L'Italia di Salò e la resistenza fascista nel Regno del Sud

Anche in Sicilia la Repubblica di Salò di Mussolini aveva i suoi seguaci. Lo svela un libro documentatissimo, “L’Italia di Salò” (Il Mulino, pp. 490, euro 28), di Mario Avagliano e Marco Palmieri.

Il saggio - attraverso le lettere, i diari, i documenti del tempo - racconta i motivi dell’adesione di tanti italiani (oltre mezzo milione solo i militarizzati, più altrettanti iscritti al partito) alla Repubblica sociale.

Così ad esempio motivò la sua scelta il filosofo Giovanni Gentile, originario di Castelvetrano (Trapani), in una lettera alla figlia del 27 novembre 1943: "io profondamente desidero che si vinca; che l'Italia risorga col suo onore; che la mia Sicilia sia alla mia morte la Sicilia italianissima in cui nacqui e in cui sono seppelliti i miei genitori. Aspettare, tappato in casa che maturino gli eventi è il solo modo che ci sia di comprometterli gravemente. Bisogna marciare come vuole la coscienza. Questo ho predicato per tutta la vita. Non posso smentirmi ora che sto per finire".

Tra i militari che aderiscono a Salò, osservano Avagliano e Palmieri, ci sono anche numerosi meridionali e per loro una delle motivazioni ideali fu la volontà di liberazione della terra d’origine dagli invasori: "oh come mi duole il cuore – scrive un militare siciliano a un'amica – a pensarli e a saperli nelle mani di tanto incivile barbaro e lurido nemico. Ma Iddio grande e giusto non deve permettere che la nostra grande e bella Sicilia continui ancora per molto tempo ad essere calpestata dalle orde selvagge che l'opprimono. Verrà certamente e presto il giorno che noi libereremo la nostra Patria, che ributteremo a mare americani ed inglesi e affini e che faremo nuovamente e per sempre sventolare su quelle province invase e martiri il nostro bel tricolore non più sormontato dallo stemma maledetto di una casa spergiura e di un re vile e traditore, causa prima di tutti i danni, di tutti i dolori, di tutte le rovine presenti laggiù, ma un tricolore sormontato dal Fascio littorio".

Pochi però sanno che in Sicilia, come evidenzia il saggio di Avagliano e Palmieri, dopo lo sbarco degli Alleati e la nascita del Regno del Sud, si svilupparono movimenti spontanei di fascismo clandestino collegati con i "fratelli del Nord", come venivano definiti i salotini nei volantini. Si trattò di una consistente "rete dietro le linee nemiche", animata soprattutto da giovani che rimanevano fedeli al duce e non accettavano il cambio di alleanze del governo Badoglio.

Gruppi clandestini di “resistenti” fascisti si formarono in Sicilia già nel luglio del 1943, subito dopo l’arrivo degli anglo-americani. La prima formazione censita è "Fedelissimi del Fascismo - Movimento per l’italianità della Sicilia", fondata a Trapani da Dino Grammatico (futuro deputato regionale del Msi) e Salvatore Bramante il 27 luglio, appena quattro giorni dopo l’ingresso in città delle truppe angloamericane. Come ha spiegato l’allora studente universitario Sergio Marano, «non accettiamo di finire così. Abbiamo vent’anni. Esasperati, qualcosa vogliamo fare che ci riscatti. E poiché ci sentiamo traditi, e altra verità non vedevamo attorno noi, ci dicemmo ancora fascisti e credemmo che l’Italia si difendesse al nord, non al sud. Ci buttammo a cospirare». Pochi mesi dopo il gruppo viene scoperto, arrestato e processato da una corte alleata: tra i giovanissimi portati alla sbarra, Maria D’Alì, figlia dell’ultimo vicefederale di Trapani che i giornali di Salò definiscono "la Giovanna d’Arco della Sicilia".

In concomitanza con questo processo nasce a Palermo il «gruppo Costarini» (dal nome di uno dei primi caduti della Rsi) — fondato da Angelo Nicosia, Lorenzo Purpari, Aristide Metler e Nicola Denaro — che pubblica il giornale ciclostilato "A noi!". Copie di "A noi!" vengono lanciate, nel gennaio 1944, dal loggione del teatro Biondo nel corso di una proiezione del Grande dittatore, il film satirico su Hitler (e Mussolini) di Charlie Chaplin, che più volte e in più parti dell’Italia liberata verrà interrotto da questo genere di manifestazioni. Altri gruppi si formano e agiscono a Catania, Messina, Milazzo, Ficarra, Caltanissetta, a cui partecipano nomi che poi ritroveremo nella storia repubblicana successiva e le cui vicende il libro di Avagliano e Palmieri racconta con dovizie di particolari.

