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Mongiana e quel sonetto del generale Garibaldi a 133 anni dalla morte

La signora Giuseppina Tripodi è visibilmente emozionata. Quello strano foglio ingiallito dal tempo che lei chiama “La littira” è un reliquiario di storia e di ricordi. «L’ho ricevuta da mio suocero Ferdinando Iorfida – ci dice - che era l’uomo di fiducia di Achille Fazzari per il quale gestiva la “Ferdinandea” a cui l’aveva regalata proprio l’ex garibaldino proprietario delle Ferriere di Mongiana». Lo straordinario documento storico (un sonetto) è custodito gelosamente dalla famiglia Iorfida di Mongiana. Si tratta di un componimento vergato su un cartoncino ingiallito dal tempo, scritto da una classica calligrafia ottocentesca con inchiostro nero, prodotta con un pennino metallico. La grana del cartoncino, le macchie, l’inesorabile logorio del tempo non lasciano dubbi sull’autenticità del documento e la firma, chiara e leggibile che l’autore ha tenuto sempre identica fino alla morte, è quella del condottiero più famoso d’Italia, “L’eroe dei due mondi” Giuseppe Garibaldi di cui oggi – 2 giugno - ricorrono i 133 anni dalla morte. Il sonetto che è datato Caprera 9 febbraio 1880 è stato scritto da Garibaldi ispirato dall’amicizia di Achille Fazzari il quale ne avrebbe dato prova allo stesso condottiero in più circostanze. Il documento è stato preceduto da una lettera vera e propria, sempre del condottiero all’ex garibaldino, che siamo riusciti a rintracciare soltanto in copia fotostatica e che è datata Caprera 6 febbraio 1880, nella quale Garibaldi definisce una “fortuna” l’amicizia con l’ex deputato del regno unitario. Il docente di lettere e giornalista Nicola Rombolà che lo ha letto attentamente sostiene come «Il ritrovamento di questi due importanti documenti a Mongiana che ho potuto visionare direttamente insieme al giornalista Bruno Vellone, testimoniano la vicenda dell’eroe dei due mondi nell’ultimo decennio della sua vita, e in particolare il sentimento di amicizia con il deputato Achille Fazzari, che ha partecipato alla spedizione dei Mille, e autore di uno scritto, “Garibaldi da Napoli a Palermo”. Nella breve lettera datata 6 febbraio 1880, Garibaldi esprime una profonda amicizia nei confronti di Fazzari con toni alti e commossi, che viene riproposto nel testo che data 9 febbraio. Si tratta di un sonetto, forma metrica classica della tradizione lirica italiana che affonda le radici nella scuola siciliana, sorta alla corte di Federico II a Palermo (padre di questa forma metrica è ritenuto Jacopo da Lentini). Da una prima impressione sulla tessitura espressiva, emerge un ritmo rotto da frequenti incisi, un tono che tende all’enfasi dove si notano delle reminiscenze classicheggianti, come era nelle corde del poeta-vate Carducci (il quale ha scritto un celebre discorso “Per la morte di Giuseppe Garibaldi”). Il testo non presenta particolari pregi poetici; il suo amore per la poesia non si trasforma in autentica vena poetica, ma rappresenta comunque un documento importante che si intreccia nelle vicende autobiografiche di quegli ultimi anni vissuti a Caprera, in cui l’eroe si dedica alla scrittura e porta a compimento 4 romanzi di carattere storico e un’opera in versi “Poema autobiografico”. La struttura metrica – sottolinea Rombolà - indica come Garibaldi sia aduso alla lettura di poeti che appartengono alla classica tradizione lirica italiana. La scelta del sonetto, principale forma metrica, ne rappresenta una attestazione. Non ha titolo, ma è chiaro l’intento di Garibaldi di elevare lodi al sentimento di amicizia con toni altisonanti e con accenti che a noi suonano enfatici e retorici, forse anche ingenui, ma senz’altro genuini, che rientrano nella tempra dell’uomo, in cui si coglie una certa propensione alla personificazione del sentimento fino a divinizzarlo. Non mancano gli accenti polemici, che sono manifesti nella nota apposta al testo, in cui spiega che, tra “Infinito” e “Dio”, preferisce il primo, perché il secondo termine è stato usato dai preti “per commettere tanto male”. Il suo anticlericalismo si radicalizza negli ultimi anni della sua vita come emerge anche dalle sue “Memorie”». Secondo Nicola Rombolà lo stato d’animo che esprime Giuseppe Garibaldi nell’importante ritrovamento appare «amareggiato, disilluso, che cerca un rifugio nella poesia, come forma sublime di consolazione, di evocazione e invocazione. La poesia – prosegue Rombolà - diventa quindi un’occasione di testimoniare la sua amicizia per Achille Fazzari, ma anche in controluce una vis polemica e una vena di sottile malinconia. Il sonetto segue, come anticipato sopra, ad un altro documento vergato dallo stesso Garibaldi, 6 febbraio 1880, 3 giorni prima. È una breve lettera in cui attesta, con fervida emozione e commozione, il sentimento di amicizia che il Fazzari gli ha riservato (“L’amicizia che voi mi avete dato in questa solenne circostanza – tante e tante luminose e generose prove – è certamente il più nobile dei sentimenti che onorano l’umana natura…”). La “circostanza solenne” è riferita con molta probabilità al matrimonio che Garibaldi aveva contratto il 26 gennaio a Caprera con Francesca Armosino, al quale lo stesso Fazzari aveva fatto da testimone. Donna di umili origini con la quale Garibaldi ha 3 figli (Clelia, Rosa - che vive solo 2 anni - e Manlio). Questi documenti si intrecciano alla vicende autobiografiche che segnano la vita dell’Eroe negli ultimi anni della sua vita. Garibaldi, chiamato a partecipare al sesto centenario dei Vespri siciliani a Palermo nel 1882, durante il suo viaggio, viene ospitato in una villa a Posillipo, che Fazzari gli aveva messo a disposizione e che poi incontra in un’altra residenza estiva a Copanello (marzo), questa volta in Calabria, dello stesso amico, durante il suo itinerario in treno che lo porta prima a Reggio Calabria e poi a Palermo per la celebrazione dei Vespri siciliani. Al ritorno – conclude - le sue condizioni di salute si aggravano, e infine il 2 giugno Garibaldi si spegne a Caprera».

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