Ignazio Silone e l'eterna lotta dei "cafoni"

Nel 1935 circolava a Zurigo un romanzo che narrava, col linguaggio popolare che meglio di altri esprime la realtà, l’eterna lotta dei “cafoni” poveri della bassa Italia per la libertà e la giustizia sociale. Il libro veniva letto e diffuso tra i tantissimi profughi che vivevano nell’ospitale Svizzera o transitavano  verso Paesi più lontani e lontani da oppressioni e persecuzioni. Il romanzo si rivelò un successo, diremmo oggi un best-seller, tradotto in ventisette lingue con un milione e mezzo di copie in circolazione. Sto dicendo di Fontamara che, con lo pseudonimo di Secondo Tranquilli, aveva scritto l’abruzzese, poco più che trentenne e con alle spalle tanta sofferenza,  Ignazio Silone dall’esilio elvetico di Davos. L’infanzia in un piccolo paese della Marsica, Piscina dei Marsi, in provincia dell’Aquila, dove era nato il 1 maggio 1900, che sarà un privilegiato punto d’osservazione per i contenuti sociali di Fontamara. Quindi l’avvicinamento alla politica, l’apprendistato di militante rivoluzionario nella Lega dei contadini. A 16 anni è già un precoce ribelle e la prima scelta di lotta contro la classe dominante avviene nel 1917, con l’invio di tre articoli all’ “Avanti” per denunciare le malversazioni nella  ricostruzione post terremoto nella Marsica nel quale morirono i suoi genitori. Da questo momento ha inizio la sua attività di rivoluzionario e nella veste di segretario regionale della Federazione dei lavoratori della terra, viene processato e imprigionato per essere stato a capo di una manifestazione contro la guerra; quindi, trasferitosi a Roma, diventa segretario della gioventù socialista e direttore dell’organo ufficiale “L’Avanguardia”. Successivamente entra nelle fila del Pci subito dopo il Congresso di Livorno compiendo missioni di Partito in Germania, Spagna e Francia finchè Gramsci non gli affida l’incarico di dirigere l’ufficio stampa del Partito. Sono anni non proprio facili per l’uomo Silone che rifiuta la costruzione di una società totalitaria, poliziesca e repressiva, rifiuta, insomma, lo stalinismo e così esce dal Partito che lo bollerà con il marchio infamante di “rinnegato”. Il dovere verso la verità per Silone veniva prima della disciplina del Partito. Inizia da questo momento per lo scrittore abruzzese la vita del “senza Partito”, a turno perseguitato e calunniato da fascisti e comunisti. Inizia da qui la sua attività letteraria e l’impegno di “socialista senza Partito e cristiano senza Chiesa”,secondo una sua stessa definizione in aperta polemica contro il nazifascismo e lo stalinismo. Tra il 1936 e il ’41 pubblica altre tre opere: Vino e pane, La scuola dei dittatori  e Il seme sotto la neve, con  le quali, contrariamente alla consolidata tradizione di dare al mondo un’Italia come terra di bellezze naturali ed artistiche, Silone vuole invece l’immagine di un Paese oppresso e diviso.  Dopo le esperienze col partito socialista e col Psiup di Saragat, con gli anni ’50 termina l’attività politica vera e propria dello scrittore aquilano e si muoverà come intellettuale libero, sociologo, saggista di costume, polemista. Fonda nel 1956, con Nicola Chiaromonte, la rivista “Tempo presente” che diverrà la trincea dell’antistalinismo democratico e socialista. Gli assunti di Silone e Chiaromonte sono stati pubblicamente confermati dalle rivelazioni del rapporto Kruscev, dalle ribellioni della Polonia, dell’Ungheria e della Primavera di Praga, dal dissenso sovietico e dalle stesse revisioni eurosocialiste ed eurocomuniste. Nel frattempo vengono pubblicati: Una manciata di mare, Il segreto di Luca, La volpe e le camelie e Uscita di sicurezza tutte opere che hanno riscosso favore tra la tantissima gente. Infine nel 1968, l’ultima opera, L’avventura di un povero cristiano, con la quale Silone ha inteso affrontare il rapporto tra la Chiesa e il potere, per affermare che il potere corrompe sempre, e che la Chiesa quando è diventata istituzione e autorità, da forza liberatrice si è trasformata in forza oppressiva, e il suo fine di redenzione si è rifugiato nella spontaneità popolare, nei fermenti ereticali  non disciplinati. Lo stesso trattamento Silone lo aveva riservato al Movimento marxista che una volta divenuto ideologia di Stato, si era trasformato in tirannide cancellando del tutto le intenzioni messianiche. Al postutto ne deriva un Silone, (morto a Ginevra nel 1978) predicatore e divulgatore della difesa dei valori della libertà e della dignità umana, mentre dal versante politico ne esce un appassionato socialista di grande lucidità, profondità di convinzioni e disinteresse personale.

Mongiana: la signora Rosina, ultimo baluardo della civiltà contadina

Rosina, mani da soldato e gote arrossate dalla calura, m’indica una casetta abbracciata dai ciuffi di parietaria: «Andiamo lì – mi dice – saremo al fresco». Come le tante contadine del sud, anche nei campi, è avvolta nel nero di sempre. Oltre al lutto per il defunto marito, nelle sue parole si legge anche quello per la società contadina che ha lasciato il passo alla civiltà moderna: «Che volete ormai i tempi sono cambiati». E’ domenica mattina e i solchi battuti dal sole la vedono già dalle prime luci dell’alba intenta a parlare con le piante e ad ascoltare la terra. Rosina ha un cuore caldo come la pietra focaia e si preoccupa subito di donarmi qualcosa. Entriamo nella casa di Santa Maria di Cropani, nel comune di Mongiana, dove una credenza e un vecchio tavolo occupano mezza stanza, quattro sedie impagliate s’impossessano del resto mentre il cane fa una tregua con se stesso per non finire subito un tozzo di pane raffermo. Economa in tutto, mastica lentamente e mi ricorda una vecchia zia contadina: ad un cane che la guardava mentre gustava una pasta alla crema disse: «Prendi, mangiane anche tu, da come mi guardi sembra che non ne hai visto mai». E’, forse, una delle ultime rappresentanti della civiltà contadina calabrese, o almeno di quella parte di civiltà contadina pura, fatta di uomini e donne dalla vita passata ad imbrunire sull’uscio di una sola stanza. Dalle credenze popolari suggestive, fatte di miti e di superstizioni ma anche di sofferenza e coraggio. Già, perché per dirla con Ignazio Silone, i contadini, quelli del sud, non sono come quelli che ci mostra la televisione che a lavoro ci vanno fischiettando, no. Nell’alta montagna ci vanno sofferenti, e, forse, imprecano pure. Mi racconta di quella volta quando una zingara, durante la fiera di ferragosto a Serra, la guarì da uno strano male che le portava forti dolori di testa e che spesso la faceva a cadere a terra come fosse morta: «Voi non ci credete – mi dice sorridendo – ma quella donna indovinò i soldi che mio marito aveva in tasca, fu questo che mi convinse a sottopormi ai suoi rimedi particolari». Gli occhi spietati della memoria la invitano a parlare di amori, odi e drammi personali e collettivi. Li rievoca come fossero episodi di un lungo viaggio che sta per giungere al capolinea. Come uno di quelli che era solita fare da bambina, quando, con la propria famiglia andava a lavorare per conto di «padroni», avidi e ottusi. Ma sempre a contatto con la grande madre terra.

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