studenti ai moti promossi dall' Associazione "Unità d' Italia" diretta da Luigi Settembrini. 

Fu allora invitato dal patriota  cosentino Francesco Guzolini, barone di Cervicati, per fare da precettore del figlio Angelo.

Il viaggio via mare non fu facile, ma di certo meno avventuroso di quello via terra tra i lunghi e incerti sentieri dell'Appenino meridionale e la dissestata via Popilia, dove si sprigionava " l'anarchia la selvaggia del brigante". 

Approdato sulla costa tirrenica raggiunse Cosenza dove dimorò sino al dicembre 1849.

Fu subito colpito dallo spettacolo della confluenza del Crati e il Busento, di cui subito avvertì " il mormorio cheto dei due fiumi", " le colline dolci e verdeggianti", e " gli aridi monti su cui si vanno a posare le nubi ".

La famiglia che l' ospitava era gentile e accogliente, ma a lui mancavano i libri e si rattristava per questo col trascorre dei giorni. La città di Telesio perciò cominciò a non soddisfarlo . 

Il  clima gli diviene uggioso e pesante, ma il suo istinto creativo non si ferma: egli scrive e riscrive, in " un angolo della bassezza e della barbarie" , e durante l' estate in campagna e presso il mare nelle dimore del barone ospitante. 

Non immaginava tuttavia che presto sarebbe stato arrestato. 

Era la mattina del 3 dicembre quando il Palazzo Guzzolini, sito nel centro storico presso l'Arco del Vaccaro e la chiesa di S. Francesco d'Assisi, fu circondato da gendarmi e il De Santis venne arrestato per poi essere il 19 dello stesso mese portato a Paola per essere imbarcato verso Napoli, dove venne rinchiuso in Castel dell'Ovo con l'accusa di essere affiliato al movimento mazziniano.

Dentro le sbarre cominciò a ripensare all'esperienza cosentina con più serenità, guardando al futuro e indicando la  Calabria come "una terra di grandi promesse".

C'è da augurarsi che a due secoli di distanza tale futuro giunga a compiersi.

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Garibaldi in Calabria e la storia dei calabresi finita in tribunale

