Le ferriere di Mongiana e il V centro siderurgico di Gioia Tauro

Era il 25 aprile 1975 quando l'allora ministro della Cassa per il Mezzogiono Giulio Andreotti avviò in contrada Posa di Gioia Tauro i lavori per realizzazione del porto, che doveva essere la prima importante infrastruttura del vagheggiato V Centro Siderurgico da realizzare entro il 1978, ma rimasto poi nel grande archivio delle tante incompiute della nostra Regione negli ultimi quaranta anni, come del resto avevano dichiarato i gioiesi diffidenti, ai quali il famoso politico aveva detto ironicamente: " comprendo la sfiducia dei calabresi perché molto spesso alle prime pietre non sono seguite le seconde". Proprio così ! 

Di fronte a quel V Siderurgico mai avviato, emersero dalla memoria le storiche ferriere e fonderie della Calabria, come si legge nella gradevole guida del Touring Club del 1983: " Capire l'Italia. Campagna e Industria. Itinerari".

Si ricordava, infatti, che " al momento dell'Unita', la Calabria ospitava uno dei più importanti centri siderurgici della Penisola, che utilizzava il minerale locale estratto dalle pendici del Monte Stella, nei dintorni del piccolo villaggio di Pazzano, e lo lavorava, fino al 1770, nelle ferriere statali di Stilo e di Assi, e poi nelle più moderne ferriere di Mongiana e Ferdinandea. 

Nell'acceso dibattito sul futuro assetto economico del paese, il prevalere delle tesi liberiste portò alla cessione di gran parte dell'industria pubblica (prevalentemente ubicata nel Mezzogiorno ) nelle mani del capitale privato e ciò determinò, negli anni intorno al 1870, la definitiva chiusura degli impianti calabresi, giacché mai l'industria privata avrebbe potuto finanziare e gestire un così complesso e dispendioso sistema di fabbrica, che era costato al governo borbonico notevoli sacrifici economici. 

Con ciò lo Stato italiano dimostrò di tenere in maggiore considerazione le impellenti necessità del suo bilancio invece di quelle ragioni di opportunità socio - politica regionale e nazionale che avrebbero dovuto prevalere". 

Segue una descrizione minuziosa di quel sito che certamente ritroveremo nella guida dell'A.C.A.I che l'amministrazione comunale di Mogiana lodevolmente sta per distribuire ai suoi concittadini per coinvolgerli nella valorizzazione del territorio.

Spero tanto, non solo, di poterla leggere! Ma mi auguro che venga anche divulgata dai mass media, prevalentemente attenti alla "mafia" , che al tempo delle ferriere era assente da tutti i vocabolari di italiano.

