Le meraviglie della Calabria, dallo Jonio al Tirreno, passando per le Serre

Tra i meravigliosi sentieri della Terra "di paradiso", salendo da Soverato sita nello stupendo Golfo di Squillace, dove il grande Cassiodoro Senatore eresse nel sec.VI presso il "Vivarium ", lo scrittorio più raffinato d' Europa, dopo aver superato Gagliato ed Argusto, approdiamo a Torre di Ruggiero, borgo titolato al Granconte normanno che passando da queste contrade alla fine del sec. XII confermò la sua protezione ai monaci calabro- greci come san Basilio Scamardi e donò vaste contrade tra Stilo e Arena a Bruno di Colonia, fondatore dei Certosini, che pose la propria dimora in S. Maria della Torre, che raggiungiamo passando da Simbario, adiacente al fiume Ancinale e da Spadola, dove sorgono le belle chiese di S. Maria sopra Minerva e dell' Addolorataa, la prima Certosa d'Italia, rinnovata nel corso dei secoli e tuttora in funzione e intitolata ai santi Stefano e Bruno a Serra S. Bruno, dove si trovano bellissime chiese, ripristinate dopo il terremoto del 1783 che rase al suolo tutti gli edifici di quel territorio insieme con quelli siti in particolare della Calabria meridionale.

Aggregato alla Certosa il Museo che conserva importanti manufatti e opere d'arte in un contesto che riproduce in scala i locali dell'eremo.

Da qui si scende a Soriano Calabro, strettamente legato alla costruzione del convento e della chiesa di S. Domenico dei Predicatori nel 1510. Distrutto nel 1659 dal terremoto e presto ricostruito sul modello dell'Escorial di Madrid dal domenicano bolognese Bonaventura Presti, fu raso al suolo dal sisma del 1783. La miracolosa statua di S. Domenico e' custodita nella nuova chiesa adiacente ai resti dell'antico convento.

Attraversato Sorianello  dove sorge la Chiesa di S. Maria del Soccorso, che conserva interessanti opere d'arte provenienti da S. Domenico di Soriano,  si scende a S. Gregorio d' Ippona sito sulle colline occidentali del Mesima e quindi a Mesiano, frazione di Filadari per giungere a Tropea meravigliosa città sul Tirreno a Capo Vaticano, custode di splendidi tesori d'arte, tra i quali la cattedrale edificata dai Normanni nel sec. XII e S. Maria dell'Isola, che Sikelgaita, vedova di Roberto il Guiscardo donò al Monastero di Montecassino. 

 

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Esce il film “Saint Bruno, Père des Chartreux”: la vita del fondatore dell’ordine certosino

