Vibo, Leggere&Scrivere: Lirio Abbate ha presentato il libro-inchiesta “La lista. Il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati”

Vedi su internet chi c…. sono io”. A parlare è Massimo Carminati, principale indiziato nel processo Mafia Capitale, ex terrorista dei Nar, intercettato mentre si rivolge ad un operatore telefonico. E la sua storia, oggi, a palazzo Gagliardi, l’ha raccontata al pubblico di Leggere&Scrivere il caporedattore dell’Espresso Lirio Abbate.

Abbate, autore di un’inchiesta giornalistica, di un libro e di un docufilm su Carminati, ora sotto scorta dopo le minacce ricevute da Er Cecato, è partito dal furto al caveau della banca del Tribunale di Roma per spiegare “retroscena rimasti celati per anni. Una storia di tanti gialli, storie non dette. E un ricatto alla Repubblica”.

Giunto a Vibo, ospite del Leggere&Scrivere 2017, per presentare il suo ultimo libro “La lista. Il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati” (Rizzoli, 2017), il giornalista dell’Espresso, intervistato dal direttore de La C news24, Pietro Melia, ha raccontato con foto, video e intercettazioni il furto di alcune cassette di sicurezza nel 1999 all’interno del Palazzo di Giustizia commesso da una banda specializzata.

“Nel posto più protetto d’Italia, senza forzare serrature, Carminati – coinvolto in alcune tra le inchieste più scottanti del Paese (omicidio Pecorelli, strage di Bologna, assassinio Fausto e Iaio, banda della Magliana) – aprirà solo alcune di queste cassette dove ci potrebbero essere documenti segreti. A Roma se hanno un problema – continua Abbate – vanno da lui, uno dei re di Roma. Io, con documenti e fatti, racconto vicende di rilevanza sociale e politica. La mafia non è più lupara o dialetto meridionale”. E proprio il lavoro svolto dal giornalista d’inchiesta “ha fatto impazzire Carminati. Dal suo ‘ufficio’ – continua – una stazione di servizio su corso Francia a Roma, dà ordini e intimidisce commercianti e professionisti. Ma questa non è mafia secondo i giudici”.

 

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FN Vibo contro il centro accoglienza: no centro d'accoglienza, si reddito alle madri.

"E' una scelta scellerata, quella del sindaco Costa, di incentivare la creazione di un nuovo centro d'accoglienza a Vibo" è quanto afferma Edoardo Ventra (segretario provinciale di Forza Nuova Vibo). "A fare gola sono, certamente, i quasi quattro milioni di euro che il ministero finanzierà per avviare questo progetto Sprar. Siamo dinnanzi all'ennesimo caso di tradimento da parte dei nostri governanti, avallati, per le suddette questioni economiche, dagli amministratori locali. Questi ultimi, invece che attirare capitali per incentivare il turismo e l'occupazione dei nostri giovani, preferiscono tutto ciò. Ma, da Mafia Capitale in poi, passando per gli ultimi scandali nella vicina provincia Cosenza, abbiamo tutti preso atto di come, questo dell'immigrazione, sia il nuovo e più remunerativo business sul quale lucrare. 

Scelte scellerate - conclude Ventra - che Forza Nuova combatterà sempre e comunque, in ogni parte dello stivale. 
Di contro, a livello nazionale, FN sta lanciando una petizione per una proposta di legge di iniziativa popolare, con la quale istituire un reddito di maternità. Reddito che sarebbe sì un vero segno di civiltà per il nostro paese che oggi, invece, è dedito esclusivamente al buonismo immigrazionista a scopo di lucro".

Vicenda Mafia Capitale, Alleanza Calabrese si scaglia contro i parlamentari calabresi: "Codardi"

