Quando Matilde Serao andò a curare la depressione a Ferdinandea

“Passerò l’agosto ed i primi di settembre non a Napoli, non a Castellammare, ma in Calabria nella foresta della Ferdinandea, dove il Fazzari ha trovato delle miniere di ferro. Desidero avere queste impressioni di montagna che mi sono ancora ignote e desidero una solitudine, un distacco breve ma completo.”

Dopo tantissime e dure ore di viaggio in treno giunse nella solitaria stazioncina di Monasterace e qui venne ad accoglierla il suo amico Achille Fazzari, l’intraprendente ex garibaldino, ex sarto, senatore del nuovo regno, compare d’anello alle nozze di Garibaldi con Francesca Armosino.

Era l’agosto del 1883 e la giornalista-scrittrice veniva in Calabria invitata dall’amico Fazzari: “venite alla Ferdinandea e vi sentirete di nuovo nelle vene la linfa della giovinezza.”

L’ospite illustre e bisognosa di serenità tra il silenzio delle montagne era Matilde Serao, prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, il Corriere di Roma e candidata al Nobel per la Letteratura per ben sei volte. Era ancora molto giovane, ventisette anni, ma depressa.

Così descriveva le nostre contrade la Serao in un articolo per il Corriere di Roma del settembre 1886: “Ascende la carrozza fra le prime macchie, rade ancora, e gira intorno ad una collina, scoprendo ogni tanto con l’occhio l’immenso Jonio glaciale senza una vela. Lievemente l’aria rinfresca. Ecco Stilo, una piccola città bruna bruna, antica, medievale, fabbricata a mezza costa; cittadina fiera e malinconica con le sue chiese antiche. Si traversa Stilo: le calabresi dal volto pallido vi guardano senza curiosità da dietro piccoli vetri delle loro finestre. La vegetazione poi diventa sempre montanara e si gira sui fianchi della montagna, ora seppellendosi fra gli alberi, ora rasentando un precipizio spaventoso. Qui e là spunta la roccia, nuda, nera, ciclopica. Non dunque questo paese è Ferdinandea? No, questo è Pazzano: paese di pietra e paese di ferro. Sta nell’aria e si respira il ferro: sgorga e si rovescia dalla bocca delle miniere, già riattivate (dal Fazzari) rossastro, sottilissimo, dilagante in flutti di polvere.

Non c’è che dire: un accattivante ritratto della vallata dello Stilaro, della città del Campanella e della Pazzano tutta ferro e granito, speciali doni del Consolino.

Ma poi perché mai le donne di queste parti le apparivano “dal volto pallido” e non belle, simpatiche e more? La depressione fa brutti scherzi.

Un intero mese alla corte di don Achille, alla reggia borbonica della Ferdinandea, tra battute di caccia e tanto silenzio e con la bella vista di reperti storici e archeologici ivi presenti, eredità dei Borbone e delle collezioni dello stesso Fazzari. Stava a meraviglia qui donna Matilde: poteva darsi alla lettura attingendo alla ricca biblioteca; suonare chitarra e pianoforte; giocare a bocce, a scacchi, a bigliardo; fare lunghe camminate ossigenanti, andare a cavallo; una cucina sana con ottimi funghi porcini e tanta selvaggina.

E poi, non meno importante, l’acqua miracolosa della Mangiatorella tanto reclamizzata in tutto il regno.; era l’acqua che faceva per lei depressa come era per via dell’obesità, l’acqua che “distrugge l’acido urico fisiologico cinque volte più della Fiuggi” secondo il prof. Gauthier della reggia università di Napoli.

Non c’è che dire: un bel soggiorno da non dimenticare così facilmente. Forse solo un inconveniente, le mancava la corrispondenza puntuale e giornaliera, perchè qui “ le lettere arrivano assai tardi come se venissero da Pietroburgo; quando piove il postino non compare per tre o quattro giorni in un mese.”

Come dire: non si può avere tutto dalla vita. Venne il tempo del rientro a Roma, il ritorno alla routine, tra novelle, romanzi, saggi, scritti sgrammaticati, come dirà qualcuno, ma di tanto successo. Scriveva di cronaca e alla gente piaceva quello scrivere spontaneo e mai ricercato, popolano.

Aveva ripreso a lavorare tanto e con tanta serenità che le derivava sicuramente dal salutare soggiorno a Ferdinandea.