La Calabria non perde mai occasione di mostrare al mondo quanto sia provinciale; e oggi non dico sfiora ma colpisce a pieno il ridicolo, quando la lite a dove sbarcò Garibaldi, che dilania a colpi di storia Melito Portosalvo e Montebello Ionico, deve finire in tribunale; e, con i tempi secolari della giustizia, sarà un magistrato a decretare… Mi cadono le braccia.  Urge però una lezioncina di storia, essendo io più che certo essere ignoto ai più, o molto confuso, l’evento in parola. Garibaldi sbarcò una prima volta, il 19 agosto 1860, e proseguì dritto verso Napoli, dove entrò comodo e in treno il 7 settembre. Stiamo parlando di quella che è nota come la Spedizione dei Mille.  Lo sbarco che finisce in mano agli avvocati non c’entra niente con questo, e ci porta nell’agosto sì, ma del 1862. Cos’è era successo nel frattempo? Sarò breve.  Sulla strada di Napoli, quella del 1860, Garibaldi aveva raccolto circa 60.000 uomini, che, mossi da sentimenti e interessi e idee assai diverse, in quel momento erano vagamente antiborboniche. Il Regno delle Due Sicilie, in cachessia politica e militare, andava in disfacimento; arrivato a Napoli, e agendo come  capo di Stato, non faceva mistero di voler proseguire verso Roma e cacciarne papa Pio IX. Sarebbe intervenuta, a sostegno del papa, la Francia di Napoleone III, come già nel 1849; ma si agitavano Austria e Prussia, e si rischiava una guerra europea. Napoleone spinse all’intervento il Regno di Sardegna, ormai esteso a Milano, Parma, Modena, Bologna, Firenze, cedendo alla Francia la Savoia e Nizza; lo scopo era di fermare Garibaldi, e ciò avvenne. Il 9 ottobre il deluso eroe lasciava alla chetichella Napoli, dove si era insediato, vero vincitore, Vittorio Emauele II. Il 13 febbraio 1861, con la resa di Gaeta, Francesco II andava in esilio a Roma. Il Regno era finito per le sue inspiegabili debolezze politiche e umane e per avere generali e ufficiali decrepiti per età e di tutto capaci tranne che di guerra.  Vero, ma non la pensava affatto così gran parte della popolazione, che insorse fin da subito, dando inizio a quello che verrà chiamato brigantaggio. Per alcuni anni molte aree interne dell’Appennino restarono in mano ai ribelli borbonici.  A complicare le cose, ecco un secondo sbarco di Garibaldi, quello del 1862, dovunque sia avvenuto. Inoltratisi con pochi uomini sull’Aspromonte, gli si fecero incontro i bersaglieri italiana di Pallavicini, e senza tanti complimenti gli spararono addosso, ferendolo alla famosa gamba della canzoncina; e arrestandolo. Poi dite che non è un fatto antropologico! Venne poi richiamato in servizio contro l’Austria nel 1866, quando, nel disastro italico, solo lui e l’ex borbonico Pianell salvarono la faccia! L’anno dopo riprovò a prendere Roma, ma subì una dura sconfitta dalle truppe pontificie.  Chiaro che stiamo parlando di due sbarchi, uno contro i borbonici nel 1860, l’altro contro gli italiani nel 1862? Evitiamo confusioni.  Torniamo al 1862, per chiederci cosa mai volesse Garibaldi con questo strano sbarco. La spiegazione ufficiale, da lui stesso avallata, era l’intenzione di prendere Roma; ma ha poca logica, voler partire da 700 km di distanza, e voler attraversare un territorio di cui una parte in mano alle bande; e il resto saldamente occupato dalle truppe di Vittorio Emanuele. A parziale spiegazione, ricordiamo che quello d’Aspromonte è solo uno dei tanti sbarchi che ebbero di mira la Calabria come base di partenza verso Napoli o comunque il nord. Nel febbraio 1799, sbarcò presso Palmi il cardinale Ruffo, che il 13 giugno liberò la capitale dai Francesi e dai loro amici giacobini: l’unico sbarco riuscito e vittorioso. Nel 1806 sbarcò un reparto britannico, che battè i Francesi a Maida - S. Eufemia; ma si ritirò senza effetti. Nel 1815 sbarcò Murat a Pizzo, subito catturato, e fucilato il 13 ottobre. Nel 1844 sbarcarono i fratelli Bandiera, messi a morte. Nel 1849 il siciliano Ribotti, sperando invano di trovare aiuti per la rivoluzione dell’isola. Il 14 settembre 1861 sbarcò il generale spagnolo Borjes, nominato da Francesco II comandante dell’insurrezione; venne fucilato dai bersaglieri, ma in Abruzzo. Anche gli Angloamericani sbarcarono, il 3 settembre 1943, in Calabria, senza dover combattere che in pochi casi, e l’8 venne dichiarato l’armistizio; subito dopo effettuarono una ben più massiccia operazione a Salerno, contrastati ormai solo da truppe germaniche.  Nei mesi precedenti, Garibaldi aveva più volte dichiarato le sue intenzioni; e resta dubbio se il governo (Cavour era morto da più di un anno, e gli era successo Rattazzi) abbia tenuto un atteggiamento ambiguo, magari sperando di fare a Roma quello che era stato fatto a Napoli. Ma l’imperatore francese non poteva permetterlo, dovendo rendere conto al partito cattolico da cui era sostenuto. Garibaldi agì dunque di sua iniziativa. Niente niente voleva avere qualcosa a che fare con i briganti, cui attribuiva, arbitrariamente, un pensiero di matrice democratica? Se fosse così – e lo diciamo a titolo di pura fantasia e badando solo agli aspetti bellici della faccenda, però… - allora sì che le bande avrebbero trovato un capo capace e di tenerle sotto disciplina, e di farne buon uso sui campi, e meglio nei boschi di battaglia.  Ipotesi, mera ipotesi; vero però che la situazione politica e ideologica dell’Italia di quegli anni confusi era tale da lasciare spazio a ogni iniziativa; e se mazziniani e repubblicani erano ancora minoranza, erano tuttavia anche molto attivi e pochissimo moderati. A loro volta, i briganti, a parte un antichissimo sentimento di fedeltà al Regno e perciò al re, tutto si può dire di loro tranne che avessero le idee chiare sul presente e sul futuro: un vuoto che qualcuno poteva tentare di colmare.  Alla fine, come leggete, c’è qualche problemino più curioso e interessante, e di maggiore serietà storiografica, che andare in tribunale per stabilire di chi fosse, nel 1862, un tratto di spiaggia deserta. Ma la Calabria è provinciale, e pur di darsi importanza… E ci sono tanti avvocati speranzosi d’incarico…

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Mastro Bruno Pelaggi e l'Unità d'Italia

Christopher Duggan, ne è pienamente convinto. Il nucleo emotivo su cui si basa l’unità d’Italia è debole ed inconsistente.

