Chiaravalle Centrale, dal Medioevo a oggi: com'è cambiata la nostra dieta

L'evoluzione delle abitudini alimentari dal Medioevo ai nostri giorni. Se ne è discusso a Chiaravalle Centrale nel contesto della seconda “Giornata normanna” promossa dall'amministrazione comunale.

A Palazzo Staglianò gli interventi di saluto del vicesindaco, Stefania Fera, dell'assessore al Turismo, Gianfranco Corrado, del funzionario del Gal Serre Calabresi, Gregorio Muzzì, hanno preceduto le relazioni dello storico Ulderico Nisticò e della dietista Roberta Staglianò.

Un viaggio tra sapori, immagini, odori e profumi che ha riconsegnato ai presenti lo “strano” panorama della Calabria gastronomica di mille anni fa: senza patate, senza pomodori, senza peperoncini.

Tutti arrivati in Europa dopo la scoperta delle Americhe. C'era, forse, lo stocco, importato proprio dai Normanni. Eredità dietetica vichinga della lontana Norvegia, quella del pesce essiccato che, ancora oggi, occupa un posto privilegiato nei nostri menù tipici.

Ma, sul punto, non c'è chiarezza e rimane ancora in piedi la secolare querelle tra messinesi e veneziani su chi, per primo, abbia portato sulle tavole italiane il famoso merluzzo delle lontane isole Lofoten. Singolare, comunque, riscoprire come, dopo tante originali e diversissime contaminazioni, sia nata proprio nel nostro Sud la “Dieta mediterranea”, patrimonio dell'umanità.

Il tema è stato approfondito dalla dottoressa Staglianò che ha ripercorso la storia della “Dieta mediterranea” e il suo valore scientifico in termini di prevenzione e salute.  Una dieta a base di pane, pasta, frutta, verdura, abbondanti legumi, olio extra-vergine di oliva, pesce e pochissima carne.

Un modello alimentare sano ed equilibrato fondato prevalentemente su cibi di origine vegetale e sul loro consumo diversificato e bilanciato, che viene tramandato di generazione in generazione.

Inevitabile conclusione di giornata, un buffet con degustazione “mediterranea”.

 

 

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È morto lo chef Gualtiero Marchesi

È morto a Milano Gualtiero Marchesi, chef italiano tra i più famosi al mondo. Aveva 87 anni.

Titolare del ristorante 'Il Marchesino', aveva ricevuto numerosi riconoscimenti e onorificenze. Il decano degli chef aveva lasciato nell'ottobre scorso il rettorato di Alma, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana dove si insegna il mestiere del cuoco e del pasticcere.

Marchesi si è spento alle 18 di oggi nella sua casa milanese circondato dai suoi familiari.

La data dei funerali sarà comunicata domani pomeriggio.

La cucina calabrese conquista il New York Times

Finalmente una buona notizia. La Calabria è stata inserita nella lista dei 52 viaggi consigliati per il nuovo anno dal New York Times.

Nella speciale graduatoria, che vede i primi dieci posti occupati dal Canada, dal deserto di Atacama in Cile, da Agra in India, da Zermatt in Svizzera, dal Botswana, da Dubrovnik in Croazia, dal Grand Teton National Park in Wyoming, da Tijuana in Messico, da Detroit in Michigan e da Amburgo in Germania, la Calabria ha conquistato il 37esimo piazza.

L'ingresso nella prestigiosa classifica è dovuto alle qualità gastronomiche presenti nella regione. "Il cibo italiano oltre le mete tradizionali", titola la giornalista statunitense Danielle Pergament secondo la quale, i piatti migliori d'Italia si trovano proprio nella regione "di punta" dello Stivale.  

"Alcuni dei migliori pasti da consumare in Italia - scrive Pergament - non si trovano a Roma o in Toscana, ma in Calabria, una regione del sud. Nota per le pietanze piccanti e gran parte della produzione mondiale di bergamotto, la Calabria si sta concentrando su piatti leggeri, agricoltura biologica e vino ottenuto da viti locali". Vengono citati poi ristoranti come il Dattilo di Strongoli, il Ruris ad Isola di Capo Rizzuto e l'Antonio Abbruzzino a Catanzaro".

La classifica è considerata una sorta di guida ufficiale in cui vengono segnalati i luoghi più interessanti del momento. Tuttavia, nelle intenzioni di chi la compila  c'è anche l’idea di indicare luoghi che non ci si aspetta e mete insolite.

