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Giornali e toghe: la brutta storia del prete calabrese specchio di un cortocircuito

E' una turpe vicenda, comunque la si pensi e per le ragioni più diverse, quella di cui da poco più di una settimana è protagonista un sacerdote della Piana di Gioia Tauro. Del religioso si parla da giorni, lo hanno fatto in tanti, qualcuno anche a sproposito, perché al centro di una presunta brutta storia di sesso con ragazzini, prostituzione minorile, rapporti omosessuali a pagamento. Insomma, un procedimento penale con tutti gli ingredienti per far scattare, istintivamente, un moto di profondissima indignazione in chiunque sia venuto a conoscenza dei particolari di questa indagine.Quel che è successo dopo, però, desta più di una perplessità. In particolare, a convincere poco sono le decisioni, contraddittorie ed apparentemente illogiche dei magistrati fino al momento imbattutisi nel caso. Si tratta, infatti, di capire cosa sia vero di ciò che ci è stato raccontato all'inizio, con dovizia di dettagli, anche pruriginosi ed inutili ai fini di una corretta e completa informazione, e quanto sia rimasto dell'impostazione originaria concepita dagli organi inquirenti.  Inutile girare, con delicata diplomazia, attorno al nocciolo della questione: il 18 dicembre al sacerdote vengono strette le manette ai polsi e, sotto il peso gravoso di accuse pesantissime, viene accompagnato dietro le sbarre. Tre giorni più tardi, sette ore di interrogatorio sono sufficienti per permettere al magistrato competente di decidere, 24 ore dopo, di concedergli il beneficio dei domiciliari. A prescindere dal quadro indiziario alla base del mandato d'arresto, illustratoci in modo circostanziato dagli investigatori, colpisce un elemento essenziale: i reati addebitati al prete sarebbero stati commessi sfruttando il cellulare ed il personal computer, due strumenti il cui utilizzo, con la detenzione domiciliare, non gli è precluso.  Dunque, dove si è inceppata la macchina logica del buonsenso? Un affievolimento delle esigenze cautelari non è facilmente rintracciabile, alla luce della possibile reiterazione del reato che, come noto, costituisce uno degli elementi alla base della reclusione in carcere. Indipendentemente dal contenuto delle risposte e delle spiegazioni fornite in sede d'interrogatorio, è mai possibile che in un arco temporale così breve siano venute meno le ragioni alla base del provvedimento restrittivo che ne aveva disposto la carcerazione? Più di qualcosa non torna e, legittimamente, l'opinione pubblica rimane spiazzata assistendo al saliscendi delle montagne russe della giustizia italiana. In linea puramente teorica ed astratta in quanto non appare opportuno entrare nel merito del caso specifico, siamo ancorati  ad una biforcazione del pensiero che non prevede il percorso di terze vie: o prima è stato esageratamente gonfiato il contenuto dell'ordinanza sfociata nella sua cattura, e sarebbe imperdonabile, o dopo gli  è stato riservato, ingiustificatamente, un trattamento di favore. Non che la conduzione lineare dell'attività investigativo-giudiziaria rappresenti un problema sorto nell'ultima settimana, beninteso. Basti pensare al rapporto-scontro, perverso, tra politica e giustizia che accompagna il corso degli eventi italiani ormai da quasi un quarto di secolo. Sono trascorsi, infatti, circa 24 anni da quando la furia violenta di "Tangentopoli" sconquassò lo scenario che per decenni aveva favorito, piaccia o no, benessere e sviluppo in Italia. Nelle forme più diverse, esito delle alchimie tipiche della Prima Repubblica, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, il Partito Liberale, il Partito Repubblicano ed il Partito Socialdemocratico avevano garantito la solidità del sistema. Di quel delicatissimo equilibrio fra poteri, anche differenti da quello propriamente politico, nulla rimase davanti alla cieca violenza di quella sedicente rivoluzione giudiziaria. L'ubriacatura di massa, causata dall'irresponsabilità di magistrati, panorama informativo e forze politiche che da quel blocco erano rimaste escluse, produsse