Nel suo saggio “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi”, lo storico inglese, sostiene che figlio di ambizioni e frustrazioni, di slanci e di sconfitte, vi fu l’incapacità da parte dello Stato nazionale di risolvere la cosiddetta Questione Meridionale.

Cantore in presa diretta della nascita dello Stato unitario e della Questione Meridionale, dei problemi ad esso connaturati e dei danni che il nuovo governo arrecò al Mezzogiorno ed in particolare alla Calabria, è stato il poeta Mastro Bruno Pelaggi (Serra San Bruno 15 settembre 1837 – 6 gennaio 1912) che visse quasi tutta la sua parabola esistenziale nel paese della Certosa.

Il “poeta – scalpellino” aveva imparato la vita alla severa scuola della crudezza e aveva improntato la sua esistenza ai principi della giustizia e dell’uguaglianza, assumendo il concetto del bene e del giusto quale regola inflessibile di condotta.

Come rilevato da Biagio Pelaia che ha curato “Li Stuori”, esaminando le liriche di Mastro Bruno è possibile rinvenire, in alcuni componimenti, concetti e principi omogenei. Pur non potendo parlare di pensiero sistematico, in quando il poeta scalpellino non ebbe una cultura letteraria né tantomeno filosofica, è possibile tuttavia parlare di una concezione etico-politica che caratterizza la maggior parte delle sue poesie e che ne fa un acuto osservatore e denunciatore della nascente Questione Meridionale.

Certo, non è possibile parlare di una “poetica politica” come frutto di una coscienza di classe.

Piuttosto, ad animare la penna del “poeta – scalpellino”, c’é un naturale “istinto di classe” frutto della consapevolezza che al mondo esistono due categorie di esseri umani, gli sfruttatori e, gli sfruttati, cui il poeta serrese sa di appartenere.

In Mastro Bruno, dunque, la Questione Meridionale, come sostenuto giustamente dallo studioso Biagio Pelaia, si manifesta non soltanto come testimonianza diretta, ma, soprattutto, come vicenda umana personalmente vissuta e sofferta.

Partendo dalla propria esperienza, Pelaggi  matura riflessioni e considerazioni che saranno alla base della coscienza meridionalistica. Sebbene vi siano otto componimenti interamente dedicati al periodo monarchico-unitario, vi è un solo frammento, costituito da otto quartine, dal titolo “Quand’era giuvinottu”, in cui il poeta serrese tenta di cogliere, a posteriori, le differenze tra il regime borbonico e quello unitario.

Quand’era giuvinottu,/ jio mi ricuordu appena/ ca si dicia ca vena/ Cientumasi;/ di sira, ‘ntra li casi,

cu’ certi carvunari,/ pimmu ‘ndi dinnu mali/ dilli Borboni/ Ch’era ‘nu lazzaroni/ ‘n sigrietu si dicia;

c’ognunu non vulìa / mu parra forti, / picchì a sicura morti/ jia ‘ncuntru, o carciratu/e pue cadia malatu/ e si futtia./Tandu non capiscia;/però (mancu li cani!),/cu chist’atri suvrani/si dijuna.

‘N Calabria ormai la luna/Va sempi alla mancanza,/e non c’è cchiù spiranza/ca ‘ndargimu.

C’arriedi sempi jimu,/li mastri e li fatighj;/chissu lu capiscivi/non di mò;/Ca lu Guviernu vò

sulu pimmu ‘ndi spògghja,/ mu ‘ndi leva la vòggjia/  mu stacimu …                                                                                                          

In questo frammento, nei versi iniziali, Mastro Bruno, ricorda uno dei tanti episodi della sua gioventù e riporta un piccolo squarcio dell’attività cospirativa che, verosimilmente, dovrebbe datarsi intorno al 1848, quando la propaganda antiborbonica era molto intensa. Cientumasi era il cospiratore, il ribelle. Ciò che emerge fin dai primi versi è la segretezza e la paura dell’attività cospiratrice pre-risorgimentale, cui, curiosamente, anche i piccoli centri come Serra San Bruno erano interessati. Il poeta, dopo aver descritto quest’attività, pone il confronto col regime unitario ed il dato di fatto emergente è sconvolgente.

