Mongiana e la fabbrica d'armi senza bufale e bugie

Martedì 20 sarà a Mongiana in visita Oliverio, in previsione dell’apertura del Museo. Tutto bene, sia il Museo sia la visita; ma siccome sento già odore di bufale e strombazzature, forse sarà meglio raccontare noi la storia di Mongiana.  Lavorazione del ferro è attestata a Stilo nel XII secolo; nell’età moderna, a Pazzano; per poi salire sempre più in montagna, alla ricerca di acqua e di legname da cui ricavare il carbone. Nel XVIII secolo, da piccoli villaggi del territorio di Castelvetere (poi, Caulonia), nacque Mongiana, dove ebbero sede le fonderie e la fabbrica. I re Borbone di Napoli, Carlo e Ferdinando IV; Murat; Ferdinando in veste di re delel Due Sicilie dal 1816 riservarono ogni attenzione a questa attività, che, è bene precisare, era di proprietà dello Stato. Vi attirarono tecnici anche stranieri, donde i cognomi Broussard, Broussardi, Franzè, Franzè… La materia prima veniva dalle miniere di Pazzano e Bivongi; nel 1846, Ferdinando II sbarcò a Siderno e si recò a inaugurare una nuova miniera, quella di Agnana. Per le scomode leggi del Regno, solo le fabbriche di Stato potevano utilizzare il ferro calabrese; e Razzona di Cardinale, che era privata – ne parleremo un’altra volta – importava il ferro dall’Elba. Il carbone di legna non era un’energia molto potente come quello fossile, ma almeno era prodotto in loco.  Il complesso di Mongiana dava lavoro a centinaia di operai; e restano, a genuina gloria dei Borbone, le belle case costruite per le maestranze. E qui mi si lasci dire che, verso il 1840, un operaio inglese, francese, americano (altro discorso, la Germania) avrebbe considerato un sogno impossibile avere sopra la testa una solida casa di pietra a due piani e soffitta, e il pane assicurato, e una paga garantita dal re.  Come tutte le attività garantite dallo Stato, anche Mongiana andava avanti con una mentalità burocratica, con lente innovazioni sia delle tecniche sia delle cose stesse da produrre: fucili presto superati; e una sezione artistica fondeva busti del re di ghisa: ne sono rimasti, in Calabria, tre; e una statua intera è a Messina. Di particolare pregio sono le colonne greche di ghisa, una bella sintesi tra l’antichità e il progresso.  Dopo il 1861, privatizzata, Mongiana venne acquistata da Achille Fazzari. Era stato garibaldino, e, come altri, fece colpo su una ricca fanciulla catanzarese, ovviamente attirata dal bel tenebroso invece che da un noiosissimo vicino di casa militesente. Ammodernò il vecchio fucile per farne un moschetto, e, con il nome di “Mongiana” trovò chi, nell’esercito, lo adottasse. Non durò a lungo, e la fabbrica finì abbandonata. Una leggenda metropolitana parla di macchine trasferite a Terni, ma un amico che vive proprio lì e che intendeva darsi alla ricerca, non ha trovato alcuna prova. Mentre gli edifici andavano in degrado, anche il contesto sociale s’impoverì. Un po’ di respiro lo diede il Parco della Vittoria, gestito dal Corpo Forestale, che ha dato e dà impulso al turismo estivo.  Malamente non dico restaurata ma rifatta, la Fabbrica riceve visitatori, e si spera che giovi il Museo. Basta che se ne parli sul serio, senza fantasie da “terza potenza industriale del mondo”, seguita da improvviso “genocidio”.

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