È dal sito certosini.info che viene annunciata l’uscita del film “Saint Bruno, Père des Chartreux” del regista francese Marc Jeanson. Si tratta del primo documentario, della durata di 50 minuti e prodotto dalla Grande Chartreuse, realizzato nella storia e dedicato interamente a San Bruno. “L’origine – viene specificato -  ne è stata la celebrazione nel 2014 del 5° centenario della sua canonizzazione: in quest’occasione una grande esposizione è stata organizzata dai monaci certosini nel museo della Grande Chartreuse. Vi erano esposte 80 opere antiche e moderne, dal 1615 al 2014, con l’intento di scoprire l’anima di San Bruno e di mostrare come la sua paternità rimane straordinariamente presente ancora oggi”. “Il film – viene sottolineato - utilizza molto questa magnifica base iconografica, di cui gran parte non era mai stata prima presentata al pubblico. Nel documentario tutta la vita di San Bruno viene raccontata quasi unicamente attraverso le antiche cronache, illustrate con delle riprese fatte nei luoghi dove Bruno ha vissuto, in Francia e in Calabria. Vi si ascoltano anche importanti testimonianze dei suoi contemporanei, fra i quali Pietro il Venerabile, come anche brani delle Consuetudini di Certosa la primissima regola dei Certosini scritta da Guigo quinto priore di Chartreuse”. Centrale è il percorso spirituale del Santo di Colonia che, dopo essere stato uno dei più eminenti studiosi di teologia del suo tempo, attratto dalla vita eremitica dei primi Padri del deserto, decise di lasciare l’agitazione del mondo e abbandonare “le ombre fugaci del secolo” per mettersi alla ricerca del “Dio vivente”. Giunto nel 1084 nella valle di Chartreuse con sei compagni vi inizia, nell’austerità delle montagne, una forma di vita monastica, interamente votata a Dio, unica in Occidente per il suo equilibrio di solitudine e di comunione. “Il film – viene ancora rilevato - rende molto bene l’itinerario affascinante della vita di quest’uomo che ha attraversato l’Europa (Colonia, Reims, Chartreuse, Roma, Calabria), spinto sempre più dal desiderio di una vita umile e solitaria nascosta in Dio e trascinando con sé una gran moltitudine di monaci e monache nel corso dei secoli: l’Ordine Certosino. Nella seconda parte del documentario viene quindi evocata quella vita monastica che da lui è stata iniziata e che, dopo più di nove secoli, si svolge immutata, ancora oggi in questi monasteri di silenzio. Gustando questo film – è l’anticipazione per i devoti - si comprende come sia possibile cogliere un’analogia tra la bellezza sensibile espressa dalle opere d’arte o dai luoghi in cui Bruno ha vissuto e la bellezza spirituale che irradia dalla sua santità. Segno di contraddizione per la nostra epoca, splendida avventura umana e spirituale di ogni tempo e di oggi in particolare, il silenzio e la sete di contemplazione che hanno preso San Bruno ci parlano ancora e ci attirano”.

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Bruno Maria Tedeschi, il vescovo che riportò i certosini a Serra

