Serre: le ferriere itineranti in età moderna

Ricca di acqua e legno, con discrete risorse di minerale di ferro, la Calabria vanta un vecchio legame con l’estrazione e la lavorazione dei metalli. Nell’area delle Serre l’attività fusoria affonda le radici in un passato piuttosto remoto. Quanto le operazioni fossero diffuse lo si può intuire, ancora oggi, da una serie di toponimi che hanno conservato traccia dell’attività che vi si svolgeva. In ogni caso, a dare conferma di ciò che altrimenti potrebbe essere solamente una valutazione di carattere indiziario è Benedetto Tromby, il quale nella “Storia critico-cronologica-diplomatica del Patriarca San Brunone e del suo ordine cartesiano”, riporta l’atto di donazione con il quale, nel 1094, Bruno di Colonia riceve, da Ruggero il Normanno, le miniere ed i forni presenti nel circondario di Stilo ed Arena. La donazione si accresce nel 1173, quando Guglielmo re di Sicilia, aggiunge “[…] et liberartibus minerae aeris ed ferri […]”,  concedendo alla Certosa alcuni contadini ed un mulino “in pertiunentiis Stili”. La lavorazione del minerale si sviluppa con svevi, angioni ed aragonesi che fiutano il vantaggio economico ed iniziano ad istituire “fondachi” e dazi. Le miniere di Pazzano crescono d’importanza durante il periodo angioino, tanto che un documento nel 1333, nel citare il lavoro nelle gallerie di Monte Stella, fa riferimento ad una fonderia di proprietà della Certosa attiva nel territorio di Pazzano. Sia le miniere che le ferriere, non vengono gestite direttamente. A mandarle avanti ci pena l’ “arrendario” , un concessionario che le sfrutta, pagando una rendita in manufatti e in denaro, al re ed al convento. Il periodo d’oro della metallurgia itinerante vive il suo primo declino intorno al 1450, quando gli Aragonesi per favorire i più importanti finanziatori del loro debito, ovvero i ricchi mercanti fiorentini che risiedono a Napoli, favoriscono l’importazione di ferro toscano imponendo dazi proibitivi all’estrazione, lavorazione e commercio del ferro grezzo. “Nel 1520 la ferriera di Stilo risulta inattiva”, mentre le semi abbandonate miniere di Pazzano forniscono il poco materiale necessario ad alimentare le ferriere di Campoli, Trentatarì, Castel Vetere, Spadola e Furno. Quasi sicuramente, a Spadola la lavorazione del ferro avveniva in un luogo, ancora oggi chiamato località “Firrera”, situato lì dove oggi sorge il cimitero. Nel 1523, quale riconoscimento dei servigi ricevuti l’imperatore Carlo V dona a Cesare Fieramosca le miniere e successivamente i forni fusori ed i boschi.  Il fratello del celebre Ettore, più votato alle armi che agli affari non s’interessa granché delle sue nuove proprietà. Tuttavia, l’importanza dell’attivata estrattiva e della lavorazione del ferro è testimoniata da un documento redatto nel XVI secolo, nel quale incaricato dalla Serenissima di tracciare un “Descrizione di tutta l’Italia e isole pertinenti” il frate domenicano Leando Alberti, riferendosi alla vallata dello Stilaro scrive: “dalla marina, lontano quattro miglia, sopra un alto colle si dimostra Stilo, nobile Castello, dietro al quale a man sinistra son le miniere di ferro ove se ne cava assai”. Dopo una annosa vertenza tra gli eredi Fieramosca e Ravascheri che gestiscono per due anni la ferriera di Stilo, la “Regia Camera” al fine di non interrompere l’attività, incarica un ufficiale d’artiglieria, tale capitano Castiello, di dirigerle “in nome e per conto della corte”. Non deve risultare strano la scelta di affidare la gestione delle ferriere ad un uomo d’arme. Quella è l'epoca in cui l’arte di eliminare il prossimo si serve sempre più di un’arma potente e temibile, il cannone. Nonostante ciò, anche in ragione delle fiorenti miniere del Nuovo Mondo, durante il periodo dei vicereami spagnoli, l’industria estrattiva “subisce una lenta contrazione”. Sono gli anni in cui lo stato cede la proprietà delle ferriere, tenendo per se solamente quella di Stilo. Nuovo impulso all’ “industria” siderurgica viene dato dopo il 1734, in seguito alla rinascita del Regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone. “La produzione nazionale di ferro si attesta intorno alle 10.000 cantaia, quella dell’acciaio intorno a 1.300. In Calabria se ne producono 2.400, di cui la metà a Stilo. […] tuttavia, l’antiquata tecnica di fusione  detta alla “catalana” non è più sostenibile dal momento che comporta un insostenibile dispendio di carbone. E’ la fine delle ferriere itinerante e l’inizio di una lunga incubazione che, nel 1771, porterà alla nascita del primo nucleo dello stabilimento proto-industriale di Mongiana.

