Serra, quando l’acqua in casa non c’era e i panni si lavavano al fiume

Nella primissima fase della crisi idrica che si sta abbattendo su diversi comuni calabresi, qualcuno, con tono ironico, ha affermato che si sarebbe ritornati a lavare i panni al fiume. Con il trascorrere dei giorni, l’ironia ha lasciato il campo all’indignazione per poi, con il protrarsi delle difficoltà, trasformarsi in rabbia. Una rabbia provocata da disagi che ricordano solo lontanamente quelli vissuti in un tempo in cui, a dispetto del popolare adagio, “i panni sporchi non si lavavano in famiglia”.

Quando l’acqua in casa non era neppure una fantasia e Thomas Bradford e William Blackstone non avevano ancora inventato la lavatrice, il bucato, infatti, si faceva rigorosamente all’aperto. A dire il vero, anche molti anni dopo l’invenzione – avvenuta sul finire dell’Ottocento - dell’elettrodomestico che ha cambiato la vita delle casalinghe e non solo, i panni si lavavano nei fiumi o nei lavatoi pubblici. Dell’incombenza, ovviamente, si facevano carico donne e ragazze, aduse a svolgere la mansione per conto dei familiari o, dietro compenso, di persone benestanti. Queste ultime erano le lavandaie di professione, donne umili, talvolta vedove, che non avevano altro modo per sfamarsi se non quello di lavare i panni altrui. Ovviamente, anche se il lavaggio non era frequente come ai giorni nostri – basti pensare che un galateo francese del Settecento prescriveva di cambiare la camicia ogni 40 giorni – l’incombenza si presentava piuttosto disagevole, tanto più che l’abitudine di cambiarsi d’abito con poca frequenza produceva uno sporco ostinato, difficile da rimuovere. In particolare, nei paesi di montagna, come Serra San Bruno, dove le temperature invernali erano particolarmente inclementi, le donne dovevano fare una fatica del diavolo.

Di quell’epoca, di cui sicuramente nessuno – a partire dalle donne - sente la nostalgia, nel borgo della Certosa rimane un ricordo sempre più ingiallito, come una vecchia cartolina dimenticata in soffitta. Di quella storia, per noi, pittoresca, oggi, a parte qualche personale ricordo, rimangono il lavatoio “di lu Laccu” - sulla strada che porta alla fontana di Guido - e quello ancora presente sotto il ponte della Scorciatina, rimasti entrambi in attività fino alla fine degli anni Settanta. Non tutte le donne, però, ricorrevano ai lavatoi. La gran parte, preferiva andare direttamente al fiume, dove poteva scegliere e sistemare una grande pietra sulla quale strofinare vigorosamente il bucato. Ogni lavandaia, aveva la sua pietra personale che non poteva essere usata dalle altre, se non in sua assenza.

L’operazione di lavaggio era un vero e proprio rito, il più delle volte collettivo, che necessitava di una serie di passaggi propedeutici, a partire dalla preparazione del detergente. In anni in cui il detersivo non si trovava bello e pronto sugli scaffali del supermercato, le soluzioni erano due: il sapone fatto in casa con soda caustica e grasso di maiale e la “lissia” (liscivia), ottenuta facendo bollire in acqua, cenere ricavata solo da alcune varietà di legna, come abete o faggio. Quella di castagno, ad esempio, non era adatta poiché, a causa della gran quantità di tannini contenuta, macchiava o ingialliva i panni. Una volta ottenuto il composto, la brava massaia aspettava la sera per preparare una tinozza (lu tiniedhu) con i panni da lavare e dopo avervi disposto in superficie un drappo che fungeva da setaccio, vi versava la “lissia”. I vestiti rimanevano, quindi, in ammollo nella tinozza dalla quale, durante la notte, l’acqua fuoriusciva lentamente attraverso un apposito buco posto alla base. Per combattere lo sporco più ostinato si faceva ricorso ad un’asse di legno dotato di vistosi solchi orizzontali (la tavuledha) sui quali i vestiti venivano strofinati energicamente. La mattina successiva si preparava la “curudha”, ovvero uno strofinaccio modellato a mo’ di ciambella, con la funzione di ammortizzare il peso della cesta che, con all’interno i panni da portare al fiume, veniva posta sulla testa. Con il carico tenuto in straordinario equilibrio anche nelle situazioni più impensabili, la lavandaia, il più delle volte accompagnata dai figli più piccoli, raggiungeva il fiume o il lavatoio.

Lo “spettacolo” delle donne intente a svolgere la loro incombenza nelle fredde acque dell’Ancinale doveva essere piuttosto apprezzato dal sesso forte, tanto che qualcuno ricorda ancora la battuta di un buontempone dei tempi che furono, al quale un amico, vedendolo appoggiato al parapetto del fiume, chiese cosa stesse facendo e quello, di rimando, rispose con un arguto doppio senso: “vinni mu vighiu cu l’ava lu miegghiu”. Non tutti, ovviamente, avevano la propensione alla celia, a partire dalle protagoniste che, proprio, nel fiume svolgevano l’attività più faticosa, ovvero strofinare i panni per poi immergerli in acqua. A rendere meno affliggente l’incombenza era l’immancabile cicaleccio fatto di racconti e maldicenze che le donne si scambiavano. La propensione alla critica doveva essere particolarmente spiccata se, ancora oggi, la sferzante espressione di “lavandara” viene usata per indicare una donna usa alla maldicenza più sgraziata. Una volta lavati i panni, le donne facevano ritorno a casa, dove procedevano alla stenditura ed alla successiva stiratura con il ferro a carbone.

Di questa lunga storia, conserviamo due personali ricordi: un gruppo di donne alle prese con il bucato nel lavatoio “di lu Laccu” e una donna minuta, che a metà anni Ottanta, passava ancora davanti alla “funtana di la Pisciaredha” con in testa una vasca di zinco nella quale portava il bucato al lavatoio, oggi abbandonato, sotto il ponte della Scorciatina.

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