un conformista ed acritico pensiero unico al quale in pochi, pochissimi, ebbero il coraggio di opporsi. L'opinione pubblica era assoggettata ad un impazzimento simile a quello che muove le vigliacche azioni di chi si agita per entrare in guerre senza vie d'uscita, per approssimazione, impreparazione, superficialità di giudizio. Cosa sia rimasto di quella ventata giustizialista è ciò che siamo costretti ad avere sotto gli occhi tutti i giorni: le seconde, le terze e le quarte file della platea di clientes di un tempo che, liberatisi i posti più appetibili, si sono lanciati famelici sulle misere spoglie rimaste. Le macerie di allora sono state così gigantesche che la polvere ancora adesso impedisce di cogliere dettagli e sfumature di quel che successe allora. Avvisi di garanzia trasformati, nell'immaginario collettivo, in arresti; arresti che, per l'inciviltà di toghe e penne assetate di sangue, hanno assunto le sembianze di condanne. Può sembrare mera speculazione teorica o un nostalgico ricordo di tempi orma andati, ma il veleno inoculato allora nel corpo fragile della democrazia italiana scorre ancora. Il giustizialismo d'accatto, confortato dal protagonismo di una parte consistente della casta dei magistrati e dalla prezzolata demagogia dello sconquassato tessuto giornalistico, guida le forche agitate dai puri che, è sufficiente cambiare inquadratura, per osservarli in tutta la loro sporcizia morale. Silvio Berlusconi, maggior beneficiario di quel vuoto prodotto dal "Colpo di Stato" meglio noto come "Tangentopoli", all'origine del suo progetto era animato dal desiderio, oltre che dalla necessità, di dare una casa ai milioni di orfani del pentapartito. In seguito, ma questa è ancora cronaca e non ancora storia da osservare con freddo distacco, sappiamo bene quale sia stata la sua parabola. Contestualmente, i compagni di viaggio dell'ex Cavaliere, Umberto Bossi e Gianfranco Fini, null'altro hanno fatto, se non sistemarsi sotto l'albero colmo di frutti e raccogliere tutto quel che cadeva, senza nessun merito, senza nessuno sforzo, come ebbe a dire il mai troppo rimpianto Indro Montanelli. Sui temi della giustizia, tuttavia, i tre hanno solleticato, in modo diverso, gli istinti più beceri del popolo: da una parte il garantismo ad personam coltivato dall'imputato B., dall'altra la demagogia di chi ha "sventolato" cappi in Aula e prima ancora aveva ancora rivendicato con orgoglio il lancio di monetine contro Bettino Craxi davanti all'hotel Raphael. Non condividere l'idea che nel 2015 la situazione sia ulteriormente peggiorata è il sigillo alla malafede: sotto questo punto di vista le colpe abnormi di certa stampa sono devastanti, quasi pari a quelle dei "sacerdoti della giustizia". Un infinito, ininterrotto "dagli all'untore", se potente ed in vista ancora meglio. Provare a contrastare questa deriva è simile al tentativo di voler fermare il vento con le mani, ma poco importa perché la barbarie, anche per vicende delicatissime sul piano personale, di additare al pubblico ludibrio e tagliare teste in simboliche impiccagioni di piazza, è da criminali, senza se e senza ma. Quando poi l'obiettivo del linciaggio riveste cariche pubbliche o indossa una tonaca da prete, la schiuma di rabbia esce ancora più copiosa dagli angoli della bocca. In fondo, a chi importa se agendo in siffatto modo si ottiene un unico risultato: la morte del vivere civile. In Calabria e nel resto di quel mondo che vorrebbe inchinarsi solo alla autentica Giustizia ed alla autentica Verità combattere per una causa persa, o almeno mettersi di traverso, è scomodo, ma ne vale la pena: soprattutto quando anche soggetti che vantano un recente passato, a loro dire, "garantista", s'inchinano alle più bieche e squallide voglie vendicative. Tutelare la presunzione d'innocenza, a maggior ragione in una terra infestata (anche) dalla 'ndrangheta dovrebbe essere un faro capace di illuminare le menti, ma è diventata niente più che un inutile orpello da nascondere per non rischiare di essere confusi con i lupi voraci delle altrui debolezze. 

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