Vibo, Leggere&Scrivere: il giornalista Yavuz Baydar parla dell' Europa cieca e sorda di fronte al dramma della Turchia

La Turchia è di scena a Leggere&Scrivere, con il giornalista Yavuz Baydar. Conversando con Marta Ottaviani, corrispondente de La Stampa, e l’antropologo Vito Teti, Baydar ha parlato di un Paese colpito dalla deriva autoritaria del presidente Recep Tayyip Erdoğan.

Già collaboratore del El Pais, il giornalista turco l’anno scorso, dopo il fallito golpe, è scappato dalla Turchia e ora vive in Italia a causa delle limitazioni per la libertà di stampa.

«Siamo in una fase in cui le fondamenta dello Stato laico sono messe seriamente in discussione» ha spiegato Baydar, che di recente ha ricevuto il Premio Speciale per l'eccellenza giornalistica all'European Press Prize.

Per Baydar: «L’obiettivo è avvicinarsi ai Paesi dell’Asia centrale, con un uomo solo al comando, una sorta di fascismo. Erdogan ha eliminato giornalisti e docenti e diminuito il potere del Parlamento. È supportato dalle grandi masse, ma ha costruito un muro tra la popolazione e la realtà delle cose». Ha, quindi, fornito al pubblico alcuni dati sulla censura di Erdogan: 178 giornalisti in prigione, 8mila reporter hanno perso il lavoro dal 2014, 250 media chiusi, oltre 50 cronisti esuli.

Per raccontare la Turchia si è partiti studiando l’analisi di Corrado Alvaro nel libro Viaggio in Turchia, libro del 1932 quando lo scrittore era corrispondente dal Paese per il quotidiano La Stampa. Marta Ottaviani, autrice di Il Reis. Come Erdoğan ha cambiato la Turchia (Textus, 2016), ha affermato: «I reportage di Alvaro sono stupendi. Raccontano un periodo centrale per il Paese, quando si incominciavano a vedere i frutti della politica di Ataturk e dello Stato laico. A distanza di ottant’anni, con il referendum dell’aprile di quest’anno è cambiata radicalmente la Costituzione con un’impostazione al presidenzialismo forte, ma secondo i media di regime il Paese è migliorato in tutto».

Vito Teti, commentando gli scritti di Alvaro, ha osservato: «Aveva una capacità originale e innovativa di leggere il mondo mediterraneo e la Turchia che vedeva molto simile alla Calabria». Ha proseguito Teti: «La speranza kemalista, che in quegli anni rappresentava un riscatto, si è rovesciata. Una beffa della storia, ora tutti i passi verso la modernità vengono cancellati».

La discussione si è poi spostata sul ruolo dell’Ue. «C’è un’indifferenza europea – ha sostenuto Baydar – se siamo arrivati a questo punto. Nel 2001, data di creazione del suo partito, l’AKP, Erdogan si era caratterizzato per un programma di riforme ma da quando Sarkozy e Merkel non hanno considerato il mio Paese parte d’Europa la gente turca si è allontanata e Erdogan, infatti, ha colto questa frattura per canalizzare il suo potere. Ora è nell’orbita russa e Putin ha tutto l’interesse nel rompere il patto della Turchia con la Nato». 

 

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Serra San Bruno e l'alluvione del 21 novembre 1935

Il 21 novembre 1935 sembra un giovedì come tanti altri. Il cielo è un po’ grigio, all’orizzonte si staglia qualche nuvola nera carica di pioggia, ma tutto sembra rientrare nella normalità.I Serresi sono presi dalle loro faccende, la preoccupazione tutt’al più è rivolta altrove.

Da più di un mese e mezzo, infatti, l’Italia ha dichiarato guerra al Negus. In Abissinia, a riscattare l’onta di Adua, ci sono molti fanti calabresi. A Serra quindi, non ci si cura molto delle condizioni climatiche. Non c’é, ancora, l’allerta meteo e la pioggia, in fondo, non fa paura. Ogni cosa procede secondo un preciso ordine. Uomini e donne sono alle prese con le loro occupazioni.

Nessuno immagina che quel 21 novembre è destinato ad entrare negli annali, come il giorno del “Dilluvioni”, ovvero qualcosa di più di una normale alluvione.

