Giuseppe Barillari, il serrese che fu il vescovo più giovane d'Italia

La galleria dei serresi illustri annovera una discreta schiera di uomini di Chiesa. La cittadina bruniana ha dato, infatti, i natali a ben cinque vescovi. Domenico Antonio Peronaci, Bruno Maria Tedeschi, Giuseppe Barillari, Biagio Pisani e Bruno Maria Pelaia. Dei primi due ce ne siamo occupati qui e qui. Il terzo, Giuseppe Barillari, nacque il 10 ottobre 1847 da Bruno e Maria Giuseppa Salerno. Discendente da una famiglia di artisti, sviluppò la sua vocazione nel seminario di Squillace dove studiò greco, ebraico, filosofia e teologia. Ben presto la sua dottrina venne apprezzata in tutta la diocesi. Ancora giovanissimo, nel settembre del 1867, ricevette la prima tonsura, tre anni, il 24 settembre 1870, diventò diacono. Ordinato sacerdote il 23 settembre 1871, iniziò la sua attività d’insegnante all’interno del seminario che lo aveva accolto come studente. Grazie allo zelo apostolico con cui svolgeva la sua missione, il 23 febbraio 1890, alla morte dello zio don Giuseppe Salerno, venne mandato a Serra in qualità di arciprete della chiesa Matrice. La sua levatura intellettuale e spirituale era tale che, la pur importante parrocchia serrese, rappresentava soltanto la tappa intermedia sulla strada che lo avrebbe condotto ad incarichi ben più prestigiosi. Come riporta la Platea, la cronistoria di Serra redatta dai cappellani della chiesa Matrice: “ Nell’aprile del 1895, in un giorno di domenica, si udì un festevole suono di campane, in segno, che D. Giuseppe Barillari Arciprete era stato nominato Vescovo di Cariati – consacrato in Roma, nel suo ritorno a Serra, è stato ricevuto dal Clero, con musica, e con grande concorso di popolo”. In realtà, la data riportata nella Platea non è esatta. La nomina risale, infatti, al 30 maggio 1895, data in cui papa Leone XIII conferì a Barillari il titolo di vescovo di Menfi in Arcadia e coadiutore di monsignor Giuseppe Antonio Virdia, vescovo di Cariati. Nel momento in cui si svolse la consacrazione, il 30 giugno 1895, Barillari, a soli 48 anni, era il più giovane vescovo d’Italia. Assunta la titolarità della diocesi di Cariati, si mise a lavoro fin da subito, facendosi apprezzare per generosità, disciplina e fermezza. I frutti del suo intenso lavoro non tardarono ad arrivare. Oltre a migliorare la preparazione catechista dei sacerdoti ed a dare aiuto ai poveri ed agli indigenti, il nuovo vescovo fece restaurare il seminario ed abbellire la Cattedrale. Nonostante i numerosi e gravosi impegni, non dimenticò la cittadina che gli aveva dato i natali; così, il 13 novembre 1900, consacrò la chiesa conventuale della Certosa, appena ricostruita. La sua opera era apprezzata a tal punto che l’arcivescovo di Rossano, monsignor Donato M. Dell’Olio, una volta divenuto cardinale del titolo di Santa Balbina, gli aveva preconizzato la dignità cardinalizia. Ad impedire che Serra annoverasse tra i suoi uomini illustri, anche un porporato, l’improvvisa malattia che, il 25 novembre 1902, a soli 55 anni strappò monsignor Barillari alla vita terrena. I suoi resti mortali sono custoditi nel cimitero di Serra San Bruno. A ricordarne l’opera, una lapide, posta sulla tomba, la cui iscrizione recita: “Alla cara e venerata memoria di Mons. Giuseppe Brillari insigne per pietà cristiana, per virtù civile. Preposto alla sede vescovile di Cariati, ne rialzò il prestigio e la disciplina. Cessò di vivere in questa patria diletta il 25.11.1902 all’età di 55 anni universalmente compianto. I fratelli Francesco, Alessandro, Alfonso, Luigi, Concetta”.

