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Occupazione: la Calabria tra le peggiori regioni d'Europa

Mentre la classe politica parla di ripresa e fine della crisi, i dati statistici restituiscono una realtà ben diversa. Soprattutto per quanto riguarda l'Italia meridionale, dove l'economia continua ad essere asfittica ed i livelli d'occupazione offrono poche speranze per il futuro.

A fotografare, qualora ce ne fosse stato bisogno, il pantano in cui si trova chi vive nella parte geograficamente più estrema della Penisola, è il Regional Yearbook 2017 pubblicato ieri da Eurostat.

Dal report emerge che Calabria, Sicilia, Campania e Puglia sono tra le sei regioni europee dove meno di una persone su due lavora. Insieme alle quattro regioni italiane figurano Mayotte e Melilla, due territori d'oltremare situati nel continente africano, appartenenti, rispettivamente, a Francia  e Spagna.

Nell'Ue, in media il 71,1% dei cittadini fra i 20 e i 64 anni aveva un'occupazione nel 2016. La percentuale crolla al 44,3% in Puglia, 41,2% in Campania, 40,1% in Sicilia. La situazione più drammatica è, senza dubbio, quella calabrese. In Calabria, infatti, il tasso d'occupazione non va oltre il 39,6%. La media italiana è del 57,2%.

La Calabria risulta anche tra le regioni in Europa che hanno il maggior numero di Neet, cioè giovani fra i 18 e i 24 anni che non studiano e non cercano lavoro. Anche se sotto questo profilo a "brillare" in negativo è la Sicilia dove l'indice si attesta al 41,4%

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Governo: l'orgoglio di Renzi, la continuità di Gentiloni e le lacrime degli italiani

Orgoglio e Continuità. L’orgoglio è quello di Matteo Renzi che si è detto soddisfatto del lavoro svolto nei 1024 giorni trascorsi al governo. La continuità, invece, è la parola d’ordine di Paolo Gentiloni. Ad ogni piè sospinto, il nuovo presidente del Consiglio manifesta l’intenzione di seguire la scia tracciata dal suo predecessore.

Non si comprende, però, da cosa nasca tale l’entusiasmo.  L’orgoglio fa a pugni con i numeri. I dati fotografano, infatti, una realtà della quale c’è poco d’andar fieri. La declamata continuità fa pensare, invece, che il nuovo inquilino di Palazzo Chigi non abbia letto i dati pubblicati da Eurostat. Diversamente cercherebbe d’intraprendere un sentiero diverso.

Secondo l’ufficio statistico dell’Unione europea, tra il 2014 ed il primo trimestre del 2016 il Pil italiano è cresciuto di 1,8 punti.  Un dato positivo, se non rapportato con quanto accaduto in Europa nello stesso periodo.

Negli anni presi in esame, il Pil dell’Eurozona è, infatti, cresciuto di 4,1 punti.

La crescita italiana non è, quindi  lontanamente comparabile con quella registrata nei maggiori paesi europei. Nel periodo considerato, in Spagna il Pil ha fatto segnare un + 7,5 punti, in Gran Bretagna + 5,9 ed in Germania +3,6.

La situazione non migliora se si prendono in considerazione le politiche di risanamento.  Negli anni del governo Renzi, il rapporto debito pubblico/Pil è cresciuto del 3,9 per cento.

Quando l’ex sindaco di Firenze arrivò a Palazzo Chigi, il rapporto debito pubblico/Pil era al 131,6 per cento. A fine settembre scorso, il rapporto era salito al 135,5 per cento. Quanto la performance italiana sia negativa lo si evince comparando il dato con la media europea. Nello stesso periodo nella Ue il rapporto è diminutito in media del 2 per cento.

A ciò si aggiunga la crescita del debito in valore assoluto. Secondo Bankitalia, tra marzo 2014 e settembre 2016, il debito pubblico è passato da 2.121 miliardi a 2.212 miliardi. Un dato negativo, a fronte della drastica diminuzione della spesa per interessi. Tra il  2013 ed il 2015 il minor costo del denaro ha fatto risparmare alle casse italiane ben 9 miliardi di euro. Una cifra, con tutta evidenza, non impiegata per ridurre il debito.

La situazione non migliora sul fronte della giustizia fiscale. Durante il governo Renzi, le entrate derivanti dalle imposte indirette, ovvero quelle che colpiscono soprattutto i ceti più deboli, sono passate da 238 a 249 miliardi.

Se i dati macroenomici non sono esaltanti, quelli che riguardano l’economia reale sono anche peggiori.

In un  contesto del genere non si comprende quali possano essere i motivi d’orgoglio. Ancor meno, poi, si capisce su cosa poggi il desiderio di Gentiloni di percorre lo stesso sentiero seguito finora. Un sentiero che, con tutta evidenza, sta conducendo il Paese diritto in un baratro.

Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

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"Basta un Sì", "Io voto No": intanto il 37% dei giovani rischia la povertà

Toni apocalittici, da imminente "fine del mondo": "Basta un sì", "Io voto no" e nel frattempo, mentre gli ultrà rivaleggiano sull'esito del referendum costituzionale in programma il 4 dicembre, una catastrofe, che una classe politica responsabile ed una opinione pubblica meno distratta dovrebbe considerare ben più preoccupante, sta già dispiegando, da anni, i suoi effetti distruttivi. Sono sempre di più, infatti, i giovani tra i 15 ed i 24 anni che rischiano di oltrepassare la linea rossa dell'immaginario confine dopo il quale si affaccia il baratro della povertà. A drammatizzare ulteriormente i dati, inoppugnabili, la constatazione che si tratta di numeri in controtendenza rispetto agli altri Paesi sviluppati del Vecchio Continente. Se, dunque, fino al culmine della crisi economica deflagrata in seguito all'esplosione della bolla dei mutui subprime, ci si poteva nascondere dietro il paravento realizzato con il tessuto evergreen "mal comune mezzo gaudio", adesso non è più così. L'Italia, a dispetto dei proclami renziani e della vuota inconsistenza esibita, con somma mediocrità, dalle derelitte opposizioni, arranca, fatica e non riesce a risollevarsi. A scontare le conseguenze peggiori di questa deriva è, come anticipato, la fascia d'età compresa fra i 15 ed i 24 anni: quasi il 37% è lì, sul bordo del precipizio. A certificarlo è il Rapporto che l'Eurostat ha reso pubblico in coincidenza della "Giornata Mondiale contro la povertà". L'istantanea consegnata dal dossier testimonia che le difficoltà in cui si agita il Belpaese sono molto vicine a quelle patite in Bulgaria, Grecia e Romania, ben distanti dalle nazioni trainanti in Europa: Germania, Regno Unito, Francia. Ancora più alte, neanche a dirlo, le fiamme dell'inferno in cui si dimena la fascia giovanile che sopravvive nelle regioni meridionali. Estremamente eloquente, a questo proposito, il contenuto del Rapporto 2016 sulla povertà diffuso dalla Caritas. Ai Centri di Ascolto presneti nelle città del Sud, infatti, in termini percentuali, si rivolge un numero maggiore di italiani rispetto a quello dei cittadini di provenienza straniera. Ormai i due terzi dei soggetti bisognosi, 66,6%, sono nati ed hanno profonde radici in questo "maledetto" Paese. Le cifre snocciolate nel documento confermano che ad essere rimanere invischiati nella trappola della crisi e della stagnazione non è la popolazione anziana, ma quella giovanile. Trovare un impiego è una chimera, l'accesso al mercato del lavoro è chiuso a doppia mandata ed i ragazzi faticano arrancando: tra i 18 ed i 34 anni la quota di coloro che versano in uno stato di indigenza è pari al 10,2%, una percentuale che decresce  progressivamente fino a crollare al 4% nella fascia che interessa gli anziani al di sopra dei 65 anni d'età. Portafogli vuoti, assenza di un'occupazione, impossibilità di mantenere un tetto sopra la propria testa, famiglie a pezzi: drammi che, per qualcuno, si assommano dipingendo un quadro che inchioda alle proprie responsabilità la classe dirigente e l'intera opinione pubblica. Un tessuto sociale talmente rammendato da non poter più garantire quel senso di protezione che faceva di una società una comunità in marcia, compatta e con l'obiettivo di non lasciare indietro nessuno. Politici miopi e scriteriati a cui la Caritas, indirettamente, si rivolge, auspicando la stesura di un Piano di contrasto alla povertà, che duri nel tempo e sia accompagnato da misure concretamente inclusive, come il reddito di cittadinanza. Non basterebbe, certo, e, infatti, provvedimenti del genere dovrebbero essere affiancati da altri in grado di ampliare in modo considerevole il bacino degli occupati. E' di questo che dovrebbe occuparsi la Politica: mettere un freno alle tragedie esistenziali, perdere il sonno pur di ribaltare il tavolo ed individuare le soluzioni capaci di alleviare la sofferenza. Ed è di questo che dovremmo occuparci noi, tutti, gettando nel pozzo i pentoloni traboccanti amenità, falsi problemi e "armi di distrazione di massa". Perché sì, magari sul nostro stesso pianerottolo, dietro quella porta, qualcuno oggi farà fatica a mettere assieme il pranzo con la cena, ma ciò che conta è armarsi a dovere per combattere la "Madre di tutte le battaglie", quella referendaria. Anime strabiche nella migliore delle ipotesi, irrimediabilmente cieche in quella peggiore. "Basta un sì" è lo slogan urlato dai soldatini del presidente del Consiglio, ma molto meglio sarebbe se esso fosse pronunciato davanti agli occhi della nostra coscienza, individuale e sociale, e non per prendere posizione su un quesito di cui quasi nessuno, pur ergendosi ad insigne costituzionalista da social network, ha compreso anche solo gli ingredienti più elementari. No, a prescindere dalla vittoria dell'una o dell'altra opzione, nulla cambierà, il giorno dopo che gli italiani si recheranno alle urne. Il corso degli eventi proseguirà senza scossoni degni di nota. La distinzione, anche la mattina del 5 dicembre, sarà tra chi potrà sorridere alla giornata, confortato da una solidità economica rassicurante e chi proverà a sottrarsi ai tentacoli velenosi della miseria.  

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