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Antichi mestieri: la tradizione serrese dei carbonai

Dopo di loro, forse, non ci sarà chi custodirà quelle straordinarie conoscenze. Perché questa generazione potrebbe essere l’ultima a compiere un lavoro duro, fatto di sacrifici e notti insonni, di famiglie a volte lontane e di pericoli dietro l’angolo. La vita dei carbonai non è certo semplice, ma è fatta anche di quelle piccole-grandi soddisfazioni di cui ai tempi di Facebook non sembra comprendersi il valore. Più comodo puntare all’abito gessato e alla scrivania di lusso che non a magliette sporche e sudate e al terreno fumante. Eppure sono loro, i carbonai, a conoscere davvero il territorio, i suoi segreti naturali, i suoi sentieri, le sue meraviglie e le sue trasformazioni.

Abbastanza diffusa nei decenni che hanno preceduto l’avvio del secondo millennio, la produzione del carbone realizzata eseguendo le tecniche dei fenici si è oggi drasticamente ridotta e la regola che consentiva il tramandarsi di padre in figlio di specifiche competenze pare non essere più rispettata.

Costruire uno “scarazzu”, una catasta di legna (solitamente leccio) coperta da paglia molto umida e terra per agevolare la totale disidratazione e la cottura del legno, è operazione complessa e richiede circa un mese, dato che ai 20 giorni per la carbonizzazione si devono sommare i 10 precedenti per l’idoneo posizionamento dei tronchi tagliati all’interno, dei pezzi meno consistenti nella fascia intermedia e dei rametti, spesso ancora verdi, all’esterno.

In questa struttura, che solitamente non ha dimensioni  troppo variabili, vanno introdotti, dalla bocca dello “scarazzu”,  dei tizzoni ardenti nel cunicolo vuoto interno, senza però far divampare o spegnere il fuoco. E quì lo “scarazzu” deve essere “assistito”: serve, dunque, una vigilanza 24 ore su 24. In pratica, queste cataste di legna, che ricordano una forma emisferica,  ardono assai lentamente nel loro centro e, dato lo scarso apporto di ossigeno, danno origine al carbone. Diversi fori sparsi su tutto il covone consentono la fuoruscita dei fumi, il cui colore indica lo stato di avanzamento del fuoco e il grado di cottura.

Ogni “scarazzu” può produrre da 20 a 100 quintali di carbone, che, una volta completa la fase di raffreddamento, vengono insaccati per essere destinati al trasporto e alla vendita.

I siti esistenti nel Serrese - tutti a gestione familiare – producono una non secondaria quantità di carbone che viene consumata in diverse regioni d’Italia (soprattutto Puglia, Emilia Romagna ed Isole maggiori) e rappresentano una testimonianza di un’attività che se ora va scomparendo, in passato ha costituito uno dei punti di forza per l’economia locale.

Si tratta pertanto di una tradizione secolare che rischia di svanire tanto per i cambiamenti degli stili di vita, che tendono ad eliminare i lavori più faticosi e logoranti, quanto per il fiorire della concorrenza dei Paesi dell’Est europeo che immettono nel mercato un prodotto a basso prezzo, ma qualitativamente inferiore.

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