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Paesi di Calabria: Mongiana

 Mongiana, la “montis jianua”, la “Porta della montagna”, l’ingresso dell’incantevole scenario impreziosito di boschi di conifere delle Serre vibonesi. Circa l’etimologia del toponimo ci sono diverse interpretazioni: per il serrese Mons. Bruno Tedeschi deriverebbe dall’omonimo ruscello che scorre in località Ninfo; secondo altri, dal latino “montis janui” (monte di Giano per la probabile presenza, nei dintorni di un tempio dedicato al dio della guerra; oppure potrebbe trattarsi di “montis gens” (gente di montagna) e altri ancora, molto improbabile, la vogliono derivare dal nome di ingegneri francesi che lavoravano nelle locali ferriere e che si chiamavano “Mong” o “Mongeon”. Oggi questo ridente paesino, a quattro passi dalla più famosa Serra San Bruno è meta di flussi turistici per i suoi incantevoli paesaggi naturali e perché conserva il fascino del suo passato borbonico. Le origini di Mongiana, non molto antiche, risalgono alla fine del ‘700 e sono collegate alla costruzione delle Reali Ferriere per la lavorazione del ferro volute dai Monarchi borbonici, secondo il Piano di Alessandro Persico, amministratore degli arredamenti della Calabria Ulteriore e su disegno dello spagnolo Giovanni Francesco Contò. Della fabbrica restano i ruderi dell’antico ingresso fatto di belle colonne in ghisa e altri manufatti. Tutto il complesso di archeologia industriale è stato sottoposto, di recente, a restauro conservativo e i lavori già ultimati ne mostrano l’antico splendore ed importanza con museo e sale per congressi e studi. Le officine di Mongiana insistevano in un unico stabile esteso per oltre 2 km e lungo il corso dei fiumi Ninfo e Allaro. La ferriera comprendeva 3 altiforni detti di Santa Barbara, San Francesco e San Ferdinando e vi si lavoravano circa 30 mila cantaia di ghisa all’anno con un consumo di 40 mila cantaia di carbone di faggio; inoltre vi erano 2 forni di seconda fusione detti di Wilkinson che producevano 60 cantaia giornaliere di oggetti figurati e la macchina di Robinson per tirare ferri, scomparsa nel 1855 a seguito di un’alluvione. All’interno del complesso c’era anche la fabbrica di armi costituita da un imponente edificio di tre piani abbellito, all’epoca, dalle statue del re e della consorte sovrana.  All’interno dell’edificio industriale vi erano le officine dei forgiatori di canne di fucili, baionette e piastrine con 26 fuochi. Le officine fornivano alla Casa regia napoletana: 12 mila cantaia di proiettili, mortai e bombe; vi si costruivano enormi ruote di ferro fuso, pezzi di macchine, docce, tubi, campane, attrezzi militari e rotaie. Tutto il complesso comprendeva, anche, 26 alloggi per gli impiegati, 6 caserme per gli operai ed altre 3 per semplici manovali ed un quartiere per la truppa ivi di stanza. I manufatti per Napoli prendevano la via del mare dal porto di Pizzo che qui vi arrivavano a dorso di muli attraverso un sentiero che poi sarebbe diventato la “strada nazionale borbonica”, la stessa che ancora oggi dallo snodo dell’Angitola si arrampica fino ai centri montani delle Serre. Per molti anni le fabbriche non conobbero soluzione di continuità ed anche con i francesi di Murat. Anzi, quest’ultimo incrementò la lavorazione del ferro battuto nelle circa 300 fabbriche della vicina Serra dove il minerale veniva trattato con una particolare vernice dorata, per cui i nostri lavori risultavano più appetibili dei napoletani. Insomma grandi cose per tre secoli orsono, poi venne l’Unità d’Italia! Della grande operosità di Mongiana e paesi limitrofi, per fortuna, è rimasta la tradizione dei cosiddetti “ferraioli” che hanno arricchito chiese, palazzi e monumenti vari e non solo in Calabria.. È rimasto famoso il detto “la maestranza di la Serra” estesa naturalmente anche ai centri vicini. La tradizione non è andata perduta, anzi ancora oggi proliferano i lavoratori del ferro battuto e negli anni ’20 del secolo scorso molti “ferraioli”  operai, manovali, tecnici, attratti dall’Eldorado “Montecatini”, sono emigrati verso Crotone in fitta schiera e solo da  Mongiana, tantissimi, basta dare uno sguardo ai cognomi ancora presenti nel capoluogo pitagorico: Bava, Ciccarelli, La Grotteria, Panucci, Pisani, Totino, Canfora ed altri. Mongiana non è solo Ferriere. C’è Villa Vittoria sede dell’Amministrazione Forestale, la riserva naturale biogenetica di Cropani – Micone, tutto attorno un vasto orto botanico che è parte integrante del Parco regionale delle Serre. Ma senza tema di essere smentito, la rinascita di Mongiana la si deve a lui, don Peppino Scopacasa che negli anni ’90 ha intrattenuto residenti, emigranti, turisti e uomini di cultura con l’irripetibile “Agosto per il ritorno degli emigrati”. Un mese, ma anche durante l’anno, ricco di mostre di pittura e fotografiche, sagre di prodotti tipici e soprattutto gli incontri letterari con poeti e scrittori provenienti da ogni dove. Per i Beni culturali ricordo le tante sculture in legno, ferro, granito e bronzo, in particolare il monumento funerario a Luigi Morabito e quello ai Caduti con la statua in bronzo fuso, entrambe opere dello scultore Giovanni Salvatore Pisani (Mongiana 1859 – Milano 1920), lo stesso che ha lasciato tante opere scultoree in tutta Italia e nel cimitero monumentale di Serra San Bruno la statua bronzea del “Redentore” e il busto marmoreo del serrese Mons. Giuseppe Barillari, vescovo di Cariati. E nella chiesa parrocchiale è custodita una pregevole statua lignea della Madonna  delle Grazie di scuola serrese. Oggi cosa resta a Mongiana? Di sicuro le Ferriere borboniche restituite alla fruizione di studiosi e turisti e tanta tranquillità e bellezze paesaggistiche  e soprattutto, come scriveva l’indimenticabile don Peppino: “qui l’animo umano, che il meccanismo della vita moderna sembra aver inaridito sotto una scorza di freddo materialismo, si spoglia d’amarezza e preoccupazione, per liberarsi leggero nella contemplazione delle bellezze naturali, in un mondo incontaminato dall’affanno terreno.”

