Le guerre alla Russia e l'eroismo della Guardia reale napoletana

 Non riesco a trovare un motivo serio per fare la guerra alla Russia. Lo ha deciso la NATO, ma non riesco a trovare un motivo serio per cui dobbiamo trovarci nella NATO. Abbiamo perso la Seconda guerra mondiale, è vero; ma per quanti altri secoli la dobbiamo perdere?  Ciò premesso, vediamo che guerra ci tocca, stavolta. L’Italia invierà 140 (e dico centoquaranta!) soldati in Lettonia. Se la guerra non si fa, inutili; se si fa, si troverebbero contro milioni di nemici. Tanto per saperlo.  Estonia, Lettonia e Lituania sono tre piccoli Stati baltici, nel 1918-20 resisi indipendenti dalla Russia; nel 1945 – saltiamo su alcuni particolari – sovietici; poi un’altra volta indipendenti, e passati alla NATO. La Lettonia confina con Estonia e Lituania, nostri alleati, e Russia e forse Bielorussia potenziali nemici. La Russia possiede una enclave con l’antica Koenisberg, patria di Kant, oggi Kalingrad. Insomma, un bel labirinto.  Ma qui voglio parlare delle altre due guerre italiane di Russia. Nel 1941, forse per prevenire un attacco sovietico, Hitler scatenò un’offensiva volta a spezzare in due il fronte di Stalin, e impadronirsi del territorio. Fallito il primo tentativo, la Germania ne ripetè molti altri, schierando milioni di uomini e immenso quantitativo di carri armati e aerei. Per capirci, se uno fosse riuscito, avrebbe spazzato via, dopo l’URSS, in una settimana gli Angloamericani da Italia e Francia, la cui presenza era insignificante rispetto ai “Gruppi di eserciti” sovietici e tedeschi.  Mussolini inviò dapprima un Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR), poi un’Armata (ARMIR); questa comprendeva, su richiesta germanica, un Corpo d’armata alpino, destinato al Caucaso, ma che non vi giunse mai. La superiorità sovietica, la sconfitta di Stalingrado e l’inverno causarono un disastro alle nostre truppe. È tutto purtroppo noto. Questi eventi si svolsero nel Sud, attuale Ucraina e Russia Meridionale.  Un reparto specializzato di nebbiogeni operò nel Baltico; aderì alla Repubblica Sociale, combatté a fianco dei Tedeschi fino al 1945.  Quasi dimenticata è invece la prima guerra di Russia, quella napoleonica del 1811, cui parteciparono molti italiani di tre appartenenze: di Piemonte, Liguria, Toscana e Roma, annessi direttamente all’Impero francese; di Trentino, Lombardia, Veneto, Romagna e Marche, sudditi del Regno d’Italia, re Napoleone e vicerè Eugenio Beauharnais, figlio di Giuseppina; e il Regno di Napoli di Gioacchino Murat, il quale però assunse il comando della cavalleria imperiale. L’offensiva si svolse a nord, con due direttrici, Mosca e San Pietroburgo. Come si sa, fallì per la strategia russa di attirare il nemico sempre più lontano dalle sue basi; e sopravvenne l’inverno. Napoleone raggiunse Mosca, ma San Pietroburgo e i territori baltici, da secoli fortificati, resistettero fino alla ritirata francese.  Il regno di Napoli schierava circa diecimila uomini, tutti meridionali, con ufficiali indigeni, e francesi che però Gioacchino aveva obbligato, con grande fastidio di Napoleone, a naturalizzarsi napoletani. La divisione napoletana fu posta al comando di Florestano Pepe e comprendeva una brigata al comando del Rosaroll e una al comando del D'Ambrosio, per un totale di quattro reggimenti. Ricordiamo anche Cianciulli, Costa,  Arcovito,  Roccaromana, Piccolellis, Campana. Coinvolta nella disastrosa ritirata, la Guardia reale napoletana si coprì di gloria respingendo i cosacchi, e salvando dalla cattura lo stesso Napoleone. La divisione partecipò poi alla lunga difesa di Danzica, assediata da truppe russe e prussiane. Con molte perdite, ottenne infine di ritirarsi con onore, e tornò in patria.  Buonaparte disse di loro: “Io partecipavo ad un pregiudizio di scarsa stima delle truppe napoletane: esse mi hanno colmato di meraviglia a Lutzen, a Bautzen, in Danzica e ad Hanau. I famosi Sanniti, loro avi, non avrebbero combattuto con maggior valore. Il coraggio è come l'amore, ha bisogno di alimento».  Ecco una frase su cui bisognerebbe riflettere, e si capirebbe anche il crollo del 1860: era venuto meno l’alimento! Ma questo è un altro discorso.