 Serra vanta una lunga tradizione di uomini fede. Tra i tantissimi sacerdoti che la cittadina fondata da san Bruno ha donato alla Chiesa, ben cinque ( per leggerne i nomi clicca qui)  sono assurti al rango di vescovi. Del primo, Domenico Antonio Peronaci, vescovo di Umbriatico dal 17 novembre 1732 al il 5 febbraio 1775, ce ne siamo occupati qui. Dopo la morte di Peronaci, Serra dovette  aspettare il novembre del 1834 prima che un altro suo figlio, Bruno Maria Tedeschi, assumesse la guida di un’importante diocesi come quella di Rossano. Come riportato nella “Platea”, la  cronistoria redatta da i cappellani della chiesa Matrice di cui Tedeschi era stato per lungo tempo arciprete, si trattò di una nomina del tutto “inaspettata” anche perché “non era uomo di rapporti”. La carenza di una rete di buone relazioni fu però compensata dalla grande “dottrina”. “Cultore appassionato delle lingue classiche predicatore e conferenziere acclamato e richiesto perfino dalla accademie napoletane si distingueva particolarmente come studioso di questioni teologiche. Capace di sostenere lunghi ed eleganti conversazioni anche in latino e in ebraico dava immediata all’interlocutore la misura del proprio sapere, unito  ad una assai intensa spiritualità”. Tutte doti che indussero papa Gregorio XVI a nominarlo arcivescovo di Rossano. Preso possesso della sua diocesi il 30 aprile, Tedeschi si segnalò fin da subito per lo spiccato dinamismo e per la determinazione con la quale cercò di riformare i rilassati costumi dei suoi nuovi fedeli. Consapevole che il migliore insegnamento si trasmette con l’esempio, pensò fosse necessario formare una nuova generazione di sacerdoti più attenti alla vita spirituale che a quella materiale. Ad offrirgli l’opportunità di mettere in pratica la sue idee, fu un evento nefasto, il terremoto del 1836 che danneggiò pesantemente l’episcopio. In quell’occasione mise in moto la macchina della ricostruzione che portò, tra le altre cose, all’edificazione di un seminario con lo “scopo di evitare che durante le vacanze i seminaristi, soggiornando in famiglia, si allontanassero dall’ambiente nel quale dovevano formarsi”. Lo zelo con cui attese al suo ufficio, non lo distrasse del tutto dalle vicende che riguardavano il suo paese natale. La sua attenzione fu rivolta in via prioritaria alla riapertura della Certosa, chiusa dopo il terremoto del 1873. A tale scopo avviò una lunga opera “diplomatica” che produsse gli effetti sperati. Come riportato da Taccone e Gallucci nelle Memorie storiche della Certosa de’ Santi Stefano e Brunone in Calabria “l’ egregio Arcivescovo accompagnò egli stesso in Serra il P.D. Paolo m. Gerard, Priore della Certosa di S. M. degli Angeli in Roma e Procuratore Generale dell’Ordine, nonché i suoi compagni Fr. Domenico Terzuoli e Fr. Alessio Moschettini. Qual delegato Pontificio per Regio, diede il Tedeschi ai 29 marzo 1840 solenne e legale possesso della Certosa di S. Stefano, con grande consolazione generale approvazione”. Fu una delle sue ultime