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Storia vera delle "Reali ferriere ed officine di Mongiana"

La Calabria vanta un vecchio legame con l’estrazione e la lavorazione dei metalli. Una storia  ricostruita, nei primi anni settanta, da Gennaro Matacena e Brunello De Stefano Manno nel volume “Le reali ferriere ed officine di Mongiana”. L’insediamento mongianese ha rappresentato “l’ultima testimonianza di un’attività fusiva che in Calabria risale al tempo degli insediamenti commerciali fenici”. Un’attività, nata in ragione di un vantaggio competitivo determinato dalla disponibilità di tutte le materie prime necessarie. La presenza del ferro nelle miniere dei monti Stella e Cosolino che circondano il triangolo Stilo – Bivongi - Pazzano; i ricchi boschi di faggio di Monte Pecoraro e le inesauribili risorse idriche che solcano l’intero territorio. Mongiana, nasce, infatti, in tempi relativamente recenti ed è “una gemmazione” di precedenti piccole ferriere. Una gemmazione dettata da ragioni prettamente economiche. L’enorme consumo di carbone vegetale, “rendeva le ferriere industrie nomadi”, costrette ad inseguire i nuovi boschi dai quali ricavare il carbone necessario ad alimentare gli altiforni. Come ricordano gli autori delle “Reali ferriere ed officine di Mongiana”, “nel 1771, distrutto il bosco di Stilo, i forni giungono in località Cima, detta poi Mongiana dal nome di un ruscello che scorreva sulla Piana Stagliata-Micone”. Intorno al primo nucleo di forni si svilupperà il paese e con l’introduzione delle prime leggi di tutela forestale, la ferriere perderà il carattere itinerante e assumerà quello d’industria stabile. Un primo impulso alla siderurgia calabrese arriva a partire dal 1734, in seguito alla rinascita del Regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone e dal suo dinamico primo ministro Bernardo Tanucci. In quel periodo, la “produzione nazionale di ferro si attesta intorno alle 10.000 cantaia, quella dell’acciaio intorno a 1.300. In Calabria se ne producono 2.400, di cui la metà a Stilo”. Si tratta di una produzione di qualità piuttosto scadente, tanto che il sovrano decide di far chiamare a Napoli “due drappelli di sassoni e Ungheri […] Uffiziali istrutti nella metallurgia sotterranea, minatori, fabbri per costruire macchine, uomini esperti nel preparar metalli avanti la fusione, e quanti altri mai potessero abbisognare alla impresa di investigare e scavare miniere”. La pattuglia sassone è guidata dal consigliere Hermann, professore presso l’Accademia mineraria di Freyberg, mentre a capo degli ungheresi c’è un non meglio identificato Fuchs. Ai tecnici viene affidato il compito, da una parte, di effettuare prospezioni del sottosuolo, dall’altra d’istruire le maestranze. “A Stilo prende dimora il sassone Bruno M. Schott” che dirige lo scavo di nuovi filoni. A capo delle ferriere, in qualità di amministratore, viene posto Giovanni Conty il quale, a causa delle difficoltà riscontrate, chiede di essere messo nella condizione di ristrutturare l’intero complesso o in alternativa di essere avvicendato. Con l’ultimatum, Conty trasmette a Napoli la proposta di varare una norma a tutela del bosco ed un dettagliato piano di sviluppo che contiene la proposta di trasferire l’attività in località Cima, alla confluenza dei fiumi Ninfo e Allaro, al centro di fitti boschi equidistanti dalle due coste. La proposta viene accolta ed il Ministero dà il via libera alla realizzazione della nuova manifattura che, secondo quanto riportato dal quarto e quinto direttore della ferriera, Vincenzo Ritucci e Michele Carascona, sorge a partire dall’8 marzo 1771. Il nucleo intorno al quale nasce l’insediamento che assume il toponimo di Mongiana, è composto da due altiforni, coperti da una rudimentale tettoia e quattro baraccamenti. Nel 1789, Ferdiando IV, che nel 1759 aveva preso il posto di Carlo divenuto re di Spagna, fa bandire un concorso per un viaggio di studio in Sassonia, Baviera, Austria, Francia ed Inghilterra. “Scopo del viaggio è studiare la composizione chimico fisica dei minerali, conoscere le nuove tecniche estrattive, avvicinarsi al mondo produttivo e, non ultimo, impadronirsi delle nuove tecniche adottate dall’industria europea”. Il viaggio dei sei vincitori, Carmine Lippi, Giovanni Faicchio, Giuseppe Melograni, Vincenzo Raimondi, Andrea Savaresi e Matteo Tondi si conclude, nel 1797. Ritornati in patria il Governo, determinato a far fruttare le conoscenza acquisite, spedisce in Calabria, Tondi, Melograni, Faicchio e Savaresi che stravolgono tutti i metodi di lavorazione. Le vicende del neonato “stabilimento” s’intrecciano con quelle della Rivoluzione Francese. I lavori per la realizzazione della ferriere non sono rapidissimi. Fino al 1790, Giovanni Conty annota solamente le produzione delle ferriere di Piano della Chiesa. Alla sua