 

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Storia vera delle "Reali ferriere ed officine di Mongiana"

La Calabria vanta un vecchio legame con l’estrazione e la lavorazione dei metalli. Una storia  ricostruita, nei primi anni settanta, da Gennaro Matacena e Brunello De Stefano Manno nel volume “Le reali ferriere ed officine di Mongiana”. L’insediamento mongianese ha rappresentato “l’ultima testimonianza di un’attività fusiva che in Calabria risale al tempo degli insediamenti commerciali fenici”. Un’attività, nata in ragione di un vantaggio competitivo determinato dalla disponibilità di tutte le materie prime necessarie. La presenza del ferro nelle miniere dei monti Stella e Cosolino che circondano il triangolo Stilo – Bivongi - Pazzano; i ricchi boschi di faggio di Monte Pecoraro e le inesauribili risorse idriche che solcano l’intero territorio. Mongiana, nasce, infatti, in tempi relativamente recenti ed è “una gemmazione” di precedenti piccole ferriere. Una gemmazione dettata da ragioni prettamente economiche. L’enorme consumo di carbone vegetale, “rendeva le ferriere industrie nomadi”, costrette ad inseguire i nuovi boschi dai quali ricavare il carbone necessario ad alimentare gli altiforni. Come ricordano gli autori delle “Reali ferriere ed officine di Mongiana”, “nel 1771, distrutto il bosco di Stilo, i forni giungono in località Cima, detta poi Mongiana dal nome di un ruscello che scorreva sulla Piana Stagliata-Micone”. Intorno al primo nucleo di forni si svilupperà il paese e con l’introduzione delle prime leggi di tutela forestale, la ferriere perderà il carattere itinerante e assumerà quello d’industria stabile. Un primo impulso alla siderurgia calabrese arriva a partire dal 1734, in seguito alla rinascita del Regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone e dal suo dinamico primo ministro Bernardo Tanucci. In quel periodo, la “produzione nazionale di ferro si attesta intorno alle 10.000 cantaia, quella dell’acciaio intorno a 1.300. In Calabria se ne producono 2.400, di cui la metà a Stilo”. Si tratta di una produzione di qualità piuttosto scadente, tanto che il sovrano decide di far chiamare a Napoli “due drappelli di sassoni e Ungheri […] Uffiziali istrutti nella metallurgia sotterranea, minatori, fabbri per costruire macchine, uomini esperti nel preparar metalli avanti la fusione, e quanti altri mai potessero abbisognare alla impresa di investigare e scavare miniere”. La pattuglia sassone è guidata dal consigliere Hermann, professore presso l’Accademia mineraria di Freyberg, mentre a capo degli ungheresi c’è un non meglio identificato Fuchs. Ai tecnici viene affidato il compito, da una parte, di effettuare prospezioni del sottosuolo, dall’altra d’istruire le maestranze. “A Stilo prende dimora il sassone Bruno M. Schott” che dirige lo scavo di nuovi filoni. A capo delle ferriere, in qualità di amministratore, viene posto Giovanni Conty il quale, a causa delle difficoltà riscontrate, chiede di essere messo nella condizione di ristrutturare l’intero complesso o in alternativa di essere avvicendato. Con l’ultimatum, Conty trasmette a Napoli la proposta di varare una norma a tutela del bosco ed un dettagliato piano di sviluppo che contiene la proposta di trasferire l’attività in località Cima, alla confluenza dei fiumi Ninfo e Allaro, al centro di fitti boschi equidistanti dalle due coste. La proposta viene accolta ed il Ministero dà il via libera alla realizzazione della nuova manifattura che, secondo quanto riportato dal quarto e quinto direttore della ferriera, Vincenzo Ritucci e Michele Carascona, sorge a partire dall’8 marzo 1771. Il nucleo intorno al quale nasce l’insediamento che assume il toponimo di Mongiana, è composto da due altiforni, coperti da una rudimentale tettoia e quattro baraccamenti. Nel 1789, Ferdiando IV, che nel 1759 aveva preso il posto di Carlo divenuto re di Spagna, fa bandire un concorso per un viaggio di studio in Sassonia, Baviera, Austria, Francia ed Inghilterra. “Scopo del viaggio è studiare la composizione chimico fisica dei minerali, conoscere le nuove tecniche estrattive, avvicinarsi al mondo produttivo e, non ultimo, impadronirsi delle nuove tecniche adottate dall’industria europea”. Il viaggio dei sei vincitori, Carmine Lippi, Giovanni Faicchio, Giuseppe Melograni, Vincenzo Raimondi, Andrea Savaresi e Matteo Tondi si conclude, nel 1797. Ritornati in patria il Governo, determinato a far fruttare le conoscenza acquisite, spedisce in Calabria, Tondi, Melograni, Faicchio e Savaresi che stravolgono tutti i metodi di lavorazione. Le vicende del neonato “stabilimento” s’intrecciano con quelle della Rivoluzione Francese. I lavori per la realizzazione della ferriere non sono rapidissimi. Fino al 1790, Giovanni Conty annota solamente le produzione delle ferriere di