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I briganti nelle Serre, i nomi dei ricercati di Fabrizia

Divenuto padrone incontrastato dell’Europa continentale, dopo la vittoria conseguita ad Austerlitz  (2 dicembre 1805), Napoleone, decise di portare i vessilli del suo impero sul trono del Regno di Napoli. Per farlo si affidò, come spesso accadeva, ai parenti. Così ai “napoletani”, per poco meno di due anni, toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Ottenuta la corona di Spagna, il fratello di Napoleone, lasciò Napoli al cognato, Gioacchino Murat, marito della sorella Carolina, il cui regno si concluderà, il 2 maggio 1815, con la sconfitta a Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di stabilire il loro ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano scacciato i francesi e restaurato la monarchia. Nella guerra senza quartiere la Calabria fu in prima fila. Ad insidiare le truppe francesi i numerosi briganti che, favoriti dall’orografia e dalla fitta vegetazione, si cimentavano in continue azioni di guerriglia. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, i paesi situati sull’altopiano serrese diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. I boschi delle Serre divennero, quindi, rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Molti furono uccisi, altri arrestati, di altri ancora non si seppe più nulla. Tra i centri delle Serre dove la presenza brigantesca era piuttosto significativa, figura anche Fabrizia. La schiera dei “fabrizioti” fu particolarmente nutrita tra le fila di coloro i quali, nel maggio 1807, misero a ferro ed a fuoco Serra. Giova ricordare che, all’epoca, Fabrizia comprendeva anche i territori sui quali nasceranno successivamente i comuni di Mongiana e Nardodipace. E’ difficile dire quanti e chi fossero i briganti attivi nel circondario, tuttavia, almeno parzialmente la lacuna può essere colmata grazie alla “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta risale, molto probabilmente, ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma dell’Intendente Colletta ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa impossibile, abbandonata nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. Ad aprire la “Nota” un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Grazie alla “Nota” è possibile risalire all’identità dei 16 “fabrizioti”, 12 uomini e 4 donne, che tra il 1809 ed il 1810 si erano dati alla macchia. Questi i nomi: Ilario Jenco Gajaro e sua moglie, Domenico Cirillo, Domenico Gallace, Bruno Ciancio e sua moglie, Fortunato Masi alias Zio Bruno, Deodato Masi alias Petrichia, Stefano Aloe, Pasquale Monteleone Imiso e sua moglie, Pietro Monteleone, Giovanni Franzé alias Rici e sua moglie, Vincenzo Franzé alias Rici, Giuseppe Franzé.

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"Il grande Napoleone aveva il pene piccolo"

"Il grande Napoleone aveva il pene piccolo". A sostenerlo un professore della Columbia University, John F. Lattimer, morto il 17 maggio, all'età di 92 anni. L’uomo, un urologo con la passione per il collezionismo, nel 1977, aveva acquistato il membro virile dell’imperatore francese pagandolo 3800 dollari. La storia vuole che a staccare il pene al cadavere di Napoleone sia stato, per vendetta, un sacerdote corso, tale Vignali, che era stato deriso dall’imperatore a causa delle sue dubbie capacità sessuali. A riattualizzare la vicenda, è stato un blog, collegato al sito del quotidiano spagnolo El Mundo, che riportata la tesi di Lattimer secondo la quale a causa di un problema endocrinologico "la misura del pene di Bonaparte era di quattro centimetri e mezzo in stato di riposo che diventavano 6,1 durante l'erezione". Una tesi, peraltro, non nuova dal momento che il dottor MacLaurin, che aveva eseguito l’esame autoptico sul corpo dell'imperatore, nella sua relazione aveva scritto: "i suoi organi riproduttivi erano piccoli e palesemente atrofici". In ogni caso, le dimensioni dell’organo sessuale non hanno condizionato le numerosissime avventure galanti di Napoleone. 