morte, l’amministrazione passa al figlio, Massimiliano. Le prime produzioni di un certo rilievo risalgono agli ultimi anni del Settecento, quando la ferriera produce 3.750 cantaia di ghisa, 1.870  cantaia di ferro fucinato, ovvero 337 tonnellate di ghisa e 168 di ferro. Alla lunga gestazione ed alla esigua produzione si aggiunge, nel 1796, il dato che l’artiglieria lamenta la pessima qualità del ferro, i difettosi calibri dei cannoni e l’approssimativa fattura dei proiettili. Al termine della riconquista ad opera del Cardinal Ruffo, nel 1799 Massimiliano Conty, che si era schierato con la Repubblica, viene estromesso dall’amministrazione. Al suo posto arriva Vincenzo Squillace, capomassa delle bande di Cardinale. Ristabilita la situazione, a Mongiana rimarranno solamente Faccio e Savarese, mentre Tondi e Melograni vengono allontanati dal Regno per aver sostenuto la Repubblica. Nel 1800 il Re sancisce il passaggio delle ferriere dal ministero delle Finanze a quello della Guerra e Marina. La direzione d’artiglieria invia i suoi ufficiali a sorvegliare. Sotto l’amministrazione Squillace, vengono perfezionati gli altiforni e diversificate le produzioni delle quattro ferriere (san Carlo, san Bruno, san Ferdinando, e Real Principe). Il prodotto annuale lordo sale a 4.100 cantaia di ghisa e 2.293 di ferro. L’amministrazione Squillace dura fino al 1807 quando, sul trono di Napoli, arriva Giuseppe Bonaparte. Dal 1 gennaio 1808 l’intero stabilimento passa al ministero della Guerra e Marina che lo gestirà per i successivi cinquant’anni. Viene nominato direttore Vincenzo Ritucci, mentre Squillace diventa cassiere. In pochi anni Ritucci ingrandisce e riorganizza lo stabilimento e pianifica la produzione. Intorno agli edifici di produzione sorgono le prime abitazioni destinate ai tecnici ed ai soldati. Nel 1811, Ritucci, la cui gestione aveva sfornato prodotti buoni ma non sempre economici, viene avvicendato dal capitano Michele Carascosa il cui compito è cercare di abbassare i costi di produzione. All’inizio del 1814 arriva alla direzione il capo squadrone d’artiglieria a cavallo Nicola Landi. Nel biennio successivo vengono prodotte 25.197 cantaia di ghisa e 5240 di ferro. Il risultato è notevole, tanto più che è stato raggiunto con 200 uomini in una fonderia di 31 metri per 15 da due malandati altiforni. Dopo la Restaurazione la produzione scende sotto le 4000 cantaia di ghisa, ma si specializza. Nel 1814 entrata in funzione la Fabbrica delle Canne ribattezzata dai Borbone Real Manifettura e Armeria. A partire dal 1815 le canne di fucile vengono spedite alla manifattura di Torre Annunziata. Dopo la Restaurazione, oltre alle armi, Mongiana entra nel mercato delle produzioni civili. Il successo dell’impresa induce il ministero ad inviare in Calabria un tecnico salernitano, Domenico Fortunato Savino che, in seguito all’alluvione del 1849 che danneggia pesantemente il complesso, rivoluziona la produzione e progetta, tra le altre cose, la nuova fabbrica d’armi e le fonderie. Savino aumenta e specializza ulteriormente la produzione, introducendo un nuovo metodo di fusione ed installando la “Tiraferri”, un laminatoio acquistato in Inghilterra. Intanto, dalla fabbrica d’armi, inaugurata nel 1852, partono i semilavorati destinati a Torre Annunziata e Poggioreale. Nel contempo, viene avviata la produzione di un fucile interamente costruito in loco, il modello “Mongiana”. In seguito ad un’inaspettata visita di Re Ferdinando II, nel 1852, il complesso diventa una colonia militare ed il direttore assume i poteri di sindaco. Nasce, così, il comune di Mongiana. A novembre del 1855, una nuova alluvione danneggia la fonderia. Dalla ricostruzione sorgeranno due altiforni gemelli, il san Ferdinando ed il san Francesco, i più grandi attivi in Italia. Grazie alle nuove infrastrutture ed ai 1550 addetti, nel 1857, la produzione, supera le 25 mila cantaia di ghisa. Il 28 agosto 1860, una colonna garibaldina, guidata dal capitano Antonio Garcea raggiunge Mongiana e ne assume il controllo. Ad appena un anno dall’Unità, la produzione si riduce drasticamente. Nonostante l’ottima qualità dei manufatti che, nel 1861, conquistano una medaglia ed un diploma all’esposizione universale di Firenze e nel 1862 una medaglia d’oro all’esposizione universale di Londra, con la legge n. 793, del 21 agosto 1862, Mongiana viene inserita tra i beni demaniali da alienare. Ad acquistarla, sarà un ex sarto catanzarese, un garibaldino giunto per la prima volta a Mongiana, con la colonna di Garcea, Achille Fazzari. La nuova proprietà riavvierà la produzione nel 1881, ma si tratterà di un fuoco di paglia. Dopo soli tre mesi, infatti, l’altoforno verrà spento. Con esso si spegnerà, anche, la speranza di una terra, ancora oggi, alla ricerca di se stessa.

 

 

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