Sempre in Sicilia, nella fase finale della guerra si sviluppa una protesta popolare contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatisti e comunisti. Strane alleanze destinate a ripresentarsi nella storia siciliana. Ci si batteva — con lo slogan "Non si parte" — per bloccare il reclutamento di soldati da parte del Regno del Sud che dovevano andare a combattere contro la Rsi, negli ultimi, decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sacrestano Giovanni Criscione.

 A Comiso i neofascisti del "Non si parte" creano addirittura una "Repubblica indipendente" e per ottenere la loro smobilitazione, il governo italiano e gli Alleati saranno costretti a minacciare un bombardamento aereo.

Un saggio da leggere, che svela pagine di storia italiana davvero misconosciute.

 

  • Published in Cultura

Il papato, l'Italia ed i Patti Lateranensi

Il problema politico dell’Italia, come rilevava già il Machiavelli, è la presenza millenaria di uno Stato della Chiesa, che, in quanto Stato, abbisognava di un territorio e delle forze armate proprie; il che era in evidente contrasto con il concetto di unità.

 Il Congresso di Vienna aveva restaurato lo Stato Pontificio nei confini del 1796: Roma e Lazio (fino a Sora), Umbria, Marche, Romagna. Ne era sovrano, con rango di re, il papa pro tempore.

 Pio IX nel 1848 ne aveva fatto un Regno costituzionale; ma gli eventi lo superarono, e nel 1849, con l’assassinio del ministro Pellegrino Rossi, venne proclamata una Repubblica mazziniana. Il papa si rifugiò a Gaeta, e chiese l’aiuto delle Potenze cattoliche. Intervenne di fatto solo la neonata Repubblica francese, il cui presidente e prossimo dittatore poi imperatore, era Luigi Napoleone Bonaparte. Questi era sostenuto dal partito cattolico francese, e doveva comportarsi di conseguenza.

 Tornato il papa a Roma e riaffacciandosi, con la Guerra di Crimea e il Congresso di Parigi, la questione politica italiana, Napoleone III e Cavour s’intesero per una confederazione tra Sardegna allargata all’Italia Settentrionale; un Regno dell’Italia Centrale; il Regno Meridionale; e Roma da lasciare alla Chiesa. Era un programma fragile, e ancora una volte prevalsero le cose sulle intenzioni: la Sardegna si annesse Milano, Parma, Modena, Bologna e Firenze, e cedette alla Francia Nizza e Savoia. Napoleone III si assunse l’onere di proteggere il papa.

 Quando Garibaldi conquistò le Due Sicilie con troppa facilità, e prese Napoli in treno, non fece mistero di voler puntare su Roma e cacciarne Pio IX, che definiva in un modo che qui non posso ripetere. Napoleone III, per evitare un diretto intervento francese e complicazioni europee, incaricò Cavour di fermare Garibaldi; e, trovato il vuoto, questi si annesse anche Marche, Umbria e l’intero Meridione.

 Restò al papa appunto Roma con il Lazio, in termini più brevi dell’attuale. L’Italia tuttavia proclamò Roma sua capitale. L’evidente contrasto venne risolto con la Convenzione di settembre 1864, con cui l’Italia non rinunciava a Roma ma a ogni atto di forza per averla, e trasferiva intanto la capitale a Firenze. In cambio, la Francia ritirava le truppe; ma le dovette mandare ancora dopo il colpo di testa di Garibaldi del 1867, tuttavia sconfitto dai Pontifici.

 Intanto si complicavano gli equilibri europei, e la Prussia di Bismarck attirava in una trappola Napoleone III, lo batteva e faceva prigioniero a Sedan, annientava anche la rinata repubblica. L’Italia, sentendosi libera da ogni impegno, attaccava Roma, il 20 settembre 1870. Il papa ordinò la resistenza perché non si potesse dire che avesse rinunciato al trono regale, poi, con una resa ai soli effetti militari della città, si chiuse in Vaticano. Da allora si aprì una frattura insanabile tra la Chiesa e il Regno d’Italia.