La giornata sembra, ormai, instradata sul binario della consueta normalità quando, verso le 16, le nubi iniziano a farsi minacciose. Sta per arrivare la pioggia, ma a Serra non è certo una notizia. Nessuno ci bada più di tanto. Verso le 17, inizia la salva di tuoni e fulmini che sembrano voler squarciare il cielo.

Intanto, con il buio è arrivata anche la pioggia la cui intensità inizialmente non lascia presagire cosa sta per accadere. All’improvviso, però, arriva quella che oggi definiremmo una bomba d’acqua. In poche ore cadono 509 mm di pioggia. Chi si trova per strada cerca scampo dove può, nella speranza si tratti di un normale temporale.

Ma quel giorno, di normale non ha proprio nulla. La furia della pioggia e del vento sono tali che iniziano a cadere gli alberi, qualcuno finisce nell’Ancinale. Nei punti in cui l’argine è più stretto, complice la presenza di qualche ponte, i tronchi si mettono di traverso e creano un effetto diga.

Il fiume tracima ed inizia ad invadere il centro abitato. Le zone più esposte sono le botteghe artigiane che sorgono sul Garusi e la zona abitata che sorge su corso Umberto I, attorno alle chiese Matrice ed Addolorata.

Il livello dell’acqua sale rapidamente, chi non ha fatto in tempo a scappare cerca scampo sui tetti. Le donne recitano il Rosario, gli uomini non credo ai loro occhi. Nessuno ricorda niente del genere. Dai tetti delle case che si affacciano attorno al Monumento lo spettacolo è desolante. Tutto è stato travolto e sommerso.

Corso Umberto I ha le sembianze di un lago. Le ore passano, la situazione non migliora. A molti sembra di trovarsi davanti ad una riedizione del diluvio universale. A rendere l’atmosfera ancora più lugubre, le tenebre che avvolgono il paese dopo che l’acqua ha trascinato via i pali della luce e della rete elettrica.

Verso la 22, sembra essere arrivato il miracolo che tutti hanno invocato, la pioggia cala d’intensità e le acque iniziano a defluire. Il tappo, di alberi e terra, che ha ostruito l’Ancinale è saltato.

Ciò che per Serra rappresenta la salvezza, per altri è l’inizio della tragedia. I paesi situati a valle del fiume vengono, infatti, travolti dall’onda d’acqua. A Spadola il ponte che collega a Brognaturo viene abbattuto. Le conseguenze più disastrose le subisce Cardinale, dove la parte bassa dell’abitato viene trascinata via insieme a 44 persone.

Passata la piena, i serresi scendono dai tetti. L’entità del disastro, però, sarà chiara solo alle prime luci dell’alba, quando gli effetti devastanti della tragedia saranno visibili nella loro interezza. I danni materiali sono ingentissimi. L’acqua, il cui livello ha raggiunto i due metri d’altezza, ha trascinato con sé ogni cosa. Strade e case sono invase da fango e detriti.  Il cumulo di terra e sabbia, in alcuni punti, supera i tre metri.

Ma non è tutto. Alla disperazione di chi ha perso soldi e beni, in alcuni casi una vera e propria fortuna, si unisce il dramma di chi ha perso la vita. La pioggia non ha fatto distinzioni di età, sesso o condizione sociale. L’acqua ha trascinato tutto ciò che ha incontrato sul proprio cammino, compresa la vita di 18 persone.

Nella giornata del 22 verranno recuperati i primi 8 corpi, 5 uomini e 3 donne. Per gli altri dieci bisognerà aspettare i giorni successivi.

Tra le vittime della tragedia, il più anziano è un vegliardo, Giuseppe Muzzì che probabilmente, raggiunta la veneranda età di 88 anni, non si sarebbe mai aspettato di dover morire in quel modo.

I devastanti effetti dell’alluvione trovano ospitalità sulle cronache nazionali. La Stampa di Torino, nell’edizione del 23 e del 24 novembre, riporta ciò che è accaduto segnalando Serra San Bruno tra i “comuni più danneggiati”.

A distanza di più di 80 anni, di quella tragedia rimane soltanto una lontana eco. Altrettanto sbiadito è il ricorso di quella canzone scritta, con il tipico spirito canzonatorio dei serresi che riescono a burlarsi anche delle sventure e della quale ricordiamo, solo alcuni versi: “Lu 21 di novembri vinna lu dilluvioni/ mu si leva d’arriedi la chiesa chidha massa d’imbroglioni”.