visite a Serra, tre anni dopo, il 19 gennaio 1843, nel corso di un viaggio, intrapreso per raggiungere Napoli, venne colpito da “idropisia toracica”, ovvero un accumulo di liquidi a livello polmonare, mentre si trovava a Salerno. I suoi resti mortali vennero deposti nella cappella delle Reliquie del duomo di san Matteo, il Santo patrono della città campana. Dieci anni dopo, nel 1853, un suo illustre estimatore, il conte archeologo Vito Capialbi, dettò e fece deporre una lapide con il seguente epitaffio: “ Alla memoria di Bruno Maria Tedeschi, arcivescovo di Rossano, illustrissimo per eloquenza e scritti, caro a tutti per virtù e cortesia, che mentre intendeva andare a Napoli morì a Salerno 14 giorni prima delle Calende di febbraio  1843. Visse anni 63 mesi 9 giorni 14. Il conte Vito Capialbi cavaliere di San Gregorio Magno e San Luigi, cubiculario di SS papa Pio IX, affinché il sepolcro dell’amico benemerito non cadesse privo del titolo nell’anno della Beata Salvezza 1853".

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Un Centro studi bruniani per Serra

Un Centro Studi Bruniani a Serra? Perché no! Si avvicina, ormai, dirompente il tempo ( aprile 2016) delle celebrazioni per il IX centenario della morte del Beato Lanuino, l’immediato successore del Santo Patriarca Brunone di Colonia ed è come rinnovare lo spirito e l’ansia di conoscere e studiare ancor di più. Beh, per questo importante appuntamento storico – religioso, perché non regalare ai Certosini, ai Serresi, ai Calabresi, al mondo intero un Centro di divulgazione del pensiero e della figura del nostro Santo e di Lanuino e approfondimento di mille anni di storia certosina e serrese insieme. È tanta e qualificata, ormai, la letteratura attorno alla Certosa che necessiterebbe maggiori studi e più propriamente un regesto di tutte le opere anche di quelle archeologiche già in nostro possesso e di quelle future. Appunto, un Centro Studi Bruniani. Per la verità, l’idea era stata già avanzata durante i giorni dell’ “Anno Bruniano” del 2001-02 e il sindaco del tempo ebbe a dire che era giunto il tempo di “cominciare a riflettere seriamente sulla possibilità di valorizzare la nostra cultura, promuovendo tutte le iniziative necessarie”, tradotto, “istituire nel nostro comune un centro di studi bruniani capace di aggregare quanti intendono seriamente dedicarsi alla ricerca sul Santo di Colonia.” In modo permanente. L’idea era stata accolta con entusiasmo anche dal comitato scientifico nazionale coordinato dal prof. Pietro De Leo. Ma a quanto pare è intervenuto il dimenticatoio! Orsù, riprendiamo il discorso, rimettiamo in moto l’iter cominciando a coinvolgere anche e soprattutto l’Università della Calabria e i tanti soggetti iniziatori. Non se ne dimentichi quel sindaco del tempo che oggi siede in Parlamento e riprenda il cammino! Che non vada perduto quanto fin qui realizzato e studiato, perché il tutto è un prezioso scrigno per la cultura calabrese altrimenti si rischia che mai “si po’ vidiri l’arva!”

