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I Borbone e la Calabria: la rilettura di un’epoca

Poco più di un secolo e mezzo da quando, 22 maggio 1859, è morto Ferdinando II di Borbone re delle due Sicilie. Da più carte documentali si legge che, ricevuta l’estrema unzione, avesse pronunciato commossi e forti accenti di addio: “Lascio questa bella, cara e amata famiglia; il Signore in questo momento mi dà la grazia di essere tranquillo e di non soffrire alcun dispiacere, di distaccarmi dalle persone e dalle cose le più amate; lascio il Regno, le grandezze, onori, ricchezze e non risento dispiacere alcuno. Ho cercato di compiere per quanto ho potuto i doveri di cristiano e di sovrano. Mi è stata offerta la corona d’Italia, ma non ho voluta accettarla; se io l’avessi accettata ora soffrirei il rimorso di aver leso i diritti dei sovrani e specialmente i diritti del Sommo Pontefice. Signore vi ringrazio di avermi illuminato. Lascio il Regno e il trono come l’ho ereditato dai miei antenati”. Fu vero il contrario, perché questo re, controverso e trattato dalla stampa del tempo come “Re Bomba”, in realtà lasciò all’erede Francesco II il più ricco regno della penisola e, perché no, anche uno dei più moderni certamente per quei tempi. Non certamente come lo dipinse “la propaganda risorgimentale” che, dovendo giustificare l’aggressione contro il Regno delle Due Sicilie, creò attorno ai sovrani partenopei una delle numerose ‘leggende nere’ che ancora infestano tanti manuali scolastici e che popolano l’immaginario popolare. ‘Borbonico’ è un termine dispregiativo, è sinonimo di oscurantismo, inefficienza, barbarie. La realtà, invece, fu ben diversa. A leggere la storia senza pregiudizi, ci si accorge che il regno borbonico fu caratterizzato, oltre che da ricchezza culturale e artistica, anche da benessere materiale, commerciale, agricolo e industriale” ( L. Calabretta). Durante tutto il secolo borbonico, la Calabria culturalmente conobbe una graduale evoluzione che la liberò – scrive Brasacchio – dall’ambito abbastanza limitato dello scolasticismo e delle erudizioni municipali, aprendo orizzonti nuovi attraverso anche il numeroso stuolo di sacerdoti che non disdegnarono di abbracciare il vangelo massonico ed illuministico e di vivacizzare la cultura attraverso la fondazione di Accademie letterarie e poetiche. Fu proprio con i Borbone la riscoperta della Magna Grecia grazie alle Tavole di Eraclea affiorate nel 1732, agli scavi di Ercolano e Pompei e le campagne archeologiche avviate a Locri da Domenico Venuti, allora direttore della Real Fabbrica Ferdinandea delle Porcellane. E sarebbe lungo, molto lungo, l’elenco delle grandi opere di Ferdinando II  mirate allo sviluppo del Sud fatte decadere e abbandonate dai “piemontesi” che riportarono le tenebre nelle nostre contrade considerate “Taliani cu la cuda”, per dirla con le parole del poeta di Serra San Bruno Mastro Bruno Pelaggi, lo stesso che aggiungeva “Basta! ‘Simu Taliani’/ gridamma lu Sissanta,/ e mmò avògghja mu canta/ la cicala! La fami cu’ la pala/ si pìgghja e cu’ la zzappa/ cu pota si la scappa/ a Novajorca”. Ebbene Ferdinando nel 1839 fece costruire la prima ferrovia, la Napoli-Portici, per dare maggiore impulso all’industria non solo campana, mentre in Piemonte la Torino-Moncalieri (lunga solo la metà) dieci anno dopo. I più importanti cantieri navali erano quelli di Castellammare di Stabia, dove fu costruito il primo vaporetto. La flotta navale con 4000 imbarcazioni era la prima del Mediterraneo con flussi commerciali che costituivano la voce più sostanziosa del bilancio finanziario del Regno. Il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, poi, avevano