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Bruno Maria Tedeschi, il vescovo che riportò i certosini a Serra

 Serra vanta una lunga tradizione di uomini fede. Tra i tantissimi sacerdoti che la cittadina fondata da san Bruno ha donato alla Chiesa, ben cinque ( per leggerne i nomi clicca qui)  sono assurti al rango di vescovi. Del primo, Domenico Antonio Peronaci, vescovo di Umbriatico dal 17 novembre 1732 al il 5 febbraio 1775, ce ne siamo occupati qui. Dopo la morte di Peronaci, Serra dovette  aspettare il novembre del 1834 prima che un altro suo figlio, Bruno Maria Tedeschi, assumesse la guida di un’importante diocesi come quella di Rossano. Come riportato nella “Platea”, la  cronistoria redatta da i cappellani della chiesa Matrice di cui Tedeschi era stato per lungo tempo arciprete, si trattò di una nomina del tutto “inaspettata” anche perché “non era uomo di rapporti”. La carenza di una rete di buone relazioni fu però compensata dalla grande “dottrina”. “Cultore appassionato delle lingue classiche predicatore e conferenziere acclamato e richiesto perfino dalla accademie napoletane si distingueva particolarmente come studioso di questioni teologiche. Capace di sostenere lunghi ed eleganti conversazioni anche in latino e in ebraico dava immediata all’interlocutore la misura del proprio sapere, unito  ad una assai intensa spiritualità”. Tutte doti che indussero papa Gregorio XVI a nominarlo arcivescovo di Rossano. Preso possesso della sua diocesi il 30 aprile, Tedeschi si segnalò fin da subito per lo spiccato dinamismo e per la determinazione con la quale cercò di riformare i rilassati costumi dei suoi nuovi fedeli. Consapevole che il migliore insegnamento si trasmette con l’esempio, pensò fosse necessario formare una nuova generazione di sacerdoti più attenti alla vita spirituale che a quella materiale. Ad offrirgli l’opportunità di mettere in pratica la sue idee, fu un evento nefasto, il terremoto del 1836 che danneggiò pesantemente l’episcopio. In quell’occasione mise in moto la macchina della ricostruzione che portò, tra le altre cose, all’edificazione di un seminario con lo “scopo di evitare che durante le vacanze i seminaristi, soggiornando in famiglia, si allontanassero dall’ambiente nel quale dovevano formarsi”. Lo zelo con cui attese al suo ufficio, non lo distrasse del tutto dalle vicende che riguardavano il suo paese natale. La sua attenzione fu rivolta in via prioritaria alla riapertura della Certosa, chiusa dopo il terremoto del 1873. A tale scopo avviò una lunga opera “diplomatica” che produsse gli effetti sperati. Come riportato da Taccone e Gallucci nelle Memorie storiche della Certosa de’ Santi Stefano e Brunone in Calabria “l’ egregio Arcivescovo accompagnò egli stesso in Serra il P.D. Paolo m. Gerard, Priore della Certosa di S. M. degli Angeli in Roma e Procuratore Generale dell’Ordine, nonché i suoi compagni Fr. Domenico Terzuoli e Fr. Alessio Moschettini. Qual delegato Pontificio per Regio, diede il Tedeschi ai 29 marzo 1840 solenne e legale possesso della Certosa di S. Stefano, con grande consolazione generale approvazione”. Fu una delle sue ultime visite a Serra, tre anni dopo, il 19 gennaio 1843, nel corso di un viaggio, intrapreso per raggiungere Napoli, venne colpito da “idropisia toracica”, ovvero un accumulo di liquidi a livello polmonare, mentre si trovava a Salerno. I suoi resti mortali vennero deposti nella cappella delle Reliquie del duomo di san Matteo, il Santo patrono della città campana. Dieci anni dopo, nel 1853, un suo illustre estimatore, il conte archeologo Vito Capialbi, dettò e fece deporre una lapide con il seguente epitaffio: “ Alla memoria di Bruno Maria Tedeschi, arcivescovo di Rossano, illustrissimo per eloquenza e scritti, caro a tutti per virtù e cortesia, che mentre intendeva andare a Napoli morì a Salerno 14 giorni prima delle Calende di febbraio  1843. Visse anni 63 mesi 9 giorni 14. Il conte Vito Capialbi cavaliere di San Gregorio Magno e San Luigi, cubiculario di SS papa Pio IX, affinché il sepolcro dell’amico benemerito non cadesse privo del titolo nell’anno della Beata Salvezza 1853".