"Abbiamo aspettato qualche settimana dalla conclusione della vergognosa  vicenda  del Comune di Roma nella speranza di ascoltare il pensiero di qualche  illuminato rappresentante del popolo calabrese".  Inizia così un comunicato trasmesso da Alleanza Calabrese, a firma del presidente Enzo Vacalebre. "L’attesa è stata vana ed estenuante. Nemmeno la stagione estiva, il ritorno al mare, la festa della Madonna hanno sortito l’effetto sperato: i parlamentari eletti in Calabria, eccetto qualche rarissima eccezione, non sono intervenuti sulla vicenda Mafia Capitale, per stigmatizzare - si legge nella nota - l’ennesima ingiustizia perpetrata ai danni della nostra comunità da uno Stato che nei confronti di Reggio ha assunto sempre comportamenti  da canaglia: per il capoluogo così come per lo scioglimento del Comune. Eppure sarebbero dovuti insorgere all’unanimità per evidenziare il doppiopesismo dell’azione politica del Governo. Prendiamo atto, con rammarico, del silenzio sconcertante di quel manipolo di nominati, frutto di una legge elettorale che penalizza il territorio, premia i 'raccomandati di partito', e ha distrutto il principio della sovranità popolare su cui si fonda la nostra Costituzione. Non un accenno,  da parte  di quell’armata brancaleone, di cui fanno parte componenti della Commissione Antimafia, ex magistrati, principi del foro, contornati da quel manipolo di personaggi in cerca d’autore tutti intenti solo a salvaguardare le proprie terga  sulle poltrone. Non una parola su  una vicenda, che non riguarda una sola parte politica,  ma un'intera comunità e che, soprattutto, attiene a principi di giustizia ed  equità.  Non un intervento da parte di quel Ministro diventato ormai 'la macchietta' della  politica italiana, pronto a trovare la soluzione giusta per Roma e quindi salvaguardare  il 'padrone' Renzi.  Proprio lui, quell’Angelino Alfano che, da ministro sta con i forti e abbandona i deboli,  da ministro tutela la Capitale e trascura i territori del Sud, quelli, in teoria di sua  origine e che dovrebbe maggiormente proteggere ed aiutare. Il loro silenzio non lascia spazio ad interpretazioni di sorta.  Delle due l'una:  o condividono lo scioglimento del Comune di Reggio Calabria e tutti i danni arrecati dallo stesso, e quindi hanno il dovere di dirlo ai reggini e di spiegarne le motivazioni, oppure, stretti dalla paura di essere ricattabili, hanno scelto il silenzio per  evitare possibili ricadute sul loro futuro in politica. "Una posizione - secondo Enzo Vacalebre -molto ambigua e, se permettete, anche codarda. Qualcuno dovrà risarcire i reggini.  Qualcuno dovrà risarcire Reggio Calabria".

 

L'ex sindaco Arena tuona: "E' lo Stato a rafforzare la mafia"