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Il miracolo della "Manna" e il ritorno dei certosini

Non è un rapporto temporalmente lineare quello tra la Certosa e Serra. Ci sono state, infatti, fasi storiche in cui i discepoli di san Bruno sono stati costretti dagli eventi avversi a lasciare la “cittadella dello spirito” eretta dal fondatore del loro ordine. Dopo il passaggio ai cistercensi, nel 1192, i certosini dovettero, per la seconda volta, lasciare le Serre in seguito al decreto di Giuseppe Bonaparte del 13 febbraio 1807 con il quale, tra l’altro, erano stati chiusi i conventi con meno di 12 frati. Già minata dalla terribili e disastrose conseguenze del terremoto del 1783, la Certosa rimarrà disabitata fino a quando, l’Arcivescovo di Rossano, il serrese Bruno Maria Tedeschi, non attiverà tutte le sue conoscenze per agevolarne la riapertura. L’iniziativa, come riportato da Taccone e Gallucci nelle Memorie storiche della Certosa de’ Santi Stefano e Brunone in Calabria, trova il favore del “gran Priore Generale della Certosa di Grenoble P.D. Giov. Battista Mortaiz e del Capitolo Generale Certosino. Laonde stabilite le relative pratiche, finalmente l'egregio Arcivescovo accompagnò egli stesso in Serra il P.D. Paolo m. Gerard, Priore della Certosa di S. M. degli Angeli in Roma e Procuratore Generale dell’Ordine, nonché i suoi compagni Fr. Domenico Terzuoli e Fr. Alessio Moschettini. Qual delegato Pontificio per Regio, diede il Tedeschi ai 29 marzo 1840 solenne e legale possesso della Certosa di S. Stefano, con grande consolazione generale approvazione”. Nel maggio dello stesso anno, il capitolo generale, elegge Stefano Franchet nuovo priore della Certosa. Nelle more dell’insediamento la casa religiosa viene gestita da un certosino francese, padre Taddeo Supries. L’anno successivo, accompagnato da due oblati, Maurizio Gabrielli ed Arsenio Compain, arriva a Serra anche il nuovo priore che avvia, immediatamente, una frenetica opera di recupero delle strutture danneggiate dal terremoto. Tuttavia, l’avversità delle condizioni generali e le ristrettezze economiche inducono Franchet e Gabrielli a lasciare Serra. A presidiare la Certosa, rimane, quindi, soltanto padre Compain che non si scoraggia e cerca, con pervicacia, di recuperare il patrimonio artistico sottratto alla Certosa dopo il terremoto del 1783. Uno zelo che pagherà con la vita, dal momento che verrà assassinato il 21 ottobre 1844. Morto l’unico inquilino, la Certosa ritorna ad essere desolatamente disabitata. Quando pare, ormai, destinata al definito abbandono, nel 1852, il sindaco di Serra, Vincenzo Scrivo, trasmette alla corte di Napoli una petizione nella quale chiede la concessione di una rendita destinata a sostenere il ritorno dei certosini. Nell’attesa dell’espletamento delle formalità burocratiche, un evento prodigioso preannuncia l’imminente ritorno dei “monaci”. Nel giugno 1856 si manifesta quello che i serresi considerano un inequivocabile segno divino. Ogni mattina, infatti, sugli alberi che circondano la chiesa di Santa Maria del Bosco si forma una specie di brina di colore bianco, lo stesso della cocolla dei certosini. Per i fedeli si tratta di un prodigio, tanto più che la “brina”, una volta svanita al sorgere del sole, lascia una pellicola bianca dal gusto dolcissimo che i bambini leccano con cupidigia. Il segnale celeste non tradisce le attese ed il 4 ottobre 1856 dom Vittore Nabatino prende possesso della certosa Serrese. Il 17 aprile del 1857, il nuovo priore, dopo un breve viaggio a Napoli, ritorna a Serra con cinque fratelli che lo coadiuvano nell’opera di ripristino della Certosa. La rinascita a nuova vita del monastero viene suggellata il 30 maggio con la traslazione delle “Sacre Reliquie” cui concorrerà una folla di fedeli proveniente da ogni dove. Passeranno meno di due lustri e nel 1866 in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, la presenza dei Certosini verrà messa nuovamente in discussione, ma questa è un’altra storia.