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I “ceravolari”, ovvero gli incantatori di serpenti delle Serre

Erano figure a metà strada tra il santone ed il saltimbanco. La loro, era un’esistenza itinerante, erratica. Personaggi strani, sospesi tra inferno e paradiso, tra dio ed il demonio. Si aggiravano per le fiere con il loro bizzarro bagaglio, un contenitore in legno di forma cilindrica nel quale trasportavano i loro “attrezzi” del mestiere.

CERAVOLARI E SAMPAOLARI

Chi erano, cosa facessero, come vivessero, lo sapevano bene a Simbario dove avevano il loro regno, erano i “ceravolari” o “sampaolari”. Nella gran parte dei casi, erano astuti contadini cui la credenza popolare aveva assegnato una funziona quasi sacrale. Era a loro, infatti, che ci si rivolgeva per trovare sollievo da una malattia o per propiziare un evento positivo, come un raccolto abbondante. La figura del “ceravolaro”, per certi aspetti, rappresentava un elemento caratterizzante del piccolo centro delle Serre, al punto che, il sacerdote Bruno Maria Tedeschi, nella sua relazione contenuta nel Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato – Distretto di Monteleone di Calabria, pubblicato nel 1859, riferendosi a Simbario,  nel paragrafo riservato ai “pregiudizi e false credenze”, così si esprimeva: “Ciò che v’ha di particolare in questa materia, consiste nella credenza ai così detti Ceravolari, o Sampaolari […] Costoro sono dei contadini impostori, i quali per traffico di lucro presso la credula gente, vanno spacciando rimedii misteriosi e sicuri per guarire le più ostinate malattie, e per assicurare la prosperità dei raccolti e degli armenti. Siffatti ciurmadori camminano armati d’una scatola, con dentro alcune vipere vive, alle quali tolgono anticipatamente i denti incisori, e per meglio ingannare, scherzano coi modi più strani con quei rettili, da cui si dicono rispettati in forza di magia. In questo modo fanno la rivista delle mandre, ed esigono dei contributi, che vengono somministrati con massima sollecitudine. Per curare le malattie, praticano alcuni bizzarri riti, e tra gli altri quello da loro detto Messa di S. Paolo, che si fanno pagare senza scrupolo di ledere le tasse, o cadere in reato di simonia. Una tal sorta di Messa si riduce alla recita di alcune preci sacre, guaste e monche, e mescolate di altre formole bizzarre di un linguaggio furfantinesco, fatta da tre persone stranamente vestite di cappuccio, e accoccolate in terra, facendo gesti e smorfie nel più grottesco modo del mondo ora simulando deliquio, ora imitando i moti d’un epilettico … la plebe che viene da essi corbellata si guarda bene di farne oggetto di criminazione presso la giustizia”.

I SERPENTI E LE FIERE

I “sampaolari” erano una sorta di “incantatori” di serpenti, ma non solo. Catturavano i rettili, gli estraevano i denti o il veleno e li portavano in giro per le fiere. Il loro peregrinare iniziava, solitamente, a fine aprile e continuava per tutta l’estate. Il periodo d’attività era, inevitabilmente, legato alla disponibilità della materia prima che, come ricordava un vecchio adagio, “li nimbi di marzu risbigghianu li serpi e ntra aprili cchiù guardi e cchiù ndi vidi”, iniziava a rendersi disponibile in primavera.

