Brognaturo, il castello e la baronessa

“Ci stava 'nu castellu alla Lacina; duvi si dicia ca la terra 'ntrona; e mo lu riduciru a 'na rovina, ma tandu 'nci stacìa 'na gran matrona”. Così cantava il medico menestrello Bruno Tassone che, in “Lu castellu di la barunissa”, ricordava, quando sui “Piani de la Lacina”, arroccato su un acrocoro che domina la vallata sottostante svettava un maniero del quale, oggi, rimangono solo poche rovine. Un luogo permeato dal fascino misterioso, tipico dei luoghi senza storia e senza tempo. Poche, frammentarie, a volte inverosimili le notizie che circondano la storia del castello edificato in quella che è stata una delle foreste più impervie ed inospitali dell’intera Calabria. Secondo alcuni, il toponimo “Lacina” andrebbe accostato ad Hera Lacinia, la dea al cui culto, i boscaioli che rifornivano di legname le colonie della magna Grecia, avrebbero elevato un piccolo tempio rurale. Una tesi suggestiva ma, con ogni probabilità, da derubricare al novero delle favole da focolare. E pur vero che l’area in questione in passato potrebbe aver ospitato una struttura sociale di qualche rilievo. Non è un caso che nelle limitrofe montagne di Cardinale siano stati rinvenuti alcuni reperti riconducibili al neolitico; mentre nella vicina Spadola, fino ai primi anni trenta, erano custoditi due leoni in pietra che, secondo il resoconto fatto dal sacerdote Bruno Maria Pisani in una relazione inserita in “Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato” e pubblicata a Napoli tra il 1853 ed il 1859, servivano a sostenere «l’altare dedicato a Minerva». In ogni caso, sulla genesi del piccolo borgo di Brognaturo non si hanno notizie certe, tranne quelle riportate da Tedeschi, per il quale a dare origine al piccolo villaggio sarebbero stati i mandriani ed i guardiani di “porci” dei paesi vicini. Per il sacerdote serrese, “l’etimologia del suo nome sembra alludere a questa particolarità; poiché la prima parte del vocabolo, Brogna, nel linguaggio volgare significa quella specie di conchiglia, con cui i porcari chiamano a raccolta le loro mandrie. Avvi però qualche oscura tradizione dell’esistenza di un antico paese posto in cima dei monti, i cui abitanti si sarebbero trasferiti nell’attuale Brognaturo. In un diploma del Conte Ruggiero si fa menzione di una località coincidente a quella di questo paesetto, sotto la denominazione greca di Brondismenon”. Si è portati, quindi, a pensare che il villaggio greco di cui parla Tedeschi potrebbe essere sorto in prossimità dei piani della “Lacina” dove una rigogliosa radura, in passato può aver ospitato un insediamento di una qualche importanza. In tale contesto troverebbe una logica spiegazione un castello edificato sulla sommità di un monte dal quale era possibile dominare la pianura sottostante. L’ipotesi suggestiva, anche in virtù della vicinanza della costa jonica, induce a pensare ad un villaggio, sorto per favorire lo sfruttamento forestale, a difesa del quale potrebbe essere stata dislocata una piccola guarnigione. Al di là delle congetture, le poche notizie degne di essere seriamente prese in considerazione fanno risalire la costruzione del primo nucleo in muratura ai primi del ‘500. Di certo, vi è il nome dell’ultima proprietaria, Maria Enrichetta Scoppa, baronessa di Badolato, nata a Sant’Andrea, nel 1831, che avrebbe eletto il maniero a propria dimora estiva fino al 1912, anno della sua dipartita. Nonostante sia descritta come donna di profondi sentimenti religiosi, la baronessa o qualche sua lontana antenata sarebbe all’origine di una leggenda che, in passato, doveva suscitare non poco i pensieri pruriginosi di una comunità tutta dedita alle attività agro-pastorali. Fino a qualche decennio addietro, infatti, si narrava che la nobildonna, alla ricerca di facili ma silenti avventure amorose, fosse solita ospitare nel suo castello aitanti giovani dei paesi vicini destinati, dopo aver goduto dei piaceri della carne, a sparire nelle paludi circostanti. A rendere la storia verosimile, la presenza, dove oggi sorge il lago Alaco, di un’estesa torbiera nella quale erano presenti fenomeni carsici chiamati “vizzichi” o “uocchi e mara”, perché si credeva che giungessero fino allo Ionio, nei quali, secondo il racconto di vecchi pastori, “poteva sparire un’intera coppia di buoi”. Lasciata la leggenda, di quell’antica residenza, alla quale doveva essere associata una chiesa di cui si è persa ogni traccia, oggi non rimane che un imponente rudere sul quale imperiosi si ergono le caratteristiche torri angolari. Le poche persone che percorrono il sentiero che conduce al castello, di tanto in tanto, vi fanno ritorno per ammirare il lago sottostante, sul quale sembra specchiarsi l’ennesimo pezzo di storia perduta delle Serre.

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