Se durante il periodo borbonica, da un lato, la libertà, soprattutto quella di espressione e dissenso, era pressoché negata, col nuovo regime sabaudo le classi che potremmo definire “proletarie” vivono la fame e vengono sommerse da nuove tasse destinate a rimpinguare le casse dell’indebitato Stato piemontese. E’ noto agli storici, infatti, come le maestranze artigianali (meastranza “di la Serra”), che spesso erano rappresentate da veri e propri artisti, dopo l’unificazione entrarono in un periodo di crisi inarrestabile che ne comportò un lento e inesorabile processo di decadenza fino alla loro scomparsa.

Basta! – Simu ‘Taliani!  / Gridamma lu Sissanta.                                                                                                     (Ad Umberto I, vv. 69-70)

Le parole di Mastro Bruno sono emblematiche nell’esprimere la passione con cui anche i ceti proletari e più poveri avevano guardato all’unificazione. L’impresa dei Mille sembrava voler chiamare tutti gli italiani verso una meta comune. Ma fu un’illusione, dopo l’Unità, le divergenze, sociali ed economiche, riaffiorarono con maggiore crudezza.

In particolare, la nuova politica fiscale imposta dai piemontesi, obbligò il nuovo Stato e le classi sociali più deboli a farsi carico dei debiti portati in dote dal regno Sabaudo.

Sul popolo calabrese, dunque, si abbatté una serie infinita di tasse: la comunale e la provinciale, la tassa di famiglia e quella sul macinato, oltre all'inimmaginabile tassa di successione e all'impensabile leva obbligatoria. La gente del meridione, dopo aver vissuto l’illusione di essere stata riscattata dall’unità nazionale, dovette rassegnarsi nuovamente. Il Mezzogiorno patì l’abbandono non soltanto economico ma soprattutto sociale e morale.

Cosi Mastro Bruno, scrive al Re per esprimere la disperazione e solitudine dell’uomo meridionale, sfruttato e deriso dai potenti:

Picchì hai mu li nascundi / li gridi calabrisi/ Non pagamu li spisi/’guali atutti?/ Ma tu ti ‘ndi strafutti/ li deputati cchiùi:/duvi ‘ncappamma nui,/ povar’aggenti!

(Ad Umberrto I, vv. 97 – 104)

Ma non ricevendo alcuna risposta da Umberto I, decide di rivolgere il suo lamento al Padreterno, nella speranza che almeno il cielo si accorga della sofferenza che attanaglia il meridione:

Non vidi, o Patritiernu,/ lu mundu mu sdarrupi/ ché abitatu di lupi/ e piscicani?

 (Lettera al Padreterno, vv 1- 4)

A nui ‘ndi scuorticaru/ li previti, l’avaru/ e lu Guviernu

 (Lettera al Padreterno, vv 110 - 112)

In effetti, tra il 1865 ed il 1890 lo Stato unitario spese ingenti somme per l’acquisto di beni ecclesiastici e demaniali, che di fatto impedirono investimenti che avrebbero potuto ottimizzare l’agricoltura meridionale.

Alla fine Mastro Bruno Pelaggi, deluso ed amareggiato, preso dallo sconforto e sentendo tutte le sue forze svanire, decide di raccontare il suo tribolare alla luna, quale unica e impassibile spettatrice delle sue sofferenze, affidando al suo mutismo il compito di raccoglierle e portarle a riposare con se.

Essa è l'interlocutrice cui il poeta serrese rivolge i suoi lamenti, con la consapevolezza di non ottenere mai risposta, poiché essa rappresenta l'infinito, l'eterno e l'immortale, in altre parole ciò che un uomo non potrà mai essere.

Quantu’ agghjuttivi amaru/ ‘ntra ‘st’esistenza mia!/ Luna, si non niscia/quant’era mieggju!

 

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L'Unità d'Italia e la confederazione mancata

