Serra e la Decauville, quando il treno arrivava a Santa Maria

Spezzare le catene dell’isolamento. È stato questo uno dei sogni più ricorrenti dei serresi. Un sogno andato avanti per oltre un secolo e mezzo e non ancora concluso.

Il primo a cercare di dare concretezza a quella che ancora oggi sembra una chimera, fu Ferdinando di Borbone, il quale, nel 1852, trovandosi in visita a Serra San Bruno e Mongiana, s’impegnò a far costruire la strada “Regia”. Una volta realizzata, l’arteria permise alle Serre di accorciare le distanze dal porto di Pizzo, da dove partivano le navi dirette a Napoli.

Meno legati al senso dell’onore, implicito al rispetto della parola data, i governanti successivi, non si preoccuparono eccessivamente di formulare promesse impossibili da mantenere.

Nei primi decenni del Novecento, infatti, l’argomento, quasi unico, utilizzato dai candidati a qualunque elezione fu la costruzione della ferrovia.

In pratica, per i politici in marsina la strada ferrata è stata ciò che per i loro epigoni in giacca e cravatta è stata la Trasversale delle Serre, un enorme bluff.

Tuttavia, seppure con le debite differenze, c’è stato un tempo in cui il treno a Serra arrivò veramente.

Un treno particolare, che rappresentò una novità assoluta e che portò nei verdi boschi delle Serre i grigi sbuffi di una locomotiva.

Il treno in questione è quello utilizzato nei primi anni del Novecento per trasportare carbone e gli alberi appena abbattuti, dal bosco al piazzale dello “Stabilimento” di Santa Maria.

Una storia ricostruita da Brunello De Stefano Manno e Stefania Pisani nella “Fabbrica di cellulosa”, il libro in cui è stata riscoperta la storia dell’opificio che per quasi mezzo secolo produsse “pastelegno”, ovvero cellulosa.

Quella che ha solcato i boschi di Santa Maria, ovviamente non era una strada ferrata destinata al trasporto passeggeri. Era una ferrovia a scartamento ridotto, di tipo “Decauville”.

Costruita negli stabilimenti francesi di Petit Bourg, la ferrovia ideata da Paul Decauville (1846 – 1922)  si prestava particolarmente per i trasporti in miniera ed in cantiere. In ragione del costo contenuto, determinato, anche, dalla semplicità delle operazioni di montaggio e smontaggio, trovò ampia diffusione anche nelle attività di esbosco. I tratti di binario erano simili a quelli impiegati nel modellismo ed una volta pre-assemblati, potevano essere posati con una preparazione minima del terreno.

Nei boschi serresi, le prime rotaie erano arrivate sul finire dell’Ottocento, quando operai “Cadorini e Sloveni […] avevano introdotto […] il sistema del taglio effettuato con le seghe” e nel contempo approntato la “rete” ferrata sulla quale viaggiavano i carrelli trainati da buoi o muli.

L’innovazione tecnologica arrivata con la Decauville non interessò soltanto l’introduzione della locomotiva, il cui fischio “lanciato quattro volte al giorno”, alle 8, alle 13, alle 13,0 ed alle 18,30, “era per i dipendenti [ della fabbrica di cellulosa] il segnale d’inizio e fine lavoro”.

Il tracciato venne rinnovato, furono installate nuove rotaie e modificate le pendenze in maniera tale da poter gestire il carico in discesa. Qualche tratto è tuttora visibile nelle vicinanze del “Guttazzu”, dove sorge un piccolo ponte, sotto cui transitavano i convogli ed un muro a secco accanto al quale passava la ferrovia.

Ovviamente, il tracciato era piuttosto tortuoso, tanto più che la pendenza non doveva superare il 25-30% e le curve non potevano avere un raggio inferiore ai 12 metri. Si trattava di accorgimenti necessari a non sollecitare oltremodo i rudimentali freni e ad impedire ai piccoli vagoni di ribaltarsi con tutto il loro carico.

Verosimilmente il “treno” partiva al mattino dal piazzale antistante lo stabilimento di Santa Maria e faceva ritorno nel pomeriggio. Un viaggio al giorno, quindi, che iniziava con gli sbuffi della locomotiva che in salita trainava il convoglio costituito da una decina di carrelli.