delle riserve auree così cospicue che il temerario Garibaldi li trasferì al Piemonte e questo potè far fronte agli innumerevoli debiti di guerra accumulati dai moti del ’48 in poi. Le industrie del regno avevano uno sviluppo costante e graduale, come i setifici di San Lucio con una produzione più elevata di quelli lombardi, così come le cartiere Lefebvre, Stellingwerf, Roessinger Courier, la fabbrica di pannilana di Isola di Liri, i lanifici di Arpino e cotonifici e linifici fondati da industriali svizzeri, francesi e napoletani. E per fermarci alla sola Calabria, ecco cosa  scrive lo storico M. Caligiuri: “Alla fine del regno borbonico le principali città della regione potevano comunicare tramite le linee telegrafiche. Nel 1847 era stata abolita l’imposta sul macinato, che penalizzava i più poveri. Era stato dato impulso all’educazione con l’istituzione di scuole di ogni ordine e grado e a Catanzaro anche dell’Università. Si intervenne sulle strade principali della regione [Quelle che ancora oggi attraversano da nord a sud l’intera montagna calabrese, le uniche che resistono al tempo!]. Il 18 aprile del 1853 Ferdinando II decretò l’istituzione di due ‘Casse di Prestanze Agrarie’ che rappresentarono il nucleo originario di quella che diventò nel 1861 la Cassa di Risparmio di Calabria. A Reggio venne completato il Teatro Comunale e promossa una Biblioteca Civica, mentre nel 1819 era stato istituito il Museo, a salvaguardia degli inestimabili reperti archeologici. A Catanzaro venne costruito il Teatro Francesco I che diventò il centro culturale della vita cittadina. A Cosenza sorse il Teatro Reale…A Mongiana […] funzionavano le Regie Ferriere con quasi duemila operai. Secondo alcuni era il più importante polo siderurgico italiano, che subito dopo l’Unità venne completamente smantellato”. A proposito di quest’ultimo insediamento industriale che fece la fortuna delle Serre; non solo di Mongiana ma anche di Pazzano, Stilo con la residenza estiva Ferdinandea, Bivongi e Razzonà di Cardinale, rimando alla lettura di mie note su “la Provincia Kr” nn° 36 e 37 dell’ottobre 1998 e n° 28 del luglio 1999. Poi vennero i Mille del “Peppino intercontinentale” che cancellarono tutto e con il tutto il destino della nascente industria napoletana e meridionale. Un Regno invidiabile, sereno e tranquillo? Certo che no, se osserviamo con gli occhi della nostra postmodernità. Ma c’è stato di peggio, molto peggio, basta andare a rileggere gli osservatori dell’Inghilterra della rivoluzione industriale. Ferdinando II duro e reazionario con i rivoluzionari? Certamente non poteva porgere l’altra guancia. O che vi siano, oggi, moderni monarchi o repubblicani  o premier (non fa differenza) diversi e migliori? La differenza la fa ciò che resta ai posteri ed anche quello che sarebbe potuto rimanere. Di sicuro la monarchia o almeno Ferdinando II fu amato dal popolo e lo dimostrarono anche i Messinesi che il 23 ottobre 1852 lo accolsero con popolari onori trionfali e i Calabresi che godettero del suo affetto e premure in ben tre viaggi: nel 1833, nel 1844 e appunto nell’anno sopra detto. È passato ormai un secolo e mezzo, nostalgia? No! Ma guardare con maggior serenità alla figura storica di Ferdinando II è d’obbligo anche perché, come scrisse uno storico, la sua figura “fu senz’altro significativa per i suoi tempi, in cui i principi dovettero affrontare non solo la bufera rivoluzionaria, ma anche i riflessi che su questa ebbero i maneggi dei grandi imperi mercantili, che si disputavano l’egemonia commerciale del bacino mediterraneo”.

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