Piano della Chiesa. Alla sua morte, l’amministrazione passa al figlio, Massimiliano. Le prime produzioni di un certo rilievo risalgono agli ultimi anni del Settecento, quando la ferriera produce 3.750 cantaia di ghisa, 1.870  cantaia di ferro fucinato, ovvero 337 tonnellate di ghisa e 168 di ferro. Alla lunga gestazione ed alla esigua produzione si aggiunge, nel 1796, il dato che l’artiglieria lamenta la pessima qualità del ferro, i difettosi calibri dei cannoni e l’approssimativa fattura dei proiettili. Al termine della riconquista ad opera del Cardinal Ruffo, nel 1799 Massimiliano Conty, che si era schierato con la Repubblica, viene estromesso dall’amministrazione. Al suo posto arriva Vincenzo Squillace, capomassa delle bande di Cardinale. Ristabilita la situazione, a Mongiana rimarranno solamente Faccio e Savarese, mentre Tondi e Melograni vengono allontanati dal Regno per aver sostenuto la Repubblica. Nel 1800 il Re sancisce il passaggio delle ferriere dal ministero delle Finanze a quello della Guerra e Marina. La direzione d’artiglieria invia i suoi ufficiali a sorvegliare. Sotto l’amministrazione Squillace, vengono perfezionati gli altiforni e diversificate le produzioni delle quattro ferriere (san Carlo, san Bruno, san Ferdinando, e Real Principe). Il prodotto annuale lordo sale a 4.100 cantaia di ghisa e 2.293 di ferro. L’amministrazione Squillace dura fino al 1807 quando, sul trono di Napoli, arriva Giuseppe Bonaparte. Dal 1 gennaio 1808 l’intero stabilimento passa al ministero della Guerra e Marina che lo gestirà per i successivi cinquant’anni. Viene nominato direttore Vincenzo Ritucci, mentre Squillace diventa cassiere. In pochi anni Ritucci ingrandisce e riorganizza lo stabilimento e pianifica la produzione. Intorno agli edifici di produzione sorgono le prime abitazioni destinate ai tecnici ed ai soldati. Nel 1811, Ritucci, la cui gestione aveva sfornato prodotti buoni ma non sempre economici, viene avvicendato dal capitano Michele Carascosa il cui compito è cercare di abbassare i costi di produzione. All’inizio del 1814 arriva alla direzione il capo squadrone d’artiglieria a cavallo Nicola Landi. Nel biennio successivo vengono prodotte 25.197 cantaia di ghisa e 5240 di ferro. Il risultato è notevole, tanto più che è stato raggiunto con 200 uomini in una fonderia di 31 metri per 15 da due malandati altiforni. Dopo la Restaurazione la produzione scende sotto le 4000 cantaia di ghisa, ma si specializza. Nel 1814 entrata in funzione la Fabbrica delle Canne ribattezzata dai Borbone Real Manifettura e Armeria. A partire dal 1815 le canne di fucile vengono spedite alla manifattura di Torre Annunziata. Dopo la Restaurazione, oltre alle armi, Mongiana entra nel mercato delle produzioni civili. Il successo dell’impresa induce il ministero ad inviare in Calabria un tecnico salernitano, Domenico Fortunato Savino che, in seguito all’alluvione del 1849 che danneggia pesantemente il complesso, rivoluziona la produzione e progetta, tra le altre cose, la nuova fabbrica d’armi e le fonderie. Savino aumenta e specializza ulteriormente la produzione, introducendo un nuovo metodo di fusione ed installando la “Tiraferri”, un laminatoio acquistato in Inghilterra. Intanto, dalla fabbrica d’armi, inaugurata nel 1852, partono i semilavorati destinati a Torre Annunziata e Poggioreale. Nel contempo, viene avviata la produzione di un fucile interamente costruito in loco, il modello “Mongiana”. In seguito ad un’inaspettata visita di Re Ferdinando II, nel 1852, il complesso diventa una colonia militare ed il direttore assume i poteri di sindaco. Nasce, così, il comune di Mongiana. A novembre del 1855, una nuova alluvione danneggia la fonderia. Dalla ricostruzione sorgeranno due altiforni gemelli, il san Ferdinando ed il san Francesco, i più grandi attivi in Italia. Grazie alle nuove infrastrutture ed ai 1550 addetti, nel 1857, la produzione, supera le 25 mila cantaia di ghisa. Il 28 agosto 1860, una colonna garibaldina, guidata dal capitano Antonio Garcea raggiunge Mongiana e ne assume il controllo. Ad appena un anno dall’Unità, la produzione si riduce drasticamente. Nonostante l’ottima qualità dei manufatti che, nel 1861, conquistano una medaglia ed un diploma all’esposizione universale di Firenze e nel 1862 una medaglia d’oro all’esposizione universale di Londra, con la legge n. 793, del 21 agosto 1862, Mongiana viene inserita tra i beni demaniali da alienare. Ad acquistarla, sarà un ex sarto catanzarese, un garibaldino giunto per la prima volta a Mongiana, con la colonna di Garcea, Achille Fazzari. La nuova proprietà riavvierà la produzione nel 1881, ma si tratterà di un fuoco di paglia. Dopo soli tre mesi, infatti, l’altoforno verrà spento. Con esso si spegnerà, anche, la speranza di una terra, ancora oggi, alla ricerca di se stessa.