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Le ferriere calabresi: ascesa e declino di Mongiana /PARTE III

Il pezzo che segue è la prosecuzione di due articoli pubblicati ieri e l'altro ieri ed ai quali è possibile accedere cliccando sui link che seguono:

 https://www.ilredattore.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=1916:la-calabria-e-le-ferriere-itineranti&Itemid=953

https://www.ilredattore.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=1933:dalle-ferriere-itineranti-alle-attivita-protoindustriali&Itemid=953

 Alla fine del Settecento la situazione generale dell’attività siderurgica calabrese è tutt’altro che entusiasmante. Per cercare di risollevarne le sorti il governo, oltre ai tecnici stranieri, invia nelle Serre, Giovanni Conty. La condizione è talmente critica che appena giunto sul posto manda a Napoli una relazione nella quale chiede di essere messo nella condizione di ristrutturare l’intero complesso o, in alternativa, di essere avvicendato. Con l’ultimatum, Conty trasmette la proposta di varare una norma a tutela del bosco ed un dettagliato piano di sviluppo. Il piano contiene la proposta di trasferire l’attività in località Cima, alla confluenza dei fiumi Ninfo e Allaro, al centro di fitti boschi equidistanti dalle due coste. Il Ministero accoglie il piano, avallato da Alessando Persico, diretto superiore di Conty e dà il via libera alla realizzazione della nuova manifattura che, secondo quanto riportato dal quarto e quinto direttore della ferriera, Vincenzo Ritucci e Michele Carascona, sorge a partire dall’8 marzo 1771. Il nucleo intorno al quale nasce l’insediamento che assume il toponimo di Mongiana, un anonimo ruscello tributario del Ninfo, inizialmente è composto da due altiforni, coperti da una rudimentale tettoia e quattro baraccamenti. Nel 1789, Ferdiando IV, che nel 1759 aveva preso il posto di Carlo divenuto re di Spagna, fa bandire un concorso per un viaggio di studio da effettuarsi in Sassonia, Baviera, Austria, Francia ed Inghilterra. “Scopo del viaggio è studiare la composizione chimico fisica dei minerali, conoscere le nuove tecniche estrattive, avvicinarsi al mondo produttivo e, non ultimo, impadronirsi delle nuove tecniche adottate dall’industria europea”. Il viaggio dei sei vincitori, Carmine Lippi, Giovanni Faicchio, Giuseppe Melograni, Vincenzo Raimondi, Andrea Savaresi e Matteo Tondi si concluderà, nel 1797. Ritornati in patria il Governo, determinato a far fruttare le conoscenza acquisite dai suoi tecnici, spedisce in Calabria, Tondi, Melograni, Faicchio e Savaresi che stravolgono tutti i metodi di lavorazione. Le vicende del neonato “stabilimento” s’intrecciano con quelli della Rivoluzione francese. I lavori per la realizzazione della ferriere non erano stati rapidissimi, tanto che solo nel 1778 erano stati portati a compimento i lavori di livellamento dei fiumi, con creazione di cadute adatte ad alimentare il sistema di trombe usate per insufflare aria nei forni. Fino al 1790, anno della sua morte, Giovanni Conty annota solamente le produzione delle ferriere di Paino della Chiesa. Con tutta probabilità, complice il terremoto del 1783, la ferriera di Mongiana non era ancora entrata a regime. Alla morte di Giovanni Conty, l’amministrazione passa nelle mani del figlio, Massimiliano. Le prime produzioni di un certo rilievo risalgo agli ultimi anni del Settecento quando la ferriera produce 3.750 cantaia di ghisa, 1.870  cantaia di ferro fucinato, ovvero 337 tonnellate di ghisa e 168 di ferro. Alla lunga gestazione ed alla esigua produzione si aggiunge, nel 1796, il dato che l’artiglieria lamenta la pessima qualità del ferro, i difettosi calibri dei cannoni e l’approssimativa fattura dei proiettili prodotti in Calabria. Al termine della riconquista ad opera del Cardinal Ruffo, nel 1799 Massimiliano Conty, che si era schierato con la Repubblica, viene estromesso dall’amministrazione della ferriera che viene affidata a Vincenzo Squillace, capomassa delle bande di Cardinale. Ristabilita la situazione a Mongiana rimarranno solamente Faccio e Savarese, mentre Tondi e Melograni vengono allontanati dal Regno per aver sostenuto la repubblica. Nel 1800 il Re sancisce il passaggio delle ferriere dal Ministero delle Finanze a quello della Guerra e Marina. La