Con il primo sole, quindi, prendevano il via “rappresentazioni”. Nelle piazze più frequentate, soprattutto in occasione delle feste, non era insolito imbattersi nella figura del “sampaolaro” che  faceva scorrere sul suo corpo un serpente. Lo metteva nella manica della camicia per farlo uscire da dietro il colletto, un collaudato canovaccio che richiamava un numeroso pubblico che, ogni volta, assisteva con curiosità e diffidenza allo stravagante spettacolo. L’esibizione in piazza, però, costituiva soltanto una parte dell’attività.

Come ricorda Cesare Mulè, in “Catanzaro e le Serre”, “i ceravoli (o sampaolari) vecchi rugosi dagli occhi di fiamma girano per le montagne e le fiere portando in scatole e cassettine vipere e serpi alle quali è stato beninteso sottratto il veleno. In cambio di poche lire sono pronti a dare ricette magiche, rimedi, cataplasmi, suffumigi. Talvolta recitano la cosiddetta “messa di San Paolo”, un misto di preghiere smozzicate e senza senso e di formule magiche”. La scelta di esibirsi con un serpente, non era casuale, poiché richiamava i numerosi santi ritenuti miracolosamente capaci di dominare le serpi, da san Paolo ai santi Cosma e Damiano; da san Foca, fino a san Vito. Che ci fosse un rapporto diretto, tra la religiosità popolare ed i “sampaolari” lo si deduce, inoltre, dal nome che rimanda all’episodio secondo il quale, trovandosi a Malta, “san Paolo, nel gettare nel fuco un fascio di sarmenti, fu assalito dal morso di un serpe velenoso e né uscì immune, dando così prova del suo potere di dominazione sui serpenti”.

I CERAVOLARI

La seconda denominazione, “ceravolari”, molto probabilmente si riferisce alla loro seconda natura. “Ceravolaro”, con una buona dose di certezza, deriva da “cerretano”, ovvero l’abitante della cittadina umbra di Cerreto. Proprio dal centro spoletino potrebbero aver preso uno dei due nomi i “sampaolari”. Come testimoniano gli statuti della cittadina umbra, dopo la “peste nera”  del 1348 – 49, i cerretani erano stati autorizzati a raccogliere la questua a favore dell’ordine del Beato Antonio, impegnato nella cura degl’infermi. Giorgio Cosmacini, nel suo “Ciarlataneria e medicina, cure, maschere, ciarle”, evidenzia che la funzione dei cerretani degenerò ed i pellegrini questuanti lasciarono il posto ai truffatori che approfittando della credulità popolare andavano in giro a vendere unguenti “miracolosi”. Tra i “cerratani”, ricorda Gentilcore in “Malattia e guarigione, ciarlatani, guaritori e seri professionisti”, coloro i quali esercitavano il maggior fascino sulle persone erano gli “ incantatori di serpenti”. In realtà erano molto di più di semplici “incantatori", poiché “davano antidoti contro malattie, contro morsicature di serpente, o di altri animali velenosi”. Si comprende, quindi, il motivo della loro diffusione e della loro popolarità, soprattutto nel mondo contadino dove l’incontro ravvicinato con i serpenti rappresentava una situazione tutt’altro che infrequente. Tuttavia, a dare i natali agli “incantatori” di serpenti sarebbero stati i marsi, l’antica popolazione stanziata in Abruzzo, i cui discendenti vagavano per l’Italia centro meridionale, accompagnati dai rettili che facevano scivolare sul loro corpo. Un’esibizione simile, se non addirittura uguale, a quella dei “sampaolari” i quali, però, potrebbero aver appreso la loro arte in Sicilia dove operavano i “serpari” o “ciaralli”, vere e proprie dinastie familiari che asserivano di discendere direttamente dai Marsi. Tra i dubbi, le ipotesi e le congetture, l’unica certezza e che dei “ceravolari” è rimasto soltanto il ricorso, forse.

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