 

 

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Achille Fazzari, "luci e ombre" di un garibaldino calabrese

In un articolo pubblicato ieri, Bruno Vellone si è occupato di un sonetto inedito, custodito a Mongiana, nel quale Garibaldi manifesta la sua amicizia al garibaldino Achille Fazzari. Per capire chi fosse, riproponiamo un’intervista rilasciataci, poco prima della scomparsa, dal ricercatore serrese Bruno De Stefano Manno, il quale definiva l’ex sarto di Stalettì, «personaggio tra luci e ombre, laddove le ombre assumono a tratti l’aspetto delle tenebre».

La definizione, da Lei data, nell’ambito della ricerca su “La Fabbrica di Cellulosa” di Serra San Bruno sorprende, perché Fazzari, almeno fino ad ora, era stato ritenuto personaggio senza macchia, di condotta irreprensibile. Una sorta di campione dell’umanità ammantato d’aura leggendaria.

Chiacchiere frutto di una ricerca, ove mai c’è stata, basata solo su quei quattro o cinque scritti encomiastici lasciatici da suoi contemporanei, per lo più amici, compagni di merende, ospiti, se non addirittura parenti come nel caso del nipote Domenico La Russa, figlio di Gemma Fazzari. Costoro hanno messo in risalto solo le luci, non hanno fugato le ombre e hanno evitato di avventurarsi tra le tenebre del suo discutibilissimo modus operandi. D’altra parte pur volendolo, non avrebbero potuto farlo, se si tiene presente che loro unica fonte d’informazione era lo stesso Fazzari, un po’ spaccone forse, ma pronto a sfruttare le occasioni propizie per mettersi in mostra. Abile nel pubblicizzare meriti inesistenti e abilissimo nel nascondere quello che di cattivo, anzi di pessimo, andava combinando».

    Chiarisca meglio

    Premesso che nessuna ricerca organica è stata finora condotta su di lui, le poche notizie a disposizione derivano da un’intervista rilasciata in tarda età a Luigi Cunsolo, da un paio di articoli di Matilde Serao e di suo marito Edoardo Scarfoglio, dall’elogio funebre pronunciato da Vincenzo Vivaldi in occasione del primo anniversario della morte e soprattutto da un sintetico scritto agiografico, opera del nipote, straripante venerazione per il nonno. Da questo, e solo da questo, deriva la sua immagine pubblica. C’è chi ne apprezza le doti e lo esalta e chi, come il sottoscritto, lo ritiene un furbacchione matricolato con tendenza a delinquere, per di più, antesignano della mala genia dei politici nostrani di mano lesta. 

   Pertanto la fama dell’eroico garibaldino sarebbe usurpata?       