Il 13 ottobre 1815 a Pizzo veniva fucilato Gioacchino Murat

Il 13 ottobre 1815 Gioacchino Murat venne fucilato a Pizzo, epilogo di una vita dai molti mutamenti. Avventuroso e coraggioso cavalleggero, percorse rapidamente i gradi dell’esercito rivoluzionario, poi napoleonico; sposò Carolina Bonaparte; venne elevato a granduca di Berg, e nel 1808 a re di Napoli. Napoleone, che ben conosceva la geopolitica e la storia, non osò pensare di annettersi il Meridione d’Italia come fece con Torino, Genova, Firenze e la stessa Roma; o di governarlo direttamente come con Milano, Venezia e Bologna; ma ne riconobbe l’identità con un sovrano indipendente. Cosa pensasse Napoleone delle indipendenze altrui, è facile immaginarlo. Altro era il pensiero di Murat, che appuntò le sue ambizioni a rendere davvero suo il Reame che gli era toccato quasi per caso; e tenere a bada l’ingombrante cognato. Per far ciò, sperò di potersi impadronire della Sicilia, dove regnava Ferdinando con l’invincibile sostegno navale britannico; e intanto usò l’appellativo di Due Sicilie, che nel 1816 diverrà effettivo con il Borbone. Deposta quest’ aspettativa, che poteva realizzarsi solo se Napoleone avesse sconfitto e occupato la Gran Bretagna stessa, mirò a rafforzarsi nel dominio effettivo che aveva. Gli occorreva un partito a suo sostegno, e lo cercò nella borghesia e nobiltà pervase di più o meno fondate ideologie illuministiche; e desiderose di mettere le mani sui beni ecclesiastici e demaniali. Creò un ceto di proprietari e latifondisti difesi dal Codice Napoleone, che tutelava soprattutto la proprietà privata. Per favorirli con ogni assetto legale, trasformò in Comuni quelli che prima erano solo casali delle “Universitates” maggiori; con sindaci e decurioni tratti dalla borghesia. Si avvide che il Meridione non aveva una classe dirigente, come non l’ha tuttora, e si diede a formarla, cominciando dall’esercito. Con un atto che irritò molto Napoleone, impose ai generali francesi del suo seguito di prendere la cittadinanza napoletana, o andarsene. In pochi anni, condusse ai gradi più elevati molti e valenti regnicoli, che diedero buona prova di sé e combattendo l’insorgenza borbonica e popolare, e nelle spedizioni in Russia, Germania, Lombardia e nell’ultimo scontro di Tolentino; i Pepe, Carascosa, Filangieri, Colletta... Ad altri si aprì la strada della carriera burocratica. La classe militare murattiana visse e operò fino al 1848-9, ma non fece discepoli, come ben si vide nel 1860; la burocrazia non si rinnovò. Dopo Lipsia, Murat tentò di separare il suo destino da quello di Napoleone, e nelle prime fasi del Congresso di Vienna i suoi rappresentati vennero ammessi alle trattative accanto a quelli di Ferdinando come re di Sicilia; accortosi che gli accordi tra Austria e Gran Bretagna erano per la rinuncia inglese alla Sicilia in cambio di Malta, e quindi per il ritorno del Meridione ai Borbone sotto la protezione austriaca, provò senza successo la guerra. Il colpo di testa che lo condusse alla morte fu forse una trappola delle due Casate borboniche di Parigi e di Napoli, che potevano avvertire entrambe la sua presenza come una minaccia. Fu condannato in maniera del tutto legale; la legge che lo ordinava era stata promulgata da lui e mantenuta, come molte altre, da Ferdinando.