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Ettore Majorana, Leonardo Sciascia e la Certosa di Serra San Bruno

Un vero giallo non ha soluzione, tutt’al più può avere soluzioni. Un giallo che si rispetti, infatti, è un rompicapo le cui chiavi di lettura non sono né vere, né false, ma solo verosimili. Una regola cui non sfugge il mistero che aleggia sulla figura di Ettore Majoarana, scomparso nel 1938 e ripetutamente associato alla Certosa di Serra San Bruno.

Proprio nel monastero della cittadina calabrese, negli anni Settanta, Leonardo Sciascia cercò per diversi giorni di trovare qualche indizio riconducibile allo scienziato siciliano.

Una ricerca accompagnata da una serie di articoli pubblicati, tra il 31 agosto ed il 7 settembre 1975, sulla “Stampa” e successivamente raccolti in un volume dal titolo “La scomparsa di Majorana”. 

Un “giallo filosofico” in cui viene messa in relazione la “fuga dal mondo” dello scienziato con una crisi etica e religiosa. Per Sciascia, infatti, il fisico avrebbe deciso di sparire, perché tormentato da dubbi e scrupoli morali derivanti dall’aver intuito, con grande anticipo, gli effetti terrificanti delle ricerche sull’atomo.

Secondo la tesi avanzata dallo scrittore siciliano, Majorana avrebbe accuratamente architettato la scomparsa, prima di placare i propri tormenti interiori dietro la porta di un convento, o meglio di una certosa.

Un luogo che Sciascia visita e del quale, nell’ultimo dei sette articoli dal titolo, “Nella Certosa la rivelazione”, scrive: “[…] siamo entrati in questa cittadella dei certosini, per seguire una sottile, inquietante traccia di Ettore Majorana. Una sera, a Palermo, parlavamo della sua misteriosa scomparsa con Vittorio Nisticò, direttore del giornale “L’ora”. Improvvisamente Nisticò ebbe un preciso ricordo: giovanissimo, negli anni della guerra o dell’immediato dopoguerra, insomma intorno al 1945, aveva visitato, in compagnia di un amico, un convento certosino; e ad un certo punto della visita, da un “fratello” […] avevano avuto la confidenza che nel convento, tra i “padri”, si trovava un grande scienziato”.

La certosa di cui parla lo scrittore, ben presto verrà associata a quella di Serra San Bruno. Eppure, Sciascia non ne fa mai menzione. In nessuno dei suoi scritti, infatti, viene esplicitamente indicata la località in cui si sarebbe rifugiato Majorana. Si parla, genericamente, di “una cittadella dei certosini” senza, mai, associarla al luogo in cui San Bruno trascorse gli ultimi anni della propria esistenza terrena.

Come si giunse, quindi, ad identificare il luogo descritto da Sciascia con la Certosa di Serra San Bruno? Il “giallo”, a dire il vero, non durò molto, a rivelarlo, fu un giornalista della “Stampa”, Lorenzo Mondo, in un’intervista del 5 ottobre 1975, nella quale, per la prima volta, Sciascia rivela il luogo in cui ha condotto la sua indagine.

Il titolo: “Parlando con Sciascia del fisico e di altre cose”, è corredato da un catenaccio quanto mai esaustivo: “Lo scrittore fa per la prima volta il nome del convento dove sarebbe fuggito lo scienziato: la certosa di Serra San Bruno”.