direzione d’artiglieria invia i suoi ufficiali a sorvegliare. Nel 1801 arriva il capitano Ribas che abolisce il sistema del getto detto a conchiglia e lo sostituisce con lo staffaggio in sabbia. Sotto l’amministrazione di Squillace, vengono perfezionati gli altiforni ed alle quattro ferriere (san Carlo, san Bruno, san Ferdinando, e Real Principe) sono assegnati compiti diversificati e complementari. Aumenta il prodotto annuale lordo che sale a 4.100 cantaia di ghisa e 2.293 di ferro. L’amministrazione Squillace va avanti fino al 1807 quando, sul trono di Napoli, arriva Giuseppe Bonaparte. Dal 1 gennaio 1808 lo stabilimento passa interamente nelle mani dei militari e rimarrà sotto il Ministero della guerra e marina per i successivi cinquant’anni. Viene nominato direttore Ritucci, mentre Squillace diventa cassiere. In pochi anni Ritucci ingrandisce e riorganizza lo stabilimento e pianifica la produzione. Intorno agli edifici di produzione sorgono le prime abitazioni destinate ai tecnici ed ai soldati. Vincenzo Ritucci rimane in carica fino al 1811, al suo posto viene inviato il capitano Michele Carascosa. La gestione Ritucci aveva sfornato prodotti buoni ma non sempre a buon mercato, Carascosa deve cercare, quindi, di abbassare i costi di produzione. Incarico che riesce a svolgere egregiamente. Nel 1814 Carascosa assicura che la produzione può superare agevolmente le 16.000 cantaia di ferro in barre. All’inizio del 1814 arriva alla direzione il capo squadrone d’artiglieria a cavallo Nicola Landi. Nel biennio successivo vengono prodotte 25.197 cantaia di ghisa e 5240 di ferro. Il risultato è notevole, raggiunto con 200 uomini in una fonderia di 31 metri per 15 da due malandati altiforni. In seguito alla Restaurazione la produzione scende sotto  4000 cantaia di ghisa, ma la produzione si specializza. Nel 1814 entrata in funzione la Fabbrica delle Canne ribattezzata dai Borbone Real Manifettura e Armeria. A partire dal 1815 le canne di fucile vengono spedite  alla manifattura di Torre Annunziata. Dopo la Restaurazione, oltre alle armi, Mongiana si specializza in produzioni destinate all’industria civile. Il successo dell’impresa induce il ministero ad inviare in Calabria un tecnico salernitano, Domenico Fortunato Savino che, in seguito all’alluvione del 1849 che danneggia pesantemente il complesso, rivoluziona la produzione e progetta, tra le altre cose, la nuova fabbrica d’armi e le fonderie. Savino aumenta e specializza ulteriormente la produzione, introducendo un nuovo metodo di fusione ed installando la “Tiraferri”, un laminatoio acquistato in Inghilterra. Intanto, dalla fabbrica d’armi, inaugurata nel 1852, partono i semilavorati destinati a Torre Annunziata e Poggioreale. Nel contempo, viene avviata la produzione di un fucile interamente costruito in loco, il modello “Mongiana”. In seguito ad un’inaspettata visita di Re Ferdinando II, nel 1852, Mongiana diventerà una colonia militare ed il direttore assumerà i poteri di sindaco. Nasce, così, il comune di Mongiana. A novembre del 1855, una nuova alluvione danneggia la fonderia. Dalla ricostruzione sorgeranno due altiforni gemelli, il san Ferdinando ed il san Francesco, i più grandi attivi in Italia. La rinascita è immediata. Grazie alle nuove infrastrutture ed ai 1550 addetti, nel 1857, la produzione, supera i 25 mila cantaia di ghisa. Il 28 agosto 1860, una colonna garibaldina, guidata dal capitano Antonio Garcea raggiunge Mongiana e ne assume il controllo. Ad appena un anno dall’Unità, la produzione si riduce drasticamente. Nonostante l’ottima qualità dei manufatti che, nel 1861, conquistano una medaglia ed un diploma all’esposizione universale di Firenze e nel 1862 una medaglia d’oro all’esposizione universale di Londra, con la legge n. 793, del 21 agosto 1862, Mongiana viene inserita tra i beni demaniali da alienare. Ad acquistarla, sarà un ex sarto catanzarese, un garibaldino giunto per la prima volta a Mongiana, con la colonna di Garcea, Achille Fazzari. La nuova proprietà riavvierà la produzione nel 1881, ma si tratterà di un fuoco di paglia. Dopo soli tre mesi, infatti, l’altoforno verrà spento. Con esso si spegnerà, anche, la speranza di una terra, ancora oggi, alla ricerca di se stessa.

Fine

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