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La Trasversale delle Serre non è la "Strada dritta"

Parafrasando una nota battuta attribuita a von Schirach, “quando sento parlare di ‘Trasversale delle Serre’ mi viene da mettere mano alla pistola”. A distanza di quasi mezzo secolo, esattamente 49 anni, da quando venne redatto il primo documento nel quale se ne parlava ufficialmente, la “Trasversale” viene, ancora, utilizzata per formulare promesse cui nessuno crede più. Si spera almeno che, qualora un giorno dovesse essere completata, nessuno osi presentarsi con le forbici in mano per tagliare nastri inaugurali. Al contrario, per sfuggire alla vergogna, la scelta più saggia sarebbe aprirla al transito di notte. Quella della “Trasversale” è, infatti, la storia di un’opera tenuta nel limbo, una storia che rappresenta, per certi versi, il paradigma di come vanno le cose nel nostro Paese. A far montare l’indignazione, il raffronto con opere ben più imponenti costruite a tempo di record, in anni in cui le tecnologie non erano certo quelle di oggi. Una in particolare, suscita insieme orgoglio e sdegno. Orgoglio per la rapidità con cui è stata realizzata, sdegno se la si accosta alle infinite vicissitudini della “Trasversale”. L’A1, meglio nota come “Autostrada del sole”, che collega Milano a Napoli, ha una storia molto diversa da quella della “Trasversale”. Una storia raccontata, nel 2011, da Francesco Pinto, in “La strada dritta”, un bel libro sospeso tra saggio e romanzo. I cantieri per la sua realizzazione vennero aperti il 19 maggio 1956. Prima, però, l’amministratore della Società autostrade, Felice Cova, insieme ad un gruppo d’ingegneri, era volato negli Stati Uniti per studiare le autostrade americane. Una volta realizzato il progetto c’era da trovare i soldi. Un’incombenza cui pensò l’Iri che, investendo 272 miliardi di lire, rese possibile la costruzione dell’opera che avrebbe rivoluzionato l’Italia. Eppure, non mancarono i bastian contrari, quanti sostenevano che si trattava di uno spreco, di un’opera superflua, inutile in un Paese in cui le automobili in circolazione erano ancora pochissime. Discorsi miopi che si sentono ripetere ancora oggi ogniqualvolta si pensa di progettare grandi opere destinate a migliorare il presente ed anticipare il futuro. Per fortuna l’Italia di quegli anni era meno pusillanime dell’attuale ed i lavori per l’edificazione della prima autostrada italiana del dopoguerra presero il via, in barba ai menagramo. Così, dopo appena, due anni, nel 1958, l’allora capo del Governo Amintore Fanfani inaugurava il primo tratto da Milano a Parma. Per il completamento del tratto successivo si dovette attendere poco più di un anno. Conoscitore dei vizi italici, nel timore che i fondi fossero insufficienti, Cova aveva fatto avviare i lavori sia da Nord che da Sud. Così, nel 1959 venne aperto al traffico il tratto compreso tra Napoli e Capua. L’anno successivo gli automobilisti potevano viaggiare comodamente da Bologna a Firenze; mentre nel 1962 venne terminata la Roma - Napoli. Domenica 4 ottobre 1964, dopo il completamento della Chiusi – Orvieto, nel giorno di San Francesco, patrono d’Italia, il presidente del consiglio Aldo Moro inaugurava l’intero percorso. Il 9 dello stesso mese, la “Settimana Incom”, scriveva: “I maggiori tecnici del mondo, che l’hanno giudicata un capolavoro d’ingegneria stradale, ce la invidiano”. Non si trattava di un esagerazione. Per costruire l’opera, progettata e realizzata interamente da italiani, era stato necessario sfidare la natura, costruendo 38 gallerie e 853 tra viadotti e ponti. Una dimostrazione che quando c’è la volontà politica non esistono ostacoli insormontabili. Nel discorso inaugurale, Aldo Moro, aveva detto “non siamo un popolo in decadenza […]. E’, la nostra, una società viva, che si trasforma, che cerca nuovi equilibri economici, sociali e politici”. Un’Italia completamente diversa dall’attuale, dove non si riesce neppure a tappare le buche, figurarsi a completare la “Trasversale”.

 

 

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