Secondo l’estensore del pezzo: “A Sciascia venne in mente d'occuparsi di Majorana, di fargli posto tra le sue storie siciliane, quattro o cinque anni fa, sulla base di un'intervista rilasciata da Erasmo Recami. […]. Recami lo mise in rapporto con Maria Majorana, la sorella superstite dello scienziato: i documenti - lettere, appunti, testimonianze di amici - sui quali la singolare scomparsa gettava una forte luce di ambiguità, furono un grosso regalo per la disposizione investigatrice e raziocinante di Sciascia. Nei lettori del suo racconto resta però insoddisfatta la curiosità sulle conclusioni. Si sospetta che, dopo avere smontato la tesi del suicidio. Sciascia abbia imboccato, come dire, una « scorciatoia » poetica. « No - dice - sono convinto che sia andata così come ho scritto, che Majorana si sia ritirato in un convento». E’ disposto anche, per la prima volta, a fare il nome della certosa in cui Majorana avrebbe sepolto la sua angoscia per il terrificante potere, appena intravisto, di «una manciata di atomi». Si tratta della certosa di Serra San Bruno, in Calabria, provincia dì Catanzaro. Sciascia c'è stato davvero: ha visto i boschi verdissimi che la circondano e i resti del portico secentesco scampato al terremoto del 1783, ha indugiato nel piccolo cimitero con i trenta tumuli e le trenta croci nere senza nome. Lo ha accompagnato proprio un vecchio, enigmatico frate straniero dallo « sguardo chiaro in cui trascorrono diffidenza e ironia».  […] a Serra San Bruno era passato, inseguito dalle sue furie, il colonnello Paul W. Tibbets, l'uomo che il 6 agosto 1945 guidò la missione dell'Eriola Gay su Hiroshima. Quest'ultima storia i certosini, e particolarmente il nuovo priore Dom Anquez, l'hanno smentita più volte, ma continua a sedurre, a muovere visitatori anche da lontano. Per Sciascia questo strano accostamento, preparato dal destino o forse dalla leggenda, tra il primo uomo che diede la « morte per atomo » e un altro che se ne ritrasse inorridito, ebbe il valore di una folgorazione. « Anche se la storia non fosse vera e la certosa di Serra San Bruno non c'entrasse - spiega - l'identificazione da me proposta avrebbe una sua verità”.

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La 'ndrangheta fa affari con l'Isis, opere d'arte in cambio di armi

C'è un asse invisibile, fatto di soldi, sangue ed opere d'arte, che lega la Libia alla Calabria. A svelarlo, il giornalista Domenico Quirico, che ha pubblicato sulla Stampa un'inchiesta dalla quale emerge il coinvolgimento delle cosche calabresi nel traffico di reperti archeologici trafugati dai miliziani dell'Isis. "A Vietri sul Mare dove inizia l’autostrada Napoli-Reggio - scrive Quirico - l’appuntamento con l’emissario che arriva dalla Calabria è, a metà pomeriggio, all’albergo Lloyd. Un posto «sicuro» che lui stesso ha indicato. Sono qui per comprare reperti archeologici arrivati da Sirte, bastione degli indemoniati dell’Isis, al porto di Gioia Tauro". Il porto Calabrese è, quindi, diventato il crocevia di un lucroso traffico originato dallo scambio di armi con opere d'arte. "Sì - prosegue Quirico - non è un errore: Gioia Tauro. Sono stati saccheggiati con metodo nelle terre controllate dal Califfato islamico, Libia e vicino Oriente. Gli islamisti li scambiano con armi (kalashnikov e Rpg anticarro). Le armi arrivano dalla Moldavia e dall’Ucraina attraverso la mafia russa". Tra le famiglie calabresi coinvolte ci sono, anche, quelle "della ’ndrangheta di Lamezia". Al trasporto, invece, provvede la criminalità cinesi con le "sue innumerevoli navi e container".  Una volta incontrato il mediatore, Quirico visiona il reperto: "Dal bagaglio dell’auto avvolto in un telo bianco esce il mio possibile acquisto. L’imperatore mi fissa [...] con il suo eterno sguardo di marmo, il naso leggermente abraso, la barba e i capelli magnificamente incisi dal bulino dello scultore del secondo secolo dopo Cristo, pieno di rigonfia e marmorea romanità. Dal collo spunta, reciso, il perno di bronzo che lo teneva collegato alla statua. Mi fa un po’ senso: come se l’avessero appena decapitato, lì, per mostrarmelo nel suo cimiteriale splendore. Il trafficante - continua il giornalista - spiega che era in un’altra Neapolis, quella libica, la romana Leptis Magna. Con Cirene e Sabrata sono i luoghi di provenienza di tutti tesori che mi mostrerà. Luoghi che jihadisti controllano o hanno controllato. Ma, rifletto, anche gli islamisti «moderati» di Misurata, quelli legati ai Fratelli Musulmani a cui sembra riconosciamo un ruolo di alleati affidabili nella lotta ai cattivi del Califfato". Il valore storico artistico del pezzo serve solo per stabilire la posta. La testa dell'imperatore viene offerta a "Sessantamila euro". L’emissario della Famiglia calabrese, non è uno sprovveduto "parla con proprietà di epoche storiche classiche, di marchi di scultori e di vasai. È abile, mescola agli oggetti libici anche altri reperti prelevati clandestinamente in necropoli greche in Italia, svela, racconta, ma parla di oggetti di «due anni fa»: in modo di poter negare, se necessario, le circostanze più gravi. E al massimo rischierà un accusa di ricettazione: tre anni. Da dove viene questa testa? Questa viene dalla Libia. Armi in cambio di statue, anfore, urne: funziona così… Il materiale arriva a Gioia Tauro, una volta era qui a Napoli, poi qualcosa è cambiato" . Il catalogo dei reperti nelle mani delle 'ndrine è variegato, il mediatore, infatti, offre a Quirico, anche preziosissimi reperti provenienti dal "Medio Oriente". I prezzi, ovviamente, sono "sono molto molto più cari", ma acquistarli non è un problema, basta salire in macchina ed andare a trattare direttamente l'acquisto. Ma dove? A "Gioia Tauro", naturalmente. 

