A proposito di "fine vita"

 Sarei più contento se una dichiarazione non “suscitasse un dibattito”, ma fosse molto chiara e indiscutibile. Ma siccome nei prossimi giorni i commenti piomberanno come la pioggia, commento anch’io.

 Se un malato ha bisogno, per vivere, di dieci gocce di qualcosa, basta dargliele nove o cinque, e muore; e nessuno saprà mai che è morto di cinque gocce invece di dieci. Se dunque il malato è sicuramente prossimo alla morte, tanto più se molto anziano; è opportuno evitare quello che si chiama l’accanimento terapeutico.

 Mi fermo qui, sapendo bene che nessuna morte è sicura, e che la cronaca mostra casi sorprendenti di guarigioni o anche solo di inatteso prolungamento della vita. E sapendo che la medicina ha compiuto progressi incredibili, e che potrebbe tenere in vita anche organismi palesemente degradati.

 Ci vorrebbe una casistica? La casistica era una branchia della teologia morale che… se vi rivelassi cosa s’inventava la casistica circa i rapporti sessuali… Tranquilli, non lo farò; e lo dico solo per farvi capire che la casistica serve solo a complicare le cose. No, nessuna casistica ci può aiutare.

 Diamo la parola ai giudici? Eh, se un poveraccio incosciente deve morire di venerdì e aspetta la sentenza di un giudice, e intanto un parente è d’accordo e l’altro no, se ne parla lunedì, salvo rinvii alle Calende; e intanto il morente o è morto o è guarito per cause del tutto indipendenti dai giudici. Il bello è se i due parenti discordi fanno ricorso a quei due tribunali che danno sempre ragione a tutti, quindi anche a loro entrambi: ovvero, la Cassazione e il TAR del Lazio!

 Deve decidere il paziente? Con quali competenze mediche? Con quale lucidità, se è in agonia? Con quale forza d’animo, se è di carattere debole? C’è il testamento… eh, quanti testamenti sono stati cambiati proprio in punto di morte!

 L’unica soluzione è che a decidere sia un “medico bravo che sbaglia”, cioè quello delle cinque gocce al posto di dieci: e si assume la responsabilità morale. E, stando al messaggio del papa, sarebbe assolto in confessione.

 Ma la confessione è segreta. E se il medico viene denunziato dai parenti del defunto? Sappiamo che ciò avviene a ogni passo, e non sempre in buona fede. È perciò nata quella che si chiama medicina difensiva, che non è sempre sinonimo di medicina e basta. Un medico dunque, messo a rischio di giocarsi carriera e libertà, esita, altro che smettere le cure.

  E finora stiamo parlando di malattie fisiche, tutto sommato facili da diagnosticare. “Lei ha un tumore X”, è un fatto, e un paziente può capirlo e accettarlo. Ma “lei è un depresso”? Quando mai un depresso ha ammesso di essere depresso? Quando mai un matto disse di essere matto? E se un depresso, attribuendo le sue angosce a qualche causa esterna (le solite tiritere sociologiche della domenica!), soffrisse tanto da voler porre fine alla sua soggettivamente infelice ma oggettivamente normale esistenza?

 Ecco perché non si può codificare il fine vita. Or sono molti anni fa, io avevo sì e no nove anni, persona degna di stima e di fede mi raccontò come egli e un collega avessero affrettato, in scienza e coscienza, il decesso di un bambino affetto da rabbia non curata e le cui sofferenze erano atroci e inutili. Mi convinsi al volo che avevano fatto bene; e che tale prassi doveva essere molto diffusa, e non inventata in quel 1959, ma nei millenni. Un giudice li avrebbe dovuti condannare per omicidio.

 Alla fine, ci vuole solo un “medico bravo che sbaglia”; e tutti gli altri (parenti, giudici, giornalisti; e soprattutto gli avvocati…) dovrebbero fingere di non aver capito. Insomma, una bella depenalizzazione di fatto, ma non mai per iscritto. Come spiega Dione riferito dal Vico: la legge è un tiranno, la consuetudine è un buon re.

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