 

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Il comunista che salvò la Certosa

E’ morto la notte scorsa, nella sua abitazione di Catanzaro, Quirino Ledda, ex vice presidente del consiglio regionale e storico dirigente del Pci. Sardo di nascita e calabrese d'adozione, Ledda è stato, negli anni Settanta, segretario regionale della Federbraccianti ed esponente di primo piano del Partito comunista italiano. Eletto, nel 1980, Consigliere regionale della Calabria, la figura di Ledda è indissolubilmente legata, anche, a Serra San Bruno ed alla storia della Certosa. Se il monastero fondato da Brunone di Colonia, oltre mille anni addietro, ospita ancora i frati dal candido saio, buona parte del merito va ascritto proprio lui. Molti non c’erano ancora, molti altri, forse, non lo ricordano più, ma sul finire degli anni Settanta le condizioni della Certosa erano piuttosto precarie. L’intera struttura presentava gli inevitabili acciacchi prodotti dal tempo. La situazione era diventata insostenibile a tal punto che iniziava, addirittura, a farsi strada l’ipotesi di chiudere definitivamente la Certosa e di trasferire i monaci in un altro convento. Quanto la situazione non fosse più tollerabile, in molti lo capirono, il 2 aprile 1981 quando, sulla Stampa di Torino, venne pubblicato un articolo dal titolo  “Anche ai certosini può capitare (a volte) di perdere la pazienza”. L’autore del pezzo, Enzo Laganà, scriveva: “I frati certosini di San Bruno abbandoneranno definitivamente il più antico cenobio fondato dal loro santo? Gli ultimi ventidue superstiti di questa storica istituzione sono, infatti, intenzionati a non affrontare un altro inverno se non saranno riparate le strutture del convento”. Il giornalista aveva raccolto lo “sfogo” del padre priore dell’epoca, Pietro Anquez il quale, “smentendo in parte il riserbo che circonda la vita” certosina, aveva “denunciato”, tra l’altro, la grettezza degli apparati burocratici. A rendere paradossale la situazione, infatti, c’era un “progetto per la ristrutturazione” che misteriosamente si era perso “nei vari passaggi da ufficio a ufficio”. Una situazione kafkiana, resa ancor più singolare dalla circostanza che il ministero dei Beni culturali aveva affermato che in Calabria non si riuscivano ad “utilizzare tutti i soldi assegnati”. Infatti, come ricorda Bruno Gemelli, nel “Grande otto”, un finanziamento c’era. La Cassa per il Mezzogiorno aveva destinato ben “ 7 miliardi di vecchie lire al restauro dell’antichissima Certosa”. Evidentemente, l’ignavia della politica e la neghittosità della casta burocratica regionale, ieri come oggi, erano le principali palle al piede della Regione Calabria. Fu in questo contesto che intervenne Quirino Ledda. Nel suo ruolo di consigliere regionale, come sottolinea Gemelli, “facendo indispettire l’apparato” del suo stesso partito, in un’interpellanza al Presidente della Giunta regionale, Bruno Dominijanni ed all’Assessore regionale alla cultura, Ermanna Carci Greco, denunciò il grave pericolo che incombeva sulla Certosa. L’intervento servì non solo a smuovere la politica che, per il tramite del Consiglio regionale, stanziò 50 milioni di lire per finanziare gli interventi più urgenti, ma innescò una vera e propria campagna stampa che mise il monastero serrese al centro dei riflettori nazionali. L’interrogazione di Ledda, nell’aprile del 1981, venne ripresa da Repubblica, in un articolo di Pantaleone Sergi dal titolo, “Ledda nella sua interrogazione ha posto ai governanti regionali alcuni gravi problemi sollecitando un intervento tempestivo”. Seguirono poi, gli interventi di Filippo Veltri e Gianfranco Manfredi sull’Unità e di Pino Nano sull’Avvenire. L’Occhio, un giornale dalla vita piuttosto breve, diretto da Maurizio Costanzo, poco prima di chiudere i battenti, nel 1981, dedicò alla Certosa un vero e proprio reportage. La campagna giornalistica e le pressioni politiche sortirono gli effetti sperati. Il 3 novembre 1984, finalmente, iniziarono i lavori di restauro eseguiti dall’impresa Borini di Torino. Alla cerimonia inaugurale del cantiere parteciparono, tra gli altri, Quirino Ledda, l’Assessore regionale alla cultura Rosario Olivo ed il Sottosegretario ai lavori pubblici Mario Tassone. Quanto l’intervento di Ledda fosse stato determinante per salvare il monastero e con esso la presenza della comunità certosina a Serra San Bruno, lo testimoniò lo stesso padre Anquez, il quale volle esprimergli la sua riconoscenza in una lettera nella qual scrisse: “ Caro Signore, Vi ringrazio moltissimo della fotocopia della vostra interrogazione al Consiglio regionale della Calabria e vi ringrazio pure del pensiero. (…) Vorrei aggiungere che a mia conoscenza è la prima volta che sento parlare di uomini politici che fanno un’interrogazione del genere e ne prendo atto: il vostro interessamento alla Certosa di Serra vi fa onore e in nome della mia Comunità vi prego di gradire la nostra gratitudine. Rimane da sperare che il vostro appello sia capito, prima che sia troppo tardi… Con distinti saluti. F.to Pietro Anquez priore”. Qualche tempo dopo, Ledda si vide recapitare una cartolina proveniente dalla Grande Chartreuse di Grenoble, ovvero dalla casa madre dell’Ordine certosino, era l’ennesimo ringraziamento che padre Anquez rivolgeva a quel comunista che aveva salvato la Certosa.