 

 

 

 

 

 

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Serre: la tragedia dimenticata della madre e dei tre figli bruciati nel sonno

L’emozione prodotta dalle tragedie è sempre effimera; inizia a spegnersi nello stesso momento in cui sembra destinata a durare per sempre. Ad estinguerla è la quotidianità, la routine, l’inconscio desiderio di dimenticare. Passata la commozione, un velo, dapprima, leggero, poi sempre più opaco, copre tutto ed in pochi anni, di alcune sciagure, non rimane neppure il ricordo. L’oblio è quasi scontato, poi, quanto le vittime sono persone umili, uomini e donne che non hanno avuto nulla dalla vita e che hanno ancor meno dalla morte. I poveri, gli indigenti, i diseredati, infatti, non hanno amici né cantori. I piccoli centri, quelli in cui, in apparenza, la rete della solidarietà e più forte che altrove, non fanno eccezione. Prova ne è, la tragica fine di un’intera famiglia, divorata dalle fiamme a Simbario, nel luglio di 24 anni fa. Un fatto che, all’epoca, scosse l’intera comunità, ma di cui, a distanza di un quarto di secolo, non è rimasto neppure uno sbiadito ricordo. Era la notte a cavallo tra l’11 ed il 12 luglio del 1992, quando, un rogo divampato in una modesta abitazione del rione Cittanova, strappò la vita ad una madre ed ai suoi tre figli. La tragedia ebbe eco a livello nazionale, tanto da trovare spazio sulle pagine del Corriere della Sera e della Stampa. A provocare l’incendio fu, molto probabilmente, “una sigaretta”, una maledetta “bionda” che, in pochi minuti, sterminò quasi tutta la famiglia Rullo. Nella casa avvolta dalle fiamme, trovarono la morte, una vedova 44enne, Carmela Bono ed i figli, Antonio (19 anni), Giuseppina (13 anni) e Dante (8 anni). Come riportano le cronache del tempo: “Con ogni probabilità Antonio, il maggiore dei figli di Carmela Vono, si è addormentato nel suo letto con la sigaretta accesa fra le dita”. Ghermito da Morefo, quindi, il povero Antonio non si avvide di quel mozzicone rimasto acceso che, scivolando sulle lenzuola, avrebbe innescato il rogo. A far passare dal sonno, alla morte, gli abitanti della modesta dimora, molto probabilmente, non furono le fiamme, bensì “l’ossido di carbonio”. Un’ipotesi confermata dalla posizione in cui vennero rinvenuti i corpi. Dopo aver lavorato tutta la notte per domare l’incendio, una volta entrati in quel che rimaneva della casa, i vigili del fuoco trovarono i corpi carbonizzati nei rispettivi letti. Qualora fosse stato possibile, ad aggiungere ancor più orrore al dramma, un dettaglio; l’unico ad accorgersi di ciò che stava accadendo fu il piccolo Dante. Nel disperato tentativo di sfuggire all’immane destino, il bambino aveva cercato scampo sotto il letto materno, dove il suo corpicino venne ritrovato rannicchiato. Fatalità volle che alla tragedia scampasse Rosetta, la figlia diciottenne di Carmela e Fiorino Rullo. Invero, per usare un eufemismo, con lei il fato fu piuttosto beffardo. L’appuntamento con la morte le fu, infatti,  rimandato solo di qualche anno, quando venne travolta ed uccisa da un’automobile. Una sorte non meno infame di quella toccata ai suoi congiunti.  

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