L’aceto dei quattro ladri, l’antico rimedio contro le epidemie

La lunga disputa tra l’uomo e la malattia ha conosciuto fasi alterne, momenti in cui l’una forza è sembrata soccombere all’altra.

Tuttavia, anche nei momenti più bui, l’umanità è sempre riuscita a perpetuare sé stessa trovando, il più delle volte, soluzioni efficaci per sconfiggere i suoi mutevoli ed insidiosi malanni.

In passato, i migliori alleati del genere umano si sono rivelati lo spirito d’osservazione e le piante officinali.

E’stato proprio lo spirito d’osservazione, ad esempio, a far scoprire al medico ungherese Ignàc Semmelweis la causa della febbre puerperale che ogni anno decimava migliaia di neo mamme.

Così come le piante, con i loro principi attivi, hanno permesso di prevenire o guarire da malattie altrimenti letali.

Certo, da Ippocrate a Galeno, passando per la Scuola medica salernitana, fino ai conventi medievali con i loro Hortus simplicium, la medicina è lentamente progredita applicando un metodo empirico ante litteram.

Quando la scienza non aveva ancora occupato tutti i campi del sapere, a fare scuola infatti non erano i risultativi di laboratorio, ma l’osservazione e l’esperienza.

Pertanto, mancando d’incrollabili certezze, l’umanità antica affrontava i drammi collettivi delle epidemie a mani nude, muovendosi a tentoni alla ricerca di una salvifica via d’uscita.

A volte la soluzione vera, presunta o fallace arrivava in maniera accidentale.

Un caso singolare è quello conosciuto in Francia come l’ aceto dei quattro ladri.

Si tratta di una storia che risale al 1630, quando nella città di Tolosa imperversava un’implacabile pestilenza.

L’epidemia, com’è facilmente immaginabile, aveva messo in ginocchio la città. Tuttavia, come spesso accade, c’era chi era riuscito a trasformare la sventura in un’opportunità.

Era il caso di quattro ladri che, con disinvoltura, si muovevano tra i cadaveri, riuscendo impunemente a saccheggiare le case in cui il terribile morbo aveva seminato la morte.

La banda non si fermava né davanti ai moribondi, né davanti ai morti.

Quei corpi che la malattia aveva svuotato della vita, venivano afferrati e rivoltati senza scrupoli.

In molti cercavano quindi di capire quale fosse il lasciapassare concesso dalla peste ai quattro manigoldi.

Il segreto, come spesso accade, non era destinato a durare in eterno.

Così, un bel giorno, gli implacabili ladri vennero finalmente acciuffati, processati e condannati a morte. 

 Quando ormai stavano per essere avviati al patibolo, un giudice ebbe l’idea di convocare i quattro condannati per proporgli uno scambio: il loro segreto in cambio della vita.

L’offerta non poteva non allettare i condannati, che decisero quindi di svelare l’arcano.

Al giudice raccontarono, dunque, che a preservarli dal contagio era stato un liquido miracoloso che strofinavano su tutto il corpo.

La formula - che secondo il famoso erborista Maurice Mességué si troverebbe tuttora nell’archivio della città di Tolosa – era semplice, ma evidentemente efficace.

Per comporre la loro salvifica pozione, i quattro ladri facevano macerare nell’aceto, timo, lavanda, rosmarino e salvia.

Strofinatevi bene in tutte le parti del corpo – dissero al giudice– e passerete immuni attraverso tutte le epidemie che il diavolo manda”.

I quattro manigoldi avevano quindi usato piante, che solo nei decenni a venire, si sarebbe scoperto essere potenti antisettici.

La formula ovviamente, fece fortuna, tanto che un secolo dopo venne utilizzata, con l’aggiunta dell’aglio, durante l’epidemia di peste abbattutasi a Marsiglia.

Per i marsigliesi, tuttavia, la ricetta sarebbe da ascrivere ad un arabo che l’avrebbe data a quattro galeotti impiegati nella sepoltura delle vittime dell’epidemia  del 1720.

Qualunque sia la sua origine, l’aceto dei quattro ladri divenne un vero e proprio prodotto di drogheria, tanto da essere brevettato da un distillatore d’aceto, tale Maille che lo raccomandava a suore, preti e medici con il seguente suggerimento: “bevetene a digiuno una cucchiaiata in un bicchier d’acqua, strofinatevi per bene le tempie, quindi potrete recarvi tranquillamente a visitare i vostri malati”.

La formula segreta, che nel corso degli anni subì notevoli varianti, nel 1758 entrò a  far parte del Codice ufficiale del corpo medico francese.

