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Libertà condizionata e democrazia totalitaria

Modellato dal liberalismo, ovvero dall’ideologia dell’individualismo, il mondo liquido nel quale viviamo ha espunto le idee ed i valori fondanti che, per decenni, hanno funto da strumento di identificazione collettiva. Il tempo nel quale viviamo non contempla l’idea di comunità, ma solo quella dell’individuo. Di un individuo libero di agire come meglio crede, di fare come meglio ritiene, salvo chiedere l’intervento dello Sato, quando ne ha bisogno. Spezzati i legami che lo univano agli altri, il singolo sembra aver fondato un personale, quanto fallace, universo valoriale. Così, tutto è relativo, a partire dal ciò che un tempo rappresentava la ragion d’essere dello stare insieme. Distrutti i legami, visibili ed invisibili, la società una volta destrutturata è ritornata ad essere una caotica folla indistinta sulla quale aleggia costantemente lo spettro dell’immagine, ovvero di una finzione che spettacolarizzando ogni aspetto del reale ha finito per banalizzare tutto, a partire dall’idea stessa di libertà. La nostra è, infatti, una libertà vuota, fasulla, senza regole e senza spessore che assomiglia sempre più al marcusiano mondo ad una dimensione. Tutto ciò non ha impedito, però, che venisse alla luce un bizzarro ircocervo. Nell’era dell’individualismo estremo, infatti, ci sono topos inattaccabili, fortini inviolabili, dogmi indiscutibili che non contemplano alcuna forma di pensiero eterodosso. Per averne la riprova è sufficiente assistere ad un qualunque dibattito televisivo in cui chi sposa la causa invisa al pensiero dominante, non viene contestato con argomentazioni di merito, bensì con la superbia di slogan vacui e sempre uguali. La discussione non viene sviluppata, quasi, mai in maniera dialettica. L’ovvia conseguenza è lo sguaiato vociare di chi urla ed ingiuria, con il solo fine di fare entrare l’avversario nel vestito confezionato con la stoffa dello stereotipo. L’obiettivo, scontato, è quello di squalificarlo, di negargli il diritto di cittadinanza. Termini, come gufo, qualunquista, populista, svuotati dai loro significati originari, vengono ab-usati come un randello per tacitare il dissenso. Chi osa sfidare i principi postulati dal sinedrio del politicamente corretto, inevitabilmente, viene messo con le spalle al muro ed esposto al pubblico ludibrio. Il diritto di dissentire, di dire no, sembra non essere contemplato. L’angusto spazio concesso a chi si oppone viene usato dai paladini dell’ortodossia per fregiarsi della coccarda democratica. Per controllare agevolmente la società e piegarla al proprio volere il potere non si serve, quindi, di polizie segrete o di strumenti di coercizione. Basta delegittimare l’avversario, sconfessarne il pensiero, ponendolo aprioristicamente nel campo di una pregiudiziale subalternità. Squalificato sul piano ontologico, il dissenso diventa poco meno di un orpello folkloristico, di un feticcio da esibire e dileggiare. Nel tempo in cui la finanza ha preso il posto del sacro e l’oro quello del sangue, concetti come confronto e libera circolazione delle idee, assomigliano ad inutili ed ingombranti fardelli. La democrazia si è arresa alla tecnocrazia con il risultato che i cittadini sono stati trasformati in passivi ed apatici consumatori, incapaci di determinare il loro destino. Squalificato il dissenso, ha trionfato una democrazia totalitaria che tollera una sola idea, quella del potere.

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