Giunto a destinazione, il treno veniva caricato con l’uso di paranchi in legno e con la forza delle braccia. Ogni carrello ospitava toppi di due metri, mentre i tronchi di lunghezza maggiore venivano appoggiati, a bilico, su 2 o 3 carrelli. Le operazioni di carico erano piuttosto delicate, tanto più che si doveva rendere massima l’efficienza della corsa e nel contempo impedire ai tronchi di dare origine a pericolosissimi deragliamenti.

Una volta completato, il carico veniva assicurato con robuste catene. Quest’ultima operazione, precedeva l’attività più difficile e rischiosa, il viaggio di ritorno. I vagoni venivano sganciati dalla locomotiva che seguiva il convoglio spingendolo in qualche tratto pianeggiante dove il moto tendeva a spegnersi. Lungo la gran parte del percorso, infatti, i carrelli viaggiavano grazie alla forza di gravità.

L’operazione, piuttosto complicata, era condotta dal “personale di bordo” composto da un motorista, preposto alla locomotiva, da cinque o sei frenatori e da altrettanti operai addetti al carico. Con l’aumentare della pendenza, il convoglio acquistava velocità. Diventava, quindi, fondamentale il lavoro svolto dai frenatori, i quali dovevano azionare contemporaneamente, il freno a vite e quello a bastone, montato su ciascun carrello.

In buona sostanza, l’addetto ai freni stava seduto su un tronco e con i piedi azionava il freno a bastone, mentre con una mano girava la manovella per attivare il freno a vite del carrello adiacente. Ancor meno agevole era l’operazione condotta dai due “sabbiatori” che viaggiavano distesi sul carrello di testa. Questi due operai, uno per ogni rotaia, si occupavano di spargere manualmente la sabbia sui binari, al fine di assicurare maggiore aderenza durante la salite e di rallentare la corsa in discesa.

Giunto nel piazzale dello stabilimento di Santa Maria, il treno veniva scaricato per essere pronto l’indomani.

Un via vai andato avanti fino al 1928, quando la fabbrica chiuse i battenti. Della ferrovia non rimase pressoché nulla, il materiale venne completamente “riciclato”. Le rotaie, una volta segate, vennero impiegate nell'edilizia come travi di sostegno per i balconi.

La Decauville, invece, venne utilizzata nella segheria di Santa Maria “a fianco delle semifisse a vapore che azionavano le seghe automatiche”.

La piccola locomotiva andò definitivamente in pensione nel 1947, l’anno in cui il suo fischio diede per l’ultima volta il segnale orario ai dipendenti della segheria la "Foresta" subentrata alla fabbrica di cellulosa.

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Serra, anno 1894: arriva l'illuminazione pubblica ed il paese resta al buio

