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Achille Fazzari, "luci e ombre" di un garibaldino calabrese

In un articolo pubblicato ieri, Bruno Vellone si è occupato di un sonetto inedito, custodito a Mongiana, nel quale Garibaldi manifesta la sua amicizia al garibaldino Achille Fazzari. Per capire chi fosse, riproponiamo un’intervista rilasciataci, poco prima della scomparsa, dal ricercatore serrese Bruno De Stefano Manno, il quale definiva l’ex sarto di Stalettì, «personaggio tra luci e ombre, laddove le ombre assumono a tratti l’aspetto delle tenebre».

La definizione, da Lei data, nell’ambito della ricerca su “La Fabbrica di Cellulosa” di Serra San Bruno sorprende, perché Fazzari, almeno fino ad ora, era stato ritenuto personaggio senza macchia, di condotta irreprensibile. Una sorta di campione dell’umanità ammantato d’aura leggendaria.

Chiacchiere frutto di una ricerca, ove mai c’è stata, basata solo su quei quattro o cinque scritti encomiastici lasciatici da suoi contemporanei, per lo più amici, compagni di merende, ospiti, se non addirittura parenti come nel caso del nipote Domenico La Russa, figlio di Gemma Fazzari. Costoro hanno messo in risalto solo le luci, non hanno fugato le ombre e hanno evitato di avventurarsi tra le tenebre del suo discutibilissimo modus operandi. D’altra parte pur volendolo, non avrebbero potuto farlo, se si tiene presente che loro unica fonte d’informazione era lo stesso Fazzari, un po’ spaccone forse, ma pronto a sfruttare le occasioni propizie per mettersi in mostra. Abile nel pubblicizzare meriti inesistenti e abilissimo nel nascondere quello che di cattivo, anzi di pessimo, andava combinando».

    Chiarisca meglio

    Premesso che nessuna ricerca organica è stata finora condotta su di lui, le poche notizie a disposizione derivano da un’intervista rilasciata in tarda età a Luigi Cunsolo, da un paio di articoli di Matilde Serao e di suo marito Edoardo Scarfoglio, dall’elogio funebre pronunciato da Vincenzo Vivaldi in occasione del primo anniversario della morte e soprattutto da un sintetico scritto agiografico, opera del nipote, straripante venerazione per il nonno. Da questo, e solo da questo, deriva la sua immagine pubblica. C’è chi ne apprezza le doti e lo esalta e chi, come il sottoscritto, lo ritiene un furbacchione matricolato con tendenza a delinquere, per di più, antesignano della mala genia dei politici nostrani di mano lesta. 

   Pertanto la fama dell’eroico garibaldino sarebbe usurpata?       

   Assolutamente no, quella non gliela toglie nessuno, fa parte delle luci. In alcuni casi troppo abbaglianti, distorte dalla trita agiografia garibaldina e non tutte controllate dal punto di vista storico, ma non si può affermare che fosse un pavido, anzi tutt’altro. Partecipò in prima linea alla campagna del ‘60, fu nel ‘62 in Aspromonte al seguito di Garibaldi, e per questo fu arrestato, fu ferito a Monte Libretti nel 1867 nel corso della spedizione conclusasi a Mentana sotto il micidiale fuoco degli Chassepots francesi. Uguale a Garibaldi fu ferito ad un piede e con lui condivise lo sprezzo del pericolo e la modestissima cultura. Fu legato da fraterna amicizia a Menotti e Ricciotti, figli di Garibaldi e all’eroe rese numerosi servizi d’ordine pratico. Per esempio: gli risolse il problema idrico del riarso orto di Caprera e con uno stratagemma, trovò il modo di liberarlo dall’increscioso matrimonio contratto con la fin troppo disinvolta contessina Raimondi. Fu testimone di nozze quando Garibaldi sposò Francesca Armosino, che egli stesso gli aveva procurato quale balia del figlioletto Lincoln, e ne divenne in qualche modo parente quando sua figlia Elsa sposò in successione Foscolo, Cairoli e Cino, tre dei sedici figli di Stefano Canzio e Teresa Garibaldi, figlia di Anita. Tentò, senza successo, di far recedere Garibaldi dalle posizioni anticlericali. Da deputato fu precursore della Conciliazione tra Stato e Chiesa, tant’è che finanche Mussolini, nel discorso letto alla Camera in occasione della firma dei Patti Lateranensi, se ne ricordò e gliene rese merito. 