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La “Suriaca a pusiedhu”, dai certosini ai briganti

Respirare a pieni polmoni l’aria che profuma di carbone, fare lunghe passeggiate lungo il viale alberato della Certosa, mangiare la neve ed emozionarsi ancora, anno dopo anno, guardando “lu ciucciu” muoversi in modo buffo su quel palco alla festa di san Rocco, sono sicuramente le sensazioni che un buon serrese DOC non finirà mai di amare. Ma amare il proprio territorio significa anche educare, sensibilizzare e soprattutto valorizzare all’esterno ciò che la natura, la cultura e la storia di quel determinato luogo offrono.  Durante le mie costanti ricerche riguardanti la cultura enogastronomica calabrese, mi sono spesso chiesto quali fossero le peculiarità che la tradizione del mio paese potesse definire delle vere e proprie “chicche gastronomiche”.

·         Porcini..ok, nei periodi giusti dell’anno, preferibilmente non rumeni.” J

·         Le ortiche, (ardichi) dal meraviglioso sapore e dall’assurda consistenza vellutata una volta cotte.

·         I fiori di sambuco (pipi di maju), immancabile ingrediente nella famosa “pitta china”.

·         Li “viedhiruni”, simili come sapore agli asparagi, ideali nella frittata.

…e poi broccoli, rape, patate, fagioli…. E che fagioli…

Dicevamo, l’amore per la propria terra significa dunque valorizzare ciò che di buono offre… Me li fecero assaggiare per la prima volta, in una tiepida sera autunnale, Sergio e Salvatore, ne portarono un barattolo (gia cotti), non ancora etichettato e mi chiesero di fargli sapere cosa ne pensassi a riguardo. Sinceramente, un po’ di tempo prima, avevo visto delle foto sul social facebook dove un bel gruppo di amici, “cirnianu allu cirnigghiu la suriaca a pusiedhu”, e già da allora la mia curiosità era alle stelle. Quel gesto semplice, ma meravigliosamente vero, fatto di storia, tradizione e amore che riporta a quando tra le stradine del centro storico c’era chi ancora, (su grandi lenzuola o tovaglie), “amprava” la qualunque. C’era di tutto, dai pomodori ai ceci, alla lana lavata per poi riempire di nuovo i materassi, “li riesti di pipiredhi abbruscenti”, (peperoncini piccanti appesi al filo), queste le cose che ricordo, di certo un serrese DOC ne potrebbe raccontare altre mille almeno. Suriaca janca a pusiedhu dunque (fagioli a pisello delle Serre Calabre), chiamati così proprio per la loro forma rotonda e piccolina a “pusiedhu” appunto.  Chiudendo gli occhi e portando il cucchiaio alla bocca un profumo di terra ti ipnotizza l’olfatto, lo stesso odore lo ritrovi subito dopo in bocca, sapore di terra, zucchero e ceci..e acqua... Mineralità assurda come se in bocca avvenisse un esplosione di terra e acqua. Questo fagiolo riesce ad emozionare i sensi , unico nel suo genere come unica è la storia che lo caratterizza, si dice infatti che furono proprio i nostri amati padri certosini ad inserirlo nell’alimentazione di queste zone. In seguito all’avvento dei monaci dell’ordine istituito da San Bruno di Colonia proprio a Serra San Bruno, il territorio fu infatti arricchito da una varietà considerevole di alberi da frutto oltre che da piante ad uso medicinale. Vi chiederete come faccio ad avere tutte queste informazioni probabilmente… ??? Semplice!!! Si chiama “Terra Margia”, l’encomiabile progetto ideato e lanciato dall’associazione “il brigante” che mira a recuperare tutti quei terreni oramai incolti per valorizzarne i frutti dalle elevate qualità. Economia solidale quindi dove,nuovi e vecchi agricoltori, vengono impiegati  per realizzare questa serie di prodotti ortofrutticoli poi immessi sul “mercato” ad un prezzo equo. Rilanciare e nutrire il nostro territorio è questo il succo del progetto, per riscoprire e valorizzare tramite  questi meravigliosi gioielli le “terre marge”. Adoro non cuocerlo troppo, lasciandolo quasi croccante, per sentirne la consistenza zuccherina e amidosa, gli abbinamenti migliori li ho sperimentati con crostacei e molluschi, (gamberi, scampi, polpo, vongole), in zuppe autunnali con crostini di pane e buon olio evo. Si sposa benissimo anche con la rapa e una leggera punta di piccante. Il mio consiglio però, è sempre uno, assaggiatene una manciata senza nemmeno condirla, magari dopo averla cotta “ntralla pignata” alla “ciminera” o sulla “cucina economica”. Ah, se mentre guardate il vostro bel piatto pieno di fagioli e rape vi verrà in mente l’immagine dei nostri amati certosini immersi tra i boschi, non preoccupatevi.. A me è gia successo…

Alchimie…

Ringrazio l’associazione “il Brigante” per lo spunto e per la magnifica iniziativa.