   Assolutamente no, quella non gliela toglie nessuno, fa parte delle luci. In alcuni casi troppo abbaglianti, distorte dalla trita agiografia garibaldina e non tutte controllate dal punto di vista storico, ma non si può affermare che fosse un pavido, anzi tutt’altro. Partecipò in prima linea alla campagna del ‘60, fu nel ‘62 in Aspromonte al seguito di Garibaldi, e per questo fu arrestato, fu ferito a Monte Libretti nel 1867 nel corso della spedizione conclusasi a Mentana sotto il micidiale fuoco degli Chassepots francesi. Uguale a Garibaldi fu ferito ad un piede e con lui condivise lo sprezzo del pericolo e la modestissima cultura. Fu legato da fraterna amicizia a Menotti e Ricciotti, figli di Garibaldi e all’eroe rese numerosi servizi d’ordine pratico. Per esempio: gli risolse il problema idrico del riarso orto di Caprera e con uno stratagemma, trovò il modo di liberarlo dall’increscioso matrimonio contratto con la fin troppo disinvolta contessina Raimondi. Fu testimone di nozze quando Garibaldi sposò Francesca Armosino, che egli stesso gli aveva procurato quale balia del figlioletto Lincoln, e ne divenne in qualche modo parente quando sua figlia Elsa sposò in successione Foscolo, Cairoli e Cino, tre dei sedici figli di Stefano Canzio e Teresa Garibaldi, figlia di Anita. Tentò, senza successo, di far recedere Garibaldi dalle posizioni anticlericali. Da deputato fu precursore della Conciliazione tra Stato e Chiesa, tant’è che finanche Mussolini, nel discorso letto alla Camera in occasione della firma dei Patti Lateranensi, se ne ricordò e gliene rese merito. 

  Ma, allora, le ombre in cosa consistono?

  Era di umili origini e poverissimo: circostanze, è ovvio, che non sono ombre. Le ombre gravano sulle origini della sua improvvisa ed immotivata ricchezza dato che prima delle campagne garibaldine non aveva il becco d’un quattrino. Pesanti, le tenebre si addensano su una truffa organizzata a Napoli in danno di un banchiere credulone, truffa in cui, in combutta con due deputati maneggioni, riuscì a coinvolgere a sua insaputa un principe di casa reale. Ma non è tutto: all’epoca dello scandalo della Banca Romana, scandalo responsabile della caduta del primo governo Giolitti, la commissione d’inchiesta parlamentare appurò che, grazie a connivenze di sottogoverno, a Fazzari e a uno dei suoi ex complici della truffa napoletana erano stati concessi finanziamenti completamente privi di copertura. Ancor prima di codesti scandali il nostro eroe aveva dato prova di discutibile condotta: intorno al 1870, improvvisatosi appaltatore edile, riuscì ad aggiudicarsi i lavori per il traforo del promontorio di Copanello. Avviati i lavori,  si affrettò a comprare un fondo rustico che insisteva sul promontorio. Appena ratificato l’acquisto, citò in causa lo Stato per presunti danni derivati al fondo dai lavori che egli stesso conduceva nel sottosuolo. Non contento, allo Stato chiese anche il risarcimento del materiale cavato, materiale che egli stesso aveva scaricato a mare ai piedi del promontorio. Occorsero due differenti gradi di giudizio, con discesa in campo degli avvocati erariali dello Stato, per ricondurre alla ragione il bellicoso garibaldino.

   Come mai tutto ciò non emerse alla luce del sole?

   Bisogna tenere presente che alla sua epoca le notizie circolavano con difficoltà. Quanto di cattivo accadeva all’interno delle stanze del potere raramente raggiungeva l’opinione pubblica. Pochi erano i giornali antigovernativi e quei pochi, ad esempio “il Piccolo” e “il Mattino” di Napoli, erano diretti da amici di Fazzari, nella fattispecie da Rocco de’ Zerbi e da Edoardo Scarfoglio. Il primo, tra l’altro, era uno dei due complici napoletani nella truffa in danno del banchiere Rocca e fu l’unico a pagare con il suicidio il coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana.

  E Fazzari la fece franca?

  In effetti si. Riuscì a contrabbandare un’immagine del tutto avulsa dalla realtà presentandosi sempre come un disinteressato benefattore del suo elettorato. Finora, tanto per dirne una, si è sempre creduto che avesse regalato alla comunità certosina di Serra San Bruno i graniti occorrenti alla ricostruzione della Certosa. Lui stesso in più di un’occasione se ne vantò in pubblico. E invece, come attestano i carteggi conservati nell’archivio del monastero, i graniti non solo pretese che gli fossero pagati, ma riuscì finanche a farseli pagare a ripetizione. Cosa che, con pazienza certosina, gli venne contestata dal priore della Certosa. In sostanza Fazzari ebbe due facce: una pubblica, alla luce del sole ed irreprensibile ed una privata fatta di raggiri e sotterfugi. Spiace dirlo, spiace demolire un mito, ma tant’è. Le verità prima o poi vengono a galla. E pensare che in passato, segnatamente nella zona delle Serre, gli sono state intestate strade e che, di recente, qualcuno ha chiesto a gran voce d’intestargli una piazza.

  

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