La fortuna dell’aceto dei quattro ladri iniziò a scemare solo con l’avvento della farmacopea moderna ed a partire dal 1884 non venne più annoverata nel Codice della sanità militare transalpina.

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Le peste nera, l'epidemia che devastò l'Europa

Gli abitanti del grande villaggio creato dalla globalizzazione si sono, improvvisamente, sentiti schiacciati dal peso della paura.

L’angoscia ha viaggiato di pari passo con il coronavirus. Uomini e donne, soprattutto in Occidente, hanno, dall’oggi al domani, preso coscienza della loro impotenza.

Sono bastate poche settimane, a volte una manciata di giorni, per far crollare i miti che hanno cullato un’intera generazione: ovvero la libertà senza limite e l’onnipotenza della scienza.

La clausura coatta e la balbuzie degli scienziati hanno lasciato lo ”homus occidentalis” nudo, disorientato, improvvisamente privo di certezze.

Così, giorno dopo giorno, sono riaffiorate vecchie paure che si pensava appartenessero ai secoli in  cui l’essere umano non conosceva le semplificazioni offerte della tecnica e la vita era una scommessa quotidiana con l’imponderabile.

Secoli in cui le malattie falcidiavano bambini e vecchi con inesorabile puntualità.

Si sono quindi rifatti vivi spettri che si pensava relegati nei polverosi scaffali delle biblioteche. Fantasmi che ricordano che, in diverse occasioni, le epidemie hanno fatto temere al genere umano di non poter più perpetuare sé stesso.

Tra gli episodi più nefasti, gli storici hanno spesso ricordato il flagello della peste nera, la catastrofe  che, tra il 1347 e il 1353, spazzò via tra un terzo e la metà della popolazione europea.

Ieri, come oggi, la morte fu, in parte, il risultato dei progressi che avevano permesso al mondo di allora di essere connesso attraverso i traffici e le reti disegnate dai mercanti, soprattutto, Genovesi e Veneziani.

Anche in quell’incipiente crepuscolo del Medioevo, il nemico invisibile arrivò dall’Oriente e in pochissimo tempo si diffuse grazie alle rotte marittime, ai mercanti, ai pellegrini ed a quella caotica e irrequieta umanità che solcava le strade del Vecchio Continente.

Partita dalle steppe asiatiche, dove era comparsa negli anni Venti del XIV secolo, la peste giunse in Crimea.

Da qui, nel 1347, gli abitanti della colonia genovese di Caffa, la portarono a Messina, in Calabria e nei porti in cui le navi scaricavano uomini e mercanzie.

Da quel momento, il contagio si diffuse con sconcertante rapidità nel resto d’Italia, quindi in Francia, Spagna e Balcani.

In poco meno di due anni, l’epidemia raggiunge Polonia, Scandinavia, Inghilterra e Irlanda per proseguire il suo cammino, tra il 1350 ed il 1353, in Germania e Russia.

La società dell’epoca si trovò alle prese con un nemico spietato che mieteva vittime senza distinzione d’età o classe sociale.

Quando i morti iniziarono ad accatastarsi, nelle città come nella campagna - così com’è accaduto ai nostri giorni - si cercò di limitare i movimenti di  uomini e merci e di migliorare le condizioni igieniche.

Le città medievali, affollate e sporche, avevano infatti contribuito non poco ad agevolare la diffusione del contagio.

Le conseguenze della malattia furono aggravate da un eccesso di popolazione e dalla limitatezza delle risorse disponibili, soprattutto alimentari.

In molti casi, la malnutrizione si rivelò una formidabile alleata dello Yersinia pestis.

L’epidemia, portata dai topi e veicolata attraverso le pulci presenti nella loro pelliccia*, fu causa di lutti, ma non solo.

Il contagio contribuì, infatti, a dare i natali al Decameron di Giovanni Boccaccio e a condizionare, per i secoli a venire, la storia economica dell’Europa.

I vuoti lasciati dalla peste crearono, infatti, le condizioni per una polarizzazione della ricchezza, con  il risultato che la proprietà terriera si concentrò nelle mani dei pochi superstiti.

La situazione si rivelò favorevole anche per le classi subalterne che beneficiarono di un aumento dei salari.

La grande quantità di terreni abbandonati, consentì ai contadini sopravvissuti di disporre di nuovi campi, molti dei quali gravati da meno obblighi feudali rispetto al passato.

Gli effetti della pestilenza si manifestarono anche sul paesaggio. Molti villaggi, ormai spopolati, caddero in rovina ed i campi, rimasti incolti, furono sopraffatti dalla natura.

Niente fu più come prima.