 Insanabile, a dire il vero, non del tutto. La Chiesa rifiutò la Legge delle guarentigie, ma se ne servì; e nessuno poté togliere agli Italiani, Vittorio Emanuele incluso, la Fede cattolica e le pratiche di pietà. Tuttavia lo Stato era formalmente scomunicato, e il papa si dichiarava prigioniero; vietando ai cattolici ogni partecipazione alla vita politica italiana.

 Un piccolo passo si ebbe con Giolitti e il Patto Gentiloni (ascendente di costui!), che consentiva ad alcuni cattolici di candidarsi a titolo strettamente personale; mentre veniva condannato il Partito Popolare di Sturzo. Scoppiata la Prima guerra mondiale, la Santa Sede nominò un Vescovo Catrense con giurisdizione sui cappellani militari. Piccole cose, tuttavia passi.

  Mussolini iniziò trattative segretissime, servendosi di intermediari insospettabili, tra cui il gesuita Tacchi Venturi, lo storico delle religioni, e l’avvocato Pacelli, fratello del futuro Pio XII. Base di discussione era, da entrambe le parti, il riconoscimento politico; sarebbero seguite poi le soluzioni ai problemi particolari.

 Del tutto inattesa, venne annunziata la firma dei Patti Lateranensi, l’11 febbraio 1929, festa della Madonna di Lourdes. La solenne cerimonia vide l’incontro tra il Capo del governo italiano, Mussolini, e il Segretario di Stato di Pio XI, cardinale Gasparri. I Patti constavano di due documenti, il Trattato agli effetti internazionali, e il Concordato agli effetti interni. Il primo riconosceva al papa un suo Stato indipendente, la Città del Vaticano; l’altro attribuiva al cattolicesimo la dignità di religione nazionale, del resto sancita dall’art. 1 dello Statuto del 1848, sempre in vigore.

 Attenzione qui. Mai come quando si tratta di religione, le parole pesano. Religione nazionale non significa religione dello Stato, e tanto meno una Chiesa di Stato come nel mondo protestante; significa l’affermazione che il popolo italiano è (o, nel 1929, era!) storicamente e attualmente cattolico, e perciò rappresentato dalla Chiesa Romana. A questa si attribuivano dunque privilegi come l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole.

 Definite le questioni politiche e disciplinari, non è che tutto fosse senza ombre. Negli ambienti fascisti stessi si mostrò una certa opposizione, sia da parte di neopagani come Evola, sia, con ben altro peso, da risorgimentalisti come Gentile, che, una volta tanto d’accordo con Croce, votò contro in Senato; e altri criticarono Mussolini perché cedeva del territorio nazionale, per quanto piccolissimo. Né gli uni né gli altri né gli altri ancora preoccuparono il duce, che mirava a porre fine a una piaga morale e politica che aveva lacerato il popolo italiano.

 Più turbolenti alcuni ambienti come l’Azione Cattolica. Appena firmati i Patti, divamparono dei brevi ma vivaci contrasti per la questione dell’educazione della gioventù; e ne approfittò volentieri l’anticlericalismo del vecchio fascismo originario. Una curiosità: il bonario fascismo soveratese se la prese con i Salesiani, i quali, leggiamo nella Cronaca dei direttori, celebrarono il Corpus Domini al loro interno. La pace fece presto a tornare in tutta Italia, e quindi anche a Soverato.  I rapporti tra Chiesa e Regime furono solidi e tranquilli; nemmeno la guerra turbò l’indipendenza della Santa Sede.

 Nel 1934, intanto, la Chiesa Cattolica tedesca firmava un Concordato con il Reich nazionalsocialista. Con tale atto, Hitler stravolgeva non solo la politica laicista di Weimar, ma la stessa tradizione anticattolica di Bismarck.

 La costituzione del 1948 ci ammannisce un articolo 7 che, fuori da ogni logica giuridica, fa dei Patti Lateranensi uno dei “principi fondamentali” della vita pubblica italiana. Quanto era più saggio lo Statuto del 1848, che parlava di “religione”; e quelli mussoliniani del 1929 erano dei “Patti”, non dei “principi”. I patti, che per definizione si fanno tra due parti distinte, si discutono e possono essere non solo modificati (come avvenne nel 1984), ma anche denunziati da una o da entrambe le parti; i principi dovrebbero essere eterni.

  • Published in Cultura
Subscribe to this RSS feed