 Un conato pietoso della cultura risorgimentalista fu quello di far credere che l’Italia sia stata “divisa nel Congresso di Vienna del 1815”, quando essa perse la sua unità nel 568, cioè 1247 anni prima, con la mancata conquista totale da parte dei Longobardi. Da allora, un turbinio di entità più o meno statali, e mutamenti di assetti e di confini. Più stabile il Meridione, ma dal 1282 si separò la Sicilia; infine, nel XVI secolo, parvero compatti alcuni Stati come Venezia, Milano, Firenze, la Chiesa e Napoli; ma presto molti finirono connessi a vario titolo alla Spagna, poi all’Austria. Nel XVIII secolo si può parlare di un recupero dell’indipendenza politica con Stati notevoli quali Regno di Sardegna, Granducato di Toscana e i due Regni di Napoli e di Sicilia, distinti ma almeno uniti sotto lo stesso sovrano; mentre Venezia decade. Si diffonde dovunque l’uso ufficiale della lingua italiana (“toscano”), per quanto debba di fatto convivere con latino, volgari regionali e francese illuministico poi giacobino e napoleonico. Con queste premesse, era palesemente un errore logico pretendere di unificare questi territori dalla così variegata storia, applicando all’Italia il modello della “Nation une et indivisible” della Francia che era da secoli effettivamente unita per la forza di una monarchia centralista. Andava piuttosto pensata una confederazione che evolvesse, in tempi ragionevoli, in federazione.  La propose l’Austria nel 1815, ma declinarono l’invito i re di Sardegna e delle Due Sicilie, timorosi di perdere anche formalmente un’indipendenza già precaria: gli Asburgo infatti possedevano direttamente o indirettamente Lombardia, Veneto, Trentino, Istria, Dalmazia; e influivano su Parma, Modena e Firenze; il papa Pio VII già si era rifiutato anche di entrare in una presunta Santa Alleanza di cattolici, luterani, ortodossi, turchi e massoni. Tornò a parlarne Vincenzo Gioberti con un’ipotesi neoguelfa: confederazione italiana sotto la presidenza del papa; non teneva conto della presenza austriaca, ed era perciò politicamente debole. Gli si oppose Cesare Balbo con un’ipotesi neoghibellina, che sperava nel ritiro dell’Austria in cambio di espansione nei Balcani ancora turchi, e assegnava la presidenza al re di Sardegna. Anche nel fronte repubblicano il Cattaneo e il Pisacane s’interrogavano su unità e regioni. L’elezione di Pio IX sembrò far trionfare i neoguelfi, e la guerra del 1848 fu combattuta, inizialmente, in nome di una non precisata ma dichiarata “Lega”. Tuttavia solo la Sardegna dichiarò guerra all’Austria, mentre la Toscana e la stessa Chiesa mantennero un atteggiamento ambiguo; e Ferdinando II inviò la flotta a difendere Venezia e Guglielmo Pepe a combattere assieme a Carlo Alberto, ma senza un’alleanza definita e nemmeno una guerra dichiarata all’Austria: inizio di una continua incertezza politica che condurrà il Regno all’isolamento e alla fine del 1860. Gli avvenimenti interni delle Due Sicilie (guerra alla Sicilia ribelle, giornata del 15 maggio, riconquista della Sicilia l’anno dopo), la sconfitta di Carlo Alberto la prima e la seconda volta, l’intervento francese a Roma fecero cadere ogni ipotesi di confederazione, anzi gli Stati italiani parvero ridurre ogni rapporti politico e diplomatico tra loro. Nemmeno nacque un fronte conservatore (non dico “reazionario”, che è una parola nobile e tragica, e lontanissima dai paciosi Ferdinando e Leopoldo eccetera) tra Stati che dovevano capire essere minacciati dalla politica di Cavour e Napoleone III; né un fronte rivoluzionario, perché Cavour seppe imporsi non solo sugli inoffensivi ideologi democratici ma anche su Garibaldi, l’unico che poteva esercitare un’azione concreta e mettere assieme persino delle cospicue forze armate. Così l’Italia fu non unita ma unificata, e a colpi di annessioni al Regno di Sardegna e alle sue istituzioni e alla sua legislazione. Ma persino questo si poteva in qualche modo non dico evitare, almeno mitigare, se la Toscana ottenne di mantenere il suo Codice Leopoldino, e, dal punto di vista giuridico, fu una specie di regione federata fino al Codice Zanardelli del 1890.  Il Regno delle Due Sicilie rimase estraneo a tutti gli eventi europei e italiani dal 1854, mentre avrebbe dovuto schierarsi o pro o contro l’Austria eccetera; né provò un’intesa con Torino o qualsiasi cosa del genere. Non rispondetemi con aneddoti: quando tentò, Garibaldi era già quasi a Napoli, e il Regno non aveva più carte da giocare. Anche i liberali siciliani e napoletani avrebbero potuto trattare con Garibaldi e Cavour, e ottenere condizioni opportune per il cambio della moneta, la conservazione del nobilissimo sistema giudiziario napoletano, eccetera. Da bravi meridionalotti si sbracarono di fronte allo straniero, come faranno nel 1943 con gli Americani e farebbero anche con gli sbarcati da Marte. Chissà se una confederazione italiana avrebbe fatto meno danni dell’unificazione frettolosa e forzata? Sarebbe bello aprire una discussione, e mica solo sul passato, anche sull’avvenire.

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