L'anno scorso l'unica località italiana segnalata era stata Torino, mentre nel 2015 – anno dell’Expo – la vincitrice della classifica era stata Milano. Sarà adesso interessante osservare se la guida contribuirà ad incrementare il turismo americano in Calabria.

 

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La "Pitta china", il piatto serrese della Quaresima

C’è stato un tempo in cui la religione cattolica scandiva la vita dei fedeli a tal punto che il calendario liturgico influenzava anche le semplici abitudini alimentari.

Influenze che, in moltissimi casi, abbiamo inconsapevolmente ereditato.

La religione dei cristiani, a tavola, ha dettato per secoli le proprie regole, soprattutto nel periodo quaresimale, il tempo in cui, per ricordare i quaranta giorni digiuno di Cristo, i cattolici si sottoponevano alla dieta di “magro”. Una dieta dalla quale erano rigorosamente banditi gli alimenti di origine animale, ad eccezione del pesce.

L’astinenza dalla carne, però, andava ben oltre il periodo dell’anno compreso tra carnevale e Pasqua. Alla Quaresima andavano ad aggiungersi, infatti, i mercoledì, venerdì e sabato delle settimane che aprivano le stagioni dell’anno; le vigilie delle grandi feste religiose e tutti i così detti “periodi ordinari”. Nei giorni prescritti, oltre alla carne, sulle tavole dei fedeli non potevano essere presenti i prodotti di origine animale, come le uova, il latte ed i suoi derivati.

La motivazione del divieto è riassunta nelle parole di Isidoro di Siviglia, per il quale “gli alimenti a base di carne rafforzano la lussuria e i sensi: infatti riscaldano e nutrono i vizi”.

Ieri come oggi, ai piaceri del palato non ci si sottraeva facilmente, così, in alcuni casi, si ricorreva ad espedienti per morigerare la disciplina imposta dalle prescrizioni. Così, al pesce, animale consentito, venivano assimilate altre specie che avevano il loro habitat in acqua, come ad esempio, la pulcinella di mare o il castoro. Gli animali acquatici potevano essere consumati senza problemi poiché, vivendo in un ambiente freddo e umido, non avevano il potere di riscaldare i sensi ed attizzare la lussuria.

La differenza tra il pesce e la carne venne addirittura tratteggiata in “La bataille de Caresme et de Charnage”, un testo francese del XIII secolo nel quale è illustrato lo scontro immaginario tra le armate dei pesci e quelle della carni. Esclusa quindi la carne ed i suoi derivati, riuscire a mettere nello stomaco un boccone era un’impresa piuttosto ardua. Tanto più che il reperimento di prodotti ittici per quanti vivevano lontani dai mari o dai laghi era piuttosto complicato.

Pesci trasportabili a lunga distanza, senza il rischio di deterioramento, come lo stoccafisso, faranno infatti la loro comparsa nell’Europa mediterranea soltanto verso la meta del Cinquecento. Pertanto, nei giorni di “magro” era necessario ricorrere a pane, zuppe, polenta, minestre et similia.. Molti dei piatti utilizzati per far fronte ai rigori della religione sono diventati ricette tradizionali. Tra le preparazioni che, molto probabilmente, affondano le loro radici nella cucina dei giorni di “magro” c’è n’è una tipicamente serrese, la “Pitta chjina” la cui origine rimanda alle torte medievali.

Come riporta Giovanni Rebora nella “Civiltà della forchetta”: “l’abitudine di farcire la pasta, con carne, verdure e ricotta, oppure carne e verdure insieme, risale almeno al Duecento, quando Salimbene de Adam racconta di aver mangiato ravioli senza pasta e finge di scandalizzarsi per l’invenzione golosa. Vuol dire che al suo tempo (XIII secolo)  i ravioli erano noti e consueti. Si tratta di preparati dai nomi differenti: tortelli, tortellini, ravioli, gobbi, pansotti, gattafure, ecc., che derivavano il loro nome dalle torte medievali. Queste a loro volta si chiamano pastelli, pasté, oppure altoscreas (pane e carne), empanadas, ecc”. Nella gran parte dei casi, le torte erano farcite con carne o lardo. Nei periodi di “magro” però, l’imbottitura era fatta con i soli ingredienti consentiti.

Ingredienti impiegati nella "pitta" serrese, nella quale il fiore essiccato del sambuco si sposa alle alici in salamoia, alla cipolla ed alle olive.