“O chi luci, o chi luci, o chi alligrizza/ ca lu scuru lu tàgghj culla zappa/ Cu s’aspittava mai ‘sta cuntintizza: di notti mu ‘nc’è lu suli ’ntra sta chiazza”. Inizia così una delle tante poesie in cui Mastro Bruno Pelaggi indossa i panni del fustigatore per colpire l’umana insipienza. Nei versi di “O chi luci, o chi luci, o chi alligrizza” è distillata un piccola pagina di storia serrese. Una storia che dovrebbe rappresentare un costante memento per quanti hanno la responsabilità di maneggiare il denaro pubblico. L’episodio cui fa riferimento la poesia è realmente accaduto ed ha visto, suo malgrado, Mastro Bruno protagonista dell’intera vicenda. Correva l’anno 1893, quando, approfittando della presenza di Robert Holtmann, un ingegnere svizzero giunto a Serra nel febbraio del 1892 per collaudare una turbina elettrica nello stabilimento Fabricotti di Santa Maria, l’amministrazione comunale pensò di dotare il centro abitato della pubblica illuminazione. Come riportato da Brunello De Stefano Manno e Stefania Pisani nella “Fabbrica di Cellulosa”, “in data 22 aprile 1893, il Comune aveva avuto cura di stipulare regolare contratto con il medesimo Holtmann quale rappresentante della Zelleweger & Cremberg, ditta fabbricante apparecchi elettrici con sede a Uster nel Cantone di Zurigo. L’ingegnere s’impegna a consegnare l’impianto entro sei mesi dalla stipula ricavando la forza motrice dall’acquedotto della segheria comunale Archiforo, ritenuto da lui stesso sufficiente ad animare 80 lampade per l’illuminazione pubblica e 70 da concedere ai privati”. L’opera, che avrebbe dovuto rappresentare l’arrivo della modernità a Serra, venne aspramente contrastata da Mastro Bruno che, nella sua funzione di consigliere comunale, bersagliò con l’ironia una scelta che si rivelerà fallimentare. Gli strali per la spesa, ritenuta superflua e senza senso, indussero il poeta a scrivere versi particolarmente caustici: “La Serra avia bisuognu di li scarpi/ e pue si l’accattava la scurzetta”. In un paese in cui mancavano i servizi primari, la saggezza popolare del poeta scalpellino non poteva tollerare lo spreco di “vintidumila liri” per legare, con riferimento ai cavi elettrici, “di cuordi lu paisi”. In realtà, il costo sostenuto “si attestò a lire 18.500, pagabili in 5 rate uguali di cui la prima all’atto della stipula, la seconda alla consegna dell’impianto e le rimanenti a scadenza annuale”. Ma, al di là dei costi, il primo impianto d’illuminazione pubblica serrese era destinato a riservare non poche delusioni ai neofiti del progresso. Non solo, rinunciando alla proverbiale puntualità svizzera, l’ingegner Holtmann consegnerà l’impianto con sei mesi di ritardo rispetto al termine stabilito, ma il collaudo si rivelerà un autentico fiasco. Quanto tutto sembrava ormai pronto, alle 20,30 del 13 maggio 1894, le autorità avevano preso posto sul palco approntato nella centralissima piazza San Giovanni. La cerimonia inaugurale era stata allestita in pompa magna, con la partecipazione del clero e “gran concorso di pubblico”. Com’è facilmente immaginabile, la curiosità era tanta e ad ammirare il prodigio della tecnica che stava per rischiare le notti dei serresi, era arrivato un numeroso “pubblico” da tutto il circondario. Nessuno voleva perdersi la solennità del momento. Conclusi i discorsi di prammatica,  si diede mandato all’addetto di spegnere i fanali a petrolio. Con l’intero paese al buio, l’atmosfera d’attesa doveva essere degna di una pellicola hollywoodiana. Come nei film di cui si è letta la trama, tutti stavano con il fiato sospeso pur pensando di conoscere il finale, ovviamente a lieto fine. Ma come osano fare solo i maestri della regia, il fato riservò un finale a sorpresa. Quando i rintocchi della campana della chiesa dell’Assunta diedero il segnale di accendere le luci, non successe assolutamente nulla. Vani si rivelarono i tentativi compiuti da Holtmann che “rintanato in una cabina del lungo fiume”, cercava di febbrilmente di azionare le leve di comando. Nessuna lampadina s’illuminò e ad “accendersi fu solo l’ironia, specie quella caustica degli oppositori”. I fautori dell’iniziativa sapevano che la solennità del momento imponeva di correre ai ripari. Per cercare di salvare il salvabile, uno degli assistenti del tecnico svizzero venne mandato all’acquedotto Archiforo. “ Nei giorni precedenti era piovuto a dirotto, l’acqua scorreva veloce nel canale, la turbina girava a tutto spiano, ma i contatti disperdevano la carica nell’acqua”. Riparato il guasto, Holtmann provò nuovamente ad immettere l’energia nella rete. Finalmente qualcosa sembrò succedere. Le lampadine s’illuminarono, ma con grande delusione di chi aveva spalleggiato l’iniziativa, la luce si rivelò “fioca e tremolante, non migliore della precedente erogata dai più economici fanali a petrolio”. Come se non bastasse, l’impianto funzionò solo tre sere. A quel punto, iniziarono a sbizzarrirsi le ipotesi. Come accade anche oggi, a dare le spiegazioni più dettagliate erano le persone che ne sapevano di meno. Uno di questi soloni, giunse addirittura a sostenere che “l’ingegnere aveva sbagliato la scelta del filo. Quello messo in opera dallo svizzero, non essendo vuoto, era inadatto al passaggio della corrente elettrica!”. Rimasti “allu scuru”, i cittadini dovettero lentamente smaltire la delusione, un’attività cui i serresi, evidentemente, sono sempre stati abituati dalla politica delle promesse che non ha mai partorito fatti. Forse, per invertire il corso degli eventi sarebbe stato necessario seguire il consiglio di Mastro Bruno: “Sti cunzigghjèri stupidi e minchiuni/ vurianu currijati cuomu cani/ cu frischi, cu lignati, cu bastuni, cu pitrati, ma gruossi mazzacani”. Un consiglio caduto nel vuoto, perché a parlare di certa cose “a ‘stu paisi si perda lu tiempu”.

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