Esclusivo: Le parole del nuovo priore della Certosa

Padre Basilio ha gli occhi che infondono un abbraccio, esce poco dal monastero ed è consapevole che la vita contemplativa sia la palestra per fare comunione con Dio. Un cuore e un’anima soli nel deserto certosino, luogo della carità fraterna dove si manifesta la testimonianza bruniana. Il suo accento tradisce le sue origini venete, ma si sente bene che si trova già completamente a suo agio in questo lembo estremo d’Italia. Ci accoglie con grande calore e si comprende subito come alla scuola di san Bruno anche lui ha imparato ad avere “sempre il volto gioioso e la parola mite”. Padre Basilio, dal 28 novembre del 2014, su nomina del Reverendo Padre Generale dom Dysmas de Lassus, è il nuovo Priore della Certosa di Serra San Bruno, antico monastero che Bruno di Colonia, fondatore dell’Ordine dei certosini, edificò insieme ai suoi compagni intorno al 1091. Dom Basilio ci riceve alla Certosa di San Bruno in una fredda giornata di pioggia ma, nonostante l’acqua e il gelo, sul suo volto c’è tutta la gioia di essere certosino. Padre Basilio più che parlare ama pregare: «Sa – ci dice sorridendo – la nostra vita è consacrata alla preghiera, noi viviamo per il silenzio. Di noi è  stato già detto tutto. Per noi deve parlare il nostro silenzio. La nostra deve essere una continua contemplazione nella ricerca di Dio». Pur non trattandosi di una intervista si sottopone con piacere ad una breve riflessione sul monachesimo e le sue origini. «Le radici – ci spiega – le possiamo rinvenire nella vita nascosta di Gesù a Nazareth. Trenta lunghi anni in cui Gesù nel silenzio si è preparato a quella missione che in tre anni lo porterà tra la gente e fino al sacrificio della Croce». Ma Padre Basilio arriva al monastero bruniano di Serra da quello di Farneta dove, nel 1944, dodici certosini furono assassinati dai nazisti perché avevano dato rifugio a ricercati e perseguitati nella loro Certosa. «E’ una storia triste che è venuta a galla a livello nazionale dopo il libro di Luigi Accattoli. Prima – ci racconta – era conosciuta soltanto grazie ad alcuni libri di storia locale». La speranza del nuovo Priore della Certosa serrese è quella che vicenda venga ricordata nella giusta maniera, come un momento di testimonianza di un gruppo di monaci che hanno saputo seguire Gesù fino alla fine. Dom Basilio Maria Trivellato nasce il 14.9.1934 a San Pietro Viminario (PD). Terminato il ginnasio nel seminario di Feltre (BL), nel 1953 entra nel seminario maggiore interdiocesano di Belluno dove frequenta il liceo e i 5 anni teologia. Come suo insegnante d’arte, diritto e catechetica, avrà Mons. Albino Luciani, diventato Papa con il nome di Giovanni Paolo I. E’ordinato sacerdote il 29.6.1961 nel Duomo di Feltre e diventa vice rettore del seminario interdiocesano. Dal 1965 al 1979 è parroco ad Arson, Lasen, Meano e contemporaneamente segretario dell’Ufficio Catechistico diocesano. A 45 anni decide di vivere nascosto dal mondo ed entra nella Certosa dello Spirito Santo a Farneta (Lucca). Dopo la professione solenne ricopre l’incarico di Procuratore per 11 anni e di Priore per altri 13. Ritorna come Priore alla Certosa di Serra San Bruno il 28.11.2014 dove aveva trascorso due anni (1999-2000) come Vicario, con l’incarico di celebrare la messa domenicale alla cappella esterna della Certosa. Dom Basilio è un grande amante di San Bruno, dei serresi e del nostro territorio e ricorda a memoria la lettera che San Bruno scrisse Rodolfo il Verde intorno al 1087 quando parla del paesaggio di questa splendida località:  “Per la sua amenità, per il suo clima mite e sano … per la ricchezza di fiumi, ruscelli, sorgenti, di orti irrigati … di alberi da frutto svariati e fertili”. Dom Basilio, all’inizio del suo mandato ha affidato a S. Maria del Bosco e a San Bruno i serresi, specialmente gli ammalati e i poveri, implorando grande prosperità, concordia, benessere materiale e spirituale per tutti.

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