Non a caso, per alcuni storici, le conseguenze prodotte dalla peste furono tali da scuotere e scardinare definitivamente il mondo medievale, dando l’abbrivio ai fasti del Rinascimento.

 

* Uno studio condotto nel 2017 dalle università di Oslo e Ferrara ipotizza che la diffusione della peste sia da attribuire ai pidocchi

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Coronavirus: dubbi sull'origine dell'epidemia, il mercato del pesce e i serpenti forse non c’entrano

Le prime pagine dei media di tutto il mondo sono piene di notizie sul nuovo coronavirus. Di notizie, e anche di imprecisioni, innescate inizialmente dalla versione dei primi comunicati del governo cinese e proseguite poi sulle pagine di alcune riviste scientifiche, che si stanno affrettando a pubblicare ricerche non sempre, giocoforza, eseguite con il dovuto scrupolo (in pochissimi giorni).

A fare un po’ di chiarezza sull’origine del coronavirus chiamato 2019-nCoV, che si sta diffondendo a una velocità preoccupante, e che ha già fatto più di 80 vittime confermate, sono ora le due ammiraglie della scienza, Nature e Science. Le riviste spiegano perché è improbabile che l’origine dell’epidemia sia il famigerato mercato del pesce di Wuhan e smontano anche le accuse rivolte ai serpenti di essere gli animali-serbatoio del virus.

Per quanto riguarda le prime segnalazioni, Science fa riferimento a un articolo pubblicato su una delle riviste mediche più autorevoli del mondo, Lancet, da diversi gruppi di virologi cinesi, che ricostruiscono quanto accaduto. Il primo paziente è stato segnalato il 1° dicembre 2019, e non era mai stato in quel mercato. Lo stesso vale per 13 dei successivi 40 pazienti contagiati. L’infezione è dunque iniziata a novembre, visto che il tempo medio di incubazione senza sintomi è almeno di un paio di settimane, e non al mercato. Questo è quanto si sa oggi, ma le autorità cinesi e l’Oms avevano segnalato la prima infezione una settimana dopo, l’8 dicembre, affermando che nella maggior parte dei primi casi (senza specificare in quanti) era emersa una visita a quel mercato.

Tratto da Ilfattoalimentare.it

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Epidemia "lingua blu": l'impegno di Mirabello per uscire dalla crisi

“Un tavolo permanente con i dipartimenti sanità e agricoltura, l’associazione regionale allevatori (ARA) e le associazioni di categoria che affronti non solo la questione della Bluetongue, malattia infettiva nota in Italia come ‘Lingua Blu’, che in queste settimane sta decimando gli allevamenti ovini nella provincia di Crotone, ma che metta in campo anche una strategia di rilancio dell’intero settore”. E’ quanto scaturito dall’incontro sulle problematiche del comparto tenutosi oggi a Catanzaro, promosso dal presidente della III Commissione consiliare Michelangelo Mirabello con il consigliere Mauro D’Acri e i rappresentanti degli allevatori del territorio crotonese.  La riunione, alla quale hanno partecipato anche i componenti dell’unità di crisi del dipartimento salute e i vertici dell’ARA e che ha registrato anche l’intervento degli allevatori evidenziando la drammaticità della situazione, è stata introdotta da Mirabello che sul tema ha presentato un ordine del giorno in discussione nella prossima seduta di Consiglio regionale. “Sono scaturiti una serie di impegni – spiegano i due consiglieri – tra cui l’arrivo, entro tempi ragionevolmente brevi, di un vaccino che consentirà la movimentazione dei capi fuori regione e, nei limiti del possibile, considerati gli strettissimi vincoli di bilancio, il reperimento di somme che, di concerto con l’ARA, possano aiutare gli allevatori ad affrontare le spese di smaltimento delle carcasse. Inoltre, l’imminente apertura dei bandi del nuovo PSR garantirà la possibilità di mettere in campo una strategia che affranchi il settore dallo stato di precarietà a cui è stato costretto in questi anni, consentendo la creazione di micro filiere e rendendo più agevole l’accesso ai fondi comunitari”. Da parte sua, Mirabello ringrazia “il collega D’Acri e il Presidente Oliverio, che segue da vicino la vicenda, per la prontezza con la quale hanno risposto alle mie sollecitazioni e per la competenza e serietà con la quale si sta affrontando la questione. Sono certo che oggi si è avviato un percorso che consentirà al settore di uscire dallo stato di crisi in cui versa e di guardare con maggiore ottimismo al futuro. Per ciò che mi riguarda, continuerò a seguire da vicino l’evolversi della situazione, convinto come sono che si tratti di un settore vitale non solo per l’economia crotonese ma anche per tutto il territorio regionale” . 

 

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