Rebora ha ipotizzato che la progenitrice della pitta vada cercata nell'antica Grecia e nelle sue colonie, tanto più che, ancora oggi, la sfoglia in cui i greci avvolgono la carne, le verdure o i formaggi viene chiamata pita. “Il termine pitta è ancora vivo, con le sue varianti (pissa), oltre che in Grecia, anche nelle aree della Magna Grecia e persino a Marsiglia, antica colonia focese. Pitta diventa così pizza a Napoli e pissa a Marsiglia”. Se la forma ed una parte del nome della "pitta chjina" rimandano alla Grecia classica, la farcitura deve, molto probabilmente, la sua composizione ai precetti quaresimali.

Ad offrirne un'indiretta conferma, ancora una volta è Rebora per il quale: "il ripieno di queste preparazioni era dettato dal rispetto per i giorni di magro" non si tratta, quindi, di una  "torta" dei poveri, piuttosto, di una preparazione ispirata al rispetto del "precetto del venerdì o della Quaresima'.

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L'antica arte serrese del sanguinaccio

Lungo ed indissolubile è il legame che unisce la Calabria ed i calabresi al maiale. Al ”porco” andrebbe dedicata un’elegia nella quale decantare le sue incommensurabili virtù.

Ogni paese calabrese dovrebbe elevargli un monumento.

Per secoli, infatti, è stato proprio lui a restituire con gli interessi ciò che aveva ricevuto nel corso dell’anno. I beneficiati di una tale provvidenza, a tutte le latitudini, si sono ingegnati a conservare, per i tempi grami, tutto ciò che si potesse deteriorare. Ma, poiché, del buon suino non si butta via niente, la fantasia e la fame si sono coalizzate per trasformare in leccornie, anche le parti apparentemente meno appetibili.

Così, ad esempio, il sangue che oggi renderebbe insonni le notti di tanti schizzinosi, per decenni ha garantito un buon apporto calorico agli strati popolari.

Quando l’arte culinaria non veniva ancora esercitata in asettici studi televisivi, ma sulla fiamma del focolare, tante donne s’industriavano a trasformare il sangue del maiale in sanguinaccio.

Non stiamo parlando, ovviamente, della versione dolce, bensì di quella destinata ai palati più audaci.

Un’arte che a Serra trovava espressione nelle rivendite, generalmente le macellerie, dove era possibile acquistare “nu capu di sangunazzu”. All’uscita dalla messa domenicale di “la Curunedha”, i serresi di un tempo non andavano a fare colazione al bar; si recavano, piuttosto, a comprare un pezzo di sanguinaccio, che veniva portato a casa per essere condiviso con il resto della famiglia. Il più delle volte, però, prendeva un'altra strada per finire associato ad almeno un quarto di vino in una delle tante osterie che popolavano il centro storico.

La genesi del sanguinaccio iniziava, ovviamente, con l’uccisione del maiale quando qualche “novizio” veniva incaricato di raccogliere in un contenitore ogni stilla di sangue fuoriuscita dalla ferita prodotta dalle mani esperti di chi si faceva carico di mandare all’altro mondo il miglior amico dei calabresi. A quel punto, con l’ausilio di un cucchiaio di legno, o più semplicemente con una mano s’iniziava a girare vigorosamente il liquido appena raccolto affinché non coagulasse. Lasciato qualche ora a riposare, poteva prendere due strade. La prima, vedeva protagonisti i rivenditori che passavano per le case a proporre mestoli di sangue che finiva in una padella, fritto con un filo d’olio. L’altra, quella più elaborata, portava direttamente nelle cucine in cui le abili mani di donne esperte iniziavano a mette in fila gli ingredienti necessari a produrre il prelibato sanguinaccio.

S’iniziava facendo friggere il grasso di maiale tagliato a pezzettini minuscoli, frattanto, seguendo le giuste proporzioni, il sangue veniva miscelato ad acqua. Era poi la volta del sale e del pepe nero, il tutto, una volta unito, finiva nelle budella, le stesse utilizzate per insaccare le salsicce. A quel punto, iniziava il lavoro più delicato, la cottura. Si trattava di un processo per il quale serviva una perizia di lungo corso. Bisognava, infatti, riconoscere la giusta temperatura per evitare che, nel caso l’acqua fosse troppo calda, le budella si rompessero, facendo fuoriuscire il contenuto. Al contrario, una temperatura non adeguata, avrebbe impedito al sangue di coagulare, rendendolo immangiabile. Inconvenienti nei quali, tuttavia, non incorreva chi riusciva a guadagnarsi da vivere con un mestiere oggi impensabile. Completata la cottura, iniziava la vendita.