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I Briganti nelle Serre. I nomi dei ricercati di Spadola, Brognaturo e Simbario

Dopo aver sbaragliato gli avversari ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, Napoleone, divenuto padrone incontrastato dell’Europa continentale, decise di liberarsi, anche, della monarchia borbonica invadendo il regno di Napoli. Le conquiste dell’imperatore d’Ajaccio, ogni volta, mettevano in moto un collaudato meccanismo di spartizione che vedeva protagonisti i componenti del suo numeroso clan familiare. Ai “napoletani”, per poco meno di due anni, toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Una volta incoronato re di Spagna, il fratello di Napoleone lasciò la corona di Napoli al cognato, Gioacchino Murat, marito della sorella Carolina, il cui regno si concluderà, il 2 maggio 1815, con la sconfitta a Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di ristabilire l’ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano restaurato la monarchia dopo aver scacciato i francesi. Nella guerra senza quartiere la Calabria fu in prima fila. Ad insidiare le truppe francesi i numerosi briganti che, favoriti dall’orografia e dalla fitta vegetazione, si cimentavano in continue azioni di guerriglia. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, i paesi situati sull’altopiano serrese diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. I boschi delle Serre divennero, quindi, rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Molti furono uccisi, altri arrestati, di altri ancora non si seppe più nulla. E’ difficile dire quanti e chi fossero, tuttavia, almeno parzialmente la lacuna può essere colmata grazie alla “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta risale, molto probabilmente, ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma dell’Intendente Colletta ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa impossibile, abbandonata nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. Ad aprire la “Nota” un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Per quanto riguarda Spadola, Brognatuto e Simbario, la “nota” riporta complessivamente 26 persone, tra le quali figurano anche tre donne. Questi i nomi, corredati dai soprannomi,  dei ricercati:

- (Simbario) Francesco Nardi Marta; Oliva Bertucci;Vincenzo Nardi Marta; Stefano Nardi Marta; Giuseppe Bertucci Occhiulia; Fortunato Mardi Mastro Gennaro; Vitantonio Nardi Mastrogennaro; Antonio di Nardo di Renzo; Francesco Polito Cici; Bruno Andreachio; Bruno Spina; Orsola Carello; Vito Valente; Diego La Caria; Elisabetta Timpani; Domenico Pavone; Francesco Polito Grota;

- (Spadola) Domenico Vavalà; Giuseppe Tassone di Domenico; Nicola Arena; Nicola Papa; Bruno Pirino e Francesco Primerano;

- (Brognaturo) Francesco, Nicola e Pietro Valente.

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Quei due francesi uccisi a Serra e seppelliti a Spadola

Nelle lunghe e dure vicende della storia, due soldati morti possono non rappresentare molto. Non rappresenterebbero tanto, neppure, se venissero inseriti nel contesto, più circoscritto, delle guerre napoleoniche o del “decennio francese”  nel Regno di Napoli. Possono rappresentare molto, invece, quando il teatro in cui hanno perso la vita non è un campo di battaglia, bensì un pacioso centro abitato, famoso più per le odi a Cristo che per gl’inni a Marte. Il luogo in questione è Serra San Bruno, dove, il 2 marzo 1811, trovarono la morte due soldati francesi.

Il fatto è riportato nella “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice. Il retroterra della storia rimanda al saccheggio compiuto dai briganti nel 1807. Per evitare che l’episodio si ripetesse, il comando francese aveva deciso di dislocare a Serra un congruo numero di gendarmi, posti agli ordini del “celebra (sic!) Voster”.

I nuovi arrivati, come spesso accadeva con la soldataglia francese, non dovevano essere per nulla teneri con la popolazione civile. Voster, infatti, viene definito “uomo crudele, intrattabile, fiero, e ladro non dissimile alla Brigata di suo comando”.