Come preannunciato dal premier Renzi in tempi “sospetti” (prima ancora di avere contezza  dalle indagini e dalle relazioni) il Comune di Roma, fortunatamente per il nostro Paese, non è stato commissariato per infiltrazioni mafiose".  Una considerazione, questa, che rappresenta l'avvio di una lunga riflessione di Demetrio Arena, sindaco di Reggio Calabria dal 21 maggio 2011 al 9 ottobre 2012, esperienza chiusasi con lo scioglimento del Consiglio Comunale della città dello Stretto. "La Ragion di Stato - sostiene l'ex capo dell'Esecutivo reggino - ha prevalso sull’applicazione di una legge iniqua oltre che inutile, quella ragion di Stato che quando si è trattato di giudicare il caso Reggio Calabria ha scelto invece di mandare a casa un’Amministrazione democraticamente eletta da pochissimi mesi, sulla base dell’innovativo quanto suggestivo concetto di "contiguità". Nel caso di Roma la procedura è nata da un indagine della magistratura che è stata superata dalla volontà del Governo Renzi di salvare l’Amministrazione capitolina amica, evitando un danno insanabile per il nostro Paese. Per Reggio, invece, tutto è partito dall'“input” di un ben noto ambito politico,  che ha trovato  sponda nel governo tecnico più inadeguato della storia della Repubblica e si è consumato nelle stanze delle più alte cariche dello Stato. L’allora ministro Cancellieri, nel corso della sua confusa e contraddittoria conferenza stampa, disse candidamente che con lo scioglimento del Comune di Reggio il Governo voleva dare un messaggio al mondo intero: che l’Italia era consapevole del problema della mafia e che intendeva risolverlo con determinazione. In entrambi i casi, comunque, la Ragion di Stato ha visto come esecutori materiali le “lobby ministeriali”, i "servitori dello Stato", quegli ineffabili e benestanti "mandarini" al servizio del ministro di turno, affetti da una malattia incurabile: “il carrierismo”. Una “ulteriore analogia” riguarda la volontà politica, quella per intenderci con la p minuscola: l’Amministrazione capitolina ha trovato la pesante tutela del partito di maggioranza relativa del Governo, il PD, che è sceso in campo con determinazione, sfruttando i più efficaci  canali istituzionali e mediatici, per difendere una strategica postazione di potere; di contro, Reggio non solo non ha avuto alcuna tutela politica  da parte di una coalizione e di un partito, in quel momento in avanzato stato di liquefazione, ma ha anche trovato il fuoco amico di ben noti personaggi che hanno affossato la città, in quanto preoccupati unicamente di arginare l’escalation nazionale dell’allora Governatore della Calabria". "Del resto - evidenzia Demetrio Arena - il silenzio sulla vicenda di Mafia Capitale dei parlamentari calabresi e reggini continua ad essere  assordante, oltre che eloquente della loro dimensione intellettuale e politica.  Ma "analogia" a parte, in un Paese normale la decisione presa dal Consiglio dei Ministri dopo lo scandalo “Mafia Capitale”, imporrebbe una serie di adeguate valutazioni politiche e sociali. La prima è che l’Italia non è uno  Stato  di diritto, ma ha assunto, ormai da qualche decennio, i connotati di  uno Stato autoritario che viola la legge, nega i fondamentali diritti  costituzionali dei cittadini, ponendo in essere  trattamenti iniqui  nei diversi territori del Paese. Per quanto emerso dalle relazioni della Commissione e dall’azione della magistratura, a norma di legge il Consiglio comunale di Roma andava sciolto per via d’urgenza, senza indugi e senza alchimie politiche. Per molto, ma molto meno, qualsiasi comune del Meridione, sarebbe stato commissariato: a prescindere! Aver voluto trovare una scorciatoia lasciando in piedi una norma i cui effetti distorsivi sono stati denunciati unanimemente  a tutti i livelli (politici, giudiziari ed istituzionali) sancisce un principio ben preciso: lasciare che una materia cosi importante come il contrasto alle mafie continui ad essere utilizzata come strumento di contrapposizione politica". "Significa continuare a perpetrare quell’antimafia di facciata che - sottolinea l'ex sindaco di Reggio Calabria - serve a costruire carriere politiche e  a mantenere in vita organismi utili solo alla lottizzazione del potere.  Detto questo è evidente come, a fronte di atteggiamenti palesemente  iniqui, sia venuta meno  la credibilità nello  Stato e nelle  Istituzioni, specie  in quei territori che per decenni hanno sentito forte il peso dell’abbandono e dell'isolamento.  Ma l'effetto più grave è che quello che  tutto ciò determina: il rafforzamento della mafia soprattutto in termini di consenso e di controllo del territorio, che costituiscono i pilastri su cui si fonda il potere criminale. Uno Stato che, utilizzando due pesi e due misure,  criminalizza  intere comunità, privandole di ogni possibilità di sviluppo e di ogni  speranza, ha determinato  la  desertificazione che affligge la nostra regione e che si fonda su quel particolare stato psicologico  ben rappresentato da Corrado Alvaro “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”.

 