Gli avventori avviavano, così, il loro lento pellegrinaggio per “reclamare” una parte di sanguinaccio. Consuetudine imponeva che lo si mangiasse infilandolo in bocca e sfilandone lentamente il contenuto. Una delizia, oggi quasi del tutto estinta, che ha allietato per decenni i rustici palati di persone che, a Cracco ed ai vegani, avrebbero fatto una sonora pernacchia.

 

 

 

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Sul Corriere della Sera, gli otto chef calabresi di “Cooking Soon”

La vera ricchezza della Calabria sono i piatti poveri. Pietanze preparate con ingredienti semplici, portate alla ribalta da giovani chef che con estro e fantasia riescono a trasformare in leccornie tutto ciò che toccano.  La capacità di creare la giusta alchimia tra gli ingredienti rappresenta, però, solo la prima tappa per il successo. Quel che serve, infatti, è anche altro, la capacità di promuoversi, di fare rete, di  aprirsi al mondo. E’ ciò che hanno fatto gli otto giovanissimi chef calabresi che hanno aderito a “Cooking Soon”, il progetto che punta a “valorizzare il patrimonio culturale, artigianale e umano che vanta l’agroalimentare calabrese”. Che il format funzioni, lo testimonia lo spazio dedicato dall’inserto “La cucina” del Corriere della Sera che ha dato ampio risalto all’iniziativa. Ad attirare l’attenzione del più importante quotidiano nazionale, non solo la qualità dei prodotti proposti e la capacità di elaborarli, ma anche “la voglia di fare squadra”, il desiderio di “far diventare la Calabria una tendenza nello scenario nazionale e internazionale” mettendo  “in rete i piccoli produttori”. A comporre la squadra che anima il progetto, ci sono: Caterina Ceraudo del ristorante stellato «Dattilo» di Strongoli, Luca Abbruzzino di «Arte e cucina locale» di Catanzaro, Antonio Biafora del «Biafora Restaurant» di San Giovanni in Fiore, Gennaro Di Pace di «Osteria Porta del Vaglio» di Saracena, Emanuele Lecce de «La Tavernetta» di Camigliatello Silano, Nino Rossi di «Villa Rossi» di Santa Cristina d’Aspromonte, Emanuele Strigaro del «Novezerodue» di Crotone, Bruno Tassone del «San Domenico» di Pizzo. Si tratta di chef giovanissimi che non hanno aspettato l’aiuto della Provvidenza. Si sono messi in gioco e pur tra mille difficoltà sono riusciti ad emergere. Qualcuno, come Luca Abbruzzino ha conquistato il premio della “«Guida Espresso» come giovane chef dell’anno”. Qualcun altro, come Bruno Tassone, originario di Sorianello (VV), un paesino incastonato sull’altopiano delle Serre, ha alimentato la passione seguendo i corsi di Alma, la scuola internazionale di cucina. Oltre al “capitale umano”, nel suo inserto il Corriere ha inserito “gli otto prodotti tipici calabresi da riscoprire”. Si tratta di prodotti molto diversi tra loro, ma che vale la pena assaggiare. 

Di seguito gli otto prodotti, così come descritti su “ La cucina”

 “1)Le pesche merendelle sono un incrocio tra pesche e mele, una varietà dalla pelle liscia e colore bianco-verde-rosso;

2)La Brasilena. È una bibita gasata al gusto di caffè, prodotta in Calabria dagli anni Cinquanta;

3)I fichi d’India. Protagonista in cucina, dalla polpa gialla o rossastra. I fichi d’India si utilizzano per preparare marmellate ma anche in accompagnamento a formaggi, insalate, yogurth o secondi di carne o di pesce;

4) La ‘nduja. Regina degli insaccati calabri, è forse il prodotto più famoso della regione: un salame morbido e ultra piccante;

5) Il peperoncino. si mangia crudo, sott’olio o essiccato;

6) Tartufo gelato. Gelato artigianale tipico di Pizzo Calabro. La forma ricorda un vero tartufo ma è a base di gelato alla nocciola con un cuore di cioccolato fondente.

7) Pipi e patati. Un contorno estivo a base di peperoni (o pipi, come si dice in Calabria) e patate fritti in olio per lo più extravergine d’oliva

8) Stroncatura. Un primo dalle origine antiche: pasta di segale condita con gli ingredienti poveri della tradizione contadina calabra tra cui aglio, olio e peperoncino”

Cantine "Benvenuto: Ulisse ritorna in patria!