La guarnigione francese, quindi, doveva essere composta, per la gran parte, da ribaldi interessati a cogliere tutti gli agi connessi alla loro condizione di occupanti. Tanto più, che i soldati transalpini “non accorrevano” neppure “alle Spedizioni” contro i briganti, “ma restavano nel paese a commettere mille bricconerie”.

I gendarmi, tanto restii a prendere parte alle attività condotte dalla Guardia Civica, erano, invece, velocissimi a mettere le mani su qualunque cosa desiderassero. A testimoniarne la rapacità, un episodio accaduto nei primi mesi del 1811, in prossimità della “Gurna di li bufali”, dove, nel corso di una delle tante operazioni condotte in quel periodo, gli uomini della Guardia Civica, erano riusciti a sbaragliare un gruppo di briganti ed a sequestrare un consistente bottino; “le quali cose tutte portate a Serra furono prese dal sud.to Voster e sua Brigata, restando alla Civica il trapazzo di averle prese”.

In questo contesto, incalzati dall’azione repressiva condotta dai militi serresi, il 2 marzo, tre briganti, per il tramite di “Raffaele Timpano del Paparello”, un “villano di Spinetto”, chiesero alle autorità cittadine un salvacondotto. Per uno strano scherzo del destino, quel giorno, in assenza di Voster il comando della piazza era stato affidato ad un tenente, tale Gerard. Il povero Timpano, probabilmente, indeciso sul da farsi, si era rivolto al giudice di pace, Bruno Chimirri, il quale accompagnato dal comandante della Guardia Civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, andò a cercare il tenente Gerard. Lo trovò nel suo alloggio, in compagnia del maresciallo Ravier.

I due, evidentemente, abituati a tenere un contegno tutt’altro che marziale, avevano riportato la peggio da un lauto convivio con Bacco. Completamente incapaci di analizzare la situazione, consegnata una pistola ciascuno a Chimirri e Peronacci, nonostante i cauti suggerimenti dei serresi, si avviarono verso la casa in cui i tre briganti aspettavano il salvacondotto.

Alticci ed altezzosi com’erano, arrivati sul posto, cercarono di fare irruzione, ma non ebbero il tempo di varcare la soglia della porta d’ingresso che vennero freddati a colpi di schioppo. Nel frattempo, a dare man forte, erano arrivati, gli uomini della Guardia Civica che, al termine di un sanguinoso scontro a fuoco, costato la vita al milite Domenico Jorfida, riuscirono ad uccidere i tre briganti. Ritornato al comando ed appresa la notizia, Voster dovette andare su tutte le furie, al punto da ritenere Serra, indegna di accogliere le salme dei suoi soldati. Dispose, quindi, di “donare” quei due corpi straziati dalle pallottole brigantesche alla comunità spadolese, affinché li inumasse nella sua chiesa. Al lungo corteo che accompagnava le salme di Gerard e Ravier fino a Spadola, presero parte i militari francesi, i “cittadini” di Spadola, nonché quelli di Simbario e Brognaturo che avevano reclamato, invano, ”l’onore” di poter avere “fra loro i due Campioni”.

La vicenda assunse tratti, farseschi, quando, restaurati i Borbone, gli abitanti di Spadola trovarono imbarazzante custodire nella loro chiesa i corpi di due nemici della corona. Così, corsero ai ripari ed in maniera piuttosto spiccia, li “dissotterrarono, e li buttarono nel fiume”.

Memori dell’alterigia con la quale, al grido di “campioni” avevano accolto le salme al tempo di Voster, i “Maestri ferrari delle forge della via di S. Rocco” ogniqualvolta vedevano arrivare uno spadolese, un simbariano o un brognaturese, “lasciavano il martello, e correndoli dietro gridavano e ripetevano Campioni, Campioni: tantoché i spadolesi specialmente, nel venire a Serra: eran costretti entrare per la via dello Schiccio”.

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