"Mafia Capitale", la legge non è uguale per tutti

San Luca e Badolato e vari altri paesi meridionali e persino di altrove sono stati fatti oggetto di commissioni di accesso, e sciolti per mafia; e qualche volta è successo che il sindaco si sia rilevato solo partecipante a normalissime cene con tanta gente promiscua, e prosciolto… Tante altre volte le infiltrazioni mafiose e camorristiche eccetera erano vere, e ben venga lo scioglimento. San Luca d’Aspromonte, paese chiacchieratissimo, conta poco meno di quattromila anime; ha un territorio di 105,35 kmq, quindi una densità di 37 abitanti per kmq, molto meno di un’oasi del Sahara. Ammesso che i 105,35 siano campi fecondi come la California, e non, come sono, calanchi e boschi, che mafia volete che ci sia, a San Luca? A chi chiedono la tangente, i loschi figuri, ai boscaioli: un fungo ogni dieci? Lo stesso per Badolato, scrigno di tesori artistici e memorie storiche, però scarsissimamente utilizzate, perciò di modesto rendimento finanziario. Insomma, una mafia da quattro soldi. Però, ragazzi, dura legge ma legge! I Comuni infiltrati dalla mafia devono essere sciolti. Legge draconiana! E allora, che mi dite, che mi dite di Roma? Roma, sostiene la magistratura (la magistratura, non i pettegoli) è come quando Sallustio, nel I secolo aC, scrisse “Romae omnia venalia”, a Roma tutto è in vendita. C’è anche la mafia con la camorra, ma si aggiunge alla tavola imbandita, al mangia mangia a trecentosessanta gradi di politici e associativi, senza salvare né destra né sinistra né centro né sopra né sotto. Non serve la mafia, a giudicare Roma una cloaca massima di corruzione; ma c’è anche la mafia in senso letterale, se vogliamo essere pignoli. E allora, perché non sciolgono il Comune di Roma come quello di Badolato, di San Luca eccetera? Qualcuno balbetta spiegazioni formalistiche, sofismi avvocateschi, arrampicate sugli specchi… ma la verità, si sussurra, sarebbe più banale: non si scioglie Roma perché è la capitale, e l’Italia farebbe una brutta figura al cospetto dell’intero pianeta. Una in più! E che ragionamento è? Ci sono forse alcuni milioni di Italiani per cui la legge non vale per il solo fatto che stanno a Roma? A Roma si può rubare diversamente da Milano, Palermo, Sassari, Bari, Venezia, San Luca eccetera, e ciò per il solo essere Roma, ovvero la capitale? O Roma può indebitarsi più di Catania, Torino, Soverato; e non pagare i debiti perché è la capitale? Assurdo. Se una città capitale vuole dei privilegi, dovrebbe essere disposta a pagarli nella maniera più ovvia: rendendosi disponibile a rinunciare a consiglio comunale e sindaco, e venendo retta dal governo centrale proprio per la sua natura di centro della Nazione e dello Stato. Lo fece il fascismo istituendo il governatore di Roma di nomina ministeriale (lo fu il nostro conterraneo Edoardo Salerno); e non è solo un’invenzione mussoliniana: Parigi ha un sindaco solo dal 1975. Ma se Roma vuole un sindaco e un consiglio comunale come Brognaturo e Cardeto, allora il sindaco di Roma è uguale preciso a quello di Borgia: soggetto a commissione d’accesso e, se ricorrono gli estremi, a scioglimento per mafia, o a scioglimento e basta.  “Roma – scrive Tacito – dove confluisce tutto ciò che di peggio c’è nell’Impero”.

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Mafia Capitale, Alemanno sbotta: "Mai avuto sostegno dal clan Mancuso"

Dalle carte dell'inchiesta che per la seconda volta in pochi mesi ha scosso la politica della Capitale emerge il nome di Gianni Alemanno che, secondo le ipotesi avanzate dagli inquirenti, avrebbe beneficiato del sostegno della 'ndrangheta in occasione delle elezioni Europee celebratesi lo scorso anno. Sulla scorta di quanto ricostruito dai magistrati che lavorano alle indagini, l'ex sindaco di Roma si sarebbe avvalso dei servigi di Salvatore Buzzi, il quale avrebbe raccolto voti rivolgendosi ad esponenti del clan Mancuso, di Limbadi. Un'accusa che pochi minuti fa Alemanno ha respinto con la massima fermezza: "Bisogna finirla con questa balla della ‘Ndrangheta - tuona l'ex ministro dell'Agricoltura - che, attraverso la mediazione di Buzzi, mi avrebbe fatto convergere voti in Calabria alle elezioni Europee del 2014. I numeri parlano chiaro: nei due Comuni di riferimento del clan Mancuso, che sarebbe stato contattati da Buzzi, io ho preso un numero ridicolo di preferenze. A Limbadi ho preso solo 5 preferenze su 981 votanti e al Comune di Nicotera 14 preferenze su 1901 votanti. Questi sono i due Comuni dove, secondo le risultanze delle inchieste della Magistratura, c’è il maggior radicamento del clan Mancuso e non è pensabile che se questo clan si fosse mobilitato a muovere voti nei miei confronti i risultati sarebbero stati questi". "Credo - sostiene Alemanno - che tutta questa congettura derivi dall’ennesima millanteria telefonica di Salvatore Buzzi, ma in ogni caso io non ho mai ottenuto ne tantomeno richiesto aiuti elettorali da clan mafiosi.

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