Passando dal lago dell’Angitola, e fermandomi a fare qualche foto con il mio nuovo smartphone super teconologico, cercavo di scrutare  oltre “l’orizzonte” per capire dove si trovasse di preciso questa nuova realtà che da li a poco avrei scoperto; una nuova cantina a Francavilla Angitola: quando vennero a pranzo allo "ZenZero" e mi portarono la campionatura, invitandomi in azienda, capii subito che avrei avuto a che fare con persone umili, sapienti e professionalmente preparate. Il lago, baciato da un carico sole autunnale che si rifletteva anche nell’obbiettivo del mio telefonino, lasciava spazio soltanto all’immaginazione, e così rimettendomi in macchina con i miei compagni di viaggio riparto alla ricerca di questo luogo…

Al bivio dell’autostrada incontro Alessandro che mi indica la via. Attraversiamo una strada di quelle che portano in qualche paesino, una specie di statale con qualche buca di troppo e tanti alberi da frutto ad incorniciare il solito sole, che alle undici era oramai un sole dal profumo estivo. Una svolta secca a sinistra ed una ripida discesa ci fanno intuire che abbiamo raggiunto le cantine Benvenuto. Scendo dall’auto e abbraccio Giovanni, il titolare dell’azienda, il sole è sempre lì, come se volesse indicarmi qualcosa. A primo impatto la cantina risulta leggermente anonima, sembra di stare da un amico in campagna (più tardi ovviamente mi viene spiegato come sarà quando i lavori saranno terminati), ma a me piace pensarla così: una giornata autunnale, da un caro amico in campagna a bere del buon vino (e che vino). Inizio ad isolarmi dal mondo, e a provare le mie sensazioni, mi accorgo di come il tempo quest’anno sia stata particolarmente bizzarro osservando degli alberi da frutto ancora in fiore.Seguo la truppa composta da Giovanni e Alessandro della cantina, Vincenzo, amico di avventura e Claudio, mio fratello. Si va in vigna.Ascolto in lontananza le precise spiegazioni di Giovanni, tutti i racconti sul suo operato, la sua scelta di ritornare in Calabria per inseguire il sogno di rilanciare quella zona dove suo nonno coltivava la terra e la vigna, tutti i suoi progetti futuri… Loro vanno avanti, ormai li sento ma non li ascolto più..

Sentori sempre più freschi mi spiazzano, finalmente ci sono, raggiungo gli altri e scopro quella meraviglia che quel sole da stamattina cercava di suggerirmi. Una vallata incredibilmente ordinata, le vigne a terrazzamenti a sinistra, gli alberi che le proteggono, e questa “V” affacciata sul mare che incanala quel profumo…quel profumo che chiudendo gli occhi mi riporta sul pedalò con gli amici, sulla spiaggia all’alba dopo un falò..a quella grigliata a casa di Totò. Ogni leggero refolo è un ricordo, ogni attimo trascorso su quella collina a respirare a pieni polmoni con gli occhi chiusi quell’aria di sale …  Ah, dovreste sentirlo..

Ritorniamo in cantina, l’interno si presenta molto chic ma allo stesso tempo semplice e moderna. “La fortuna aiuta gli audaci” è il motto dell’azienda, e il mitico Giovanni di  coraggio ne ha davvero tanto… direttamente proporzionale alla sua preparazione ed alla sua umiltà! Un calice si avvicina al rubinetto dell’enorme cisterna con sù scritto zibibbo: “ragazzi questo ancora è mosto, ma potete gia sentire i profumi e farvi un idea su ciò che sarà”, eccolo che ritorna, di nuovo quell’odore, sembra di essere ritornati di nuovo li, in cima a quella vallata, con gli occhi chiusi…e a quella chiacchierata al tramonto su quella spiaggia umida. In ogni bottiglia, anche nei rossi assaggiati in seguito (accompagnati da una buona pitta serrese condita con l’olio nuovo dell’immancabile Mazzitelli), ritorna quel sentore minerale, quel respiro a pieni polmoni, quel vento che arriva dal mare e che stringe ogni singolo acino con dolcezza e protezione, quel vento che questo vignaiolo riesce a far entrare in ogni singola bottiglia. E’ come Ulisse che ritorna in patria portandosi con se i ricordi delle sue avventure e la brezza marina.

Il ritorno di Giovanni Celeste Benvenuto in Calabria, coraggioso e attento, allegro e sensibile…Cinque vini diversi tra loro ma con una caratteristica inconfondibile… sapore di sale, sapore di mare…

Buona “Fortuna” alla cantina…Benvenuto in Calabria!!!

..o meglio BENTORNATO…

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