  Ma, allora, le ombre in cosa consistono?

  Era di umili origini e poverissimo: circostanze, è ovvio, che non sono ombre. Le ombre gravano sulle origini della sua improvvisa ed immotivata ricchezza dato che prima delle campagne garibaldine non aveva il becco d’un quattrino. Pesanti, le tenebre si addensano su una truffa organizzata a Napoli in danno di un banchiere credulone, truffa in cui, in combutta con due deputati maneggioni, riuscì a coinvolgere a sua insaputa un principe di casa reale. Ma non è tutto: all’epoca dello scandalo della Banca Romana, scandalo responsabile della caduta del primo governo Giolitti, la commissione d’inchiesta parlamentare appurò che, grazie a connivenze di sottogoverno, a Fazzari e a uno dei suoi ex complici della truffa napoletana erano stati concessi finanziamenti completamente privi di copertura. Ancor prima di codesti scandali il nostro eroe aveva dato prova di discutibile condotta: intorno al 1870, improvvisatosi appaltatore edile, riuscì ad aggiudicarsi i lavori per il traforo del promontorio di Copanello. Avviati i lavori,  si affrettò a comprare un fondo rustico che insisteva sul promontorio. Appena ratificato l’acquisto, citò in causa lo Stato per presunti danni derivati al fondo dai lavori che egli stesso conduceva nel sottosuolo. Non contento, allo Stato chiese anche il risarcimento del materiale cavato, materiale che egli stesso aveva scaricato a mare ai piedi del promontorio. Occorsero due differenti gradi di giudizio, con discesa in campo degli avvocati erariali dello Stato, per ricondurre alla ragione il bellicoso garibaldino.

   Come mai tutto ciò non emerse alla luce del sole?

   Bisogna tenere presente che alla sua epoca le notizie circolavano con difficoltà. Quanto di cattivo accadeva all’interno delle stanze del potere raramente raggiungeva l’opinione pubblica. Pochi erano i giornali antigovernativi e quei pochi, ad esempio “il Piccolo” e “il Mattino” di Napoli, erano diretti da amici di Fazzari, nella fattispecie da Rocco de’ Zerbi e da Edoardo Scarfoglio. Il primo, tra l’altro, era uno dei due complici napoletani nella truffa in danno del banchiere Rocca e fu l’unico a pagare con il suicidio il coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana.

  E Fazzari la fece franca?

  In effetti si. Riuscì a contrabbandare un’immagine del tutto avulsa dalla realtà presentandosi sempre come un disinteressato benefattore del suo elettorato. Finora, tanto per dirne una, si è sempre creduto che avesse regalato alla comunità certosina di Serra San Bruno i graniti occorrenti alla ricostruzione della Certosa. Lui stesso in più di un’occasione se ne vantò in pubblico. E invece, come attestano i carteggi conservati nell’archivio del monastero, i graniti non solo pretese che gli fossero pagati, ma riuscì finanche a farseli pagare a ripetizione. Cosa che, con pazienza certosina, gli venne contestata dal priore della Certosa. In sostanza Fazzari ebbe due facce: una pubblica, alla luce del sole ed irreprensibile ed una privata fatta di raggiri e sotterfugi. Spiace dirlo, spiace demolire un mito, ma tant’è. Le verità prima o poi vengono a galla. E pensare che in passato, segnatamente nella zona delle Serre, gli sono state intestate strade e che, di recente, qualcuno ha chiesto a gran voce d’intestargli una piazza.

  

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