Terremoti in Calabria, una storia lunga 2 mila anni

 Il terremoto del Friuli, quello in Abruzzo,  in Emilia e quello delle settimane scorse ad Amatrice; il sisma sul Pollino che ha colpito particolarmente la cittadina di Mormanno dopo mesi di continue ed incessanti scosse. E non solo. Lo sciame tellurico che sta investendo l’intera Calabria da nord a sud ogni giorno. Insomma il terremoto, questo conosciutissimo ed imprevedibile fenomeno della natura, ci interessa da vicino, eccome. Ci ricorda, ove ce ne fosse  bisogno, che il nostro territorio è fortemente soggetto a rischio sismico. Basta fare un giro di pellicola a ritroso nel tempo e si vedrà che  l’intera Calabria è stata colpita, a partire da…sempre. Basti pensare che il primo terremoto di cui si ha notizia risale al 91 a.C. che colpì Reggio con una magnitudo del 6.3 come ci tramanda il geografo greco Strabone. Devono passare mille anni, per quello che si sa, per avvertire un altro movimento del 6° grado nel 951 che colpì in modo disastroso Rossano. Insomma millenni, secoli interessati da centinaia di devastanti terremoti di varia intensità e natura. Quello che segue non si legga come un freddo elenco di date, piuttosto si rifletta sul cosa fare, sul come fare per prevenire i terremoti stante l’impossibile prevedibilità di essi. Nel 1184 una scossa del 6° grado colpì con morti e distruzioni Luzzi e Cosenza. Saltiamo qualche secolo ma non senza scuotimenti di terra. Il 4 aprile del 1626 ancora un sesto grado a Girifalco e paesi limitrofi. Tra i più disastrosi si ricordano quelli che seguono. Il 27 marzo del 1638 nel Nicastrese con almeno 10 mila morti e oltre cento paesi distrutti. Nello stesso anno nella notte tra l’8 e il 9 giugno una scossa del decimo grado Mercalli colpì  l’intera Calabria che subì gravissimi danni con la distruzione di circa 200 paesi e la morte di almeno mille persone. Nel 1659, il 5 novembre, tra Squillace, Sant’Eufemia  e le Serre vibonesi 2mila vittime per una scossa del 6.5 grado avvertita distintamente anche a Crotone dove cadde un campanile di una chiesa. Il Settecento, poi, fu il secolo dei “tremuoti” meno frequenti ma tanto sconvolgenti.Il 21 marzo 1744 una scossa più violenta e nel 1783, dal 5 febbraio a tutto il mese di marzo, la violenza del terremoto fu impressionante: la Calabria dovette contare almeno trentamila morti; rasi al suolo, fra i tanti altri, la rinascimentale Certosa di Serra San Bruno e il grandioso convento dei Domenicani di Soriano Calabro.  Nel 1824, una forte scossa, con epicentro sulla Sila orientale, arrecò tantissima paura in tutte le popolazioni del Marchesato, le quali, invece, dovettero subire il più catastrofico dei terremoti l’8 marzo 1832 col decimo grado Mercalli e successive scosse, nello stesso giorno, dell’ottavo e settimo grado. È quello che viene ricordato come il “tremuoto di Cutro” con la cittadina quasi interamente distrutta e 60 morti ed altri 200 nel resto del circondario crotonese.  Certo era inimmaginabile la velocità o la tecnologia degli interventi, per cui dopo oltre sette mesi dall’infausto evento vi erano ancora morti sotto le macerie. Seguirono terremoti distruttivi nel 1835 con epicentro nel Cosentino e nel 1836 tra Rossano e Crotone con almeno 600 vittime. Il 12 febbraio 1854 una scossa distrugge Donnici nel cosentino. Nel 1870, il 4 ottobre, devastata la vallata del Savuto con 500 morti. Nel 1894 un sisma del  sesto grado interessò l’Aspromonte. L’inizio del ‘900 fu funestato dal terremoto del settembre 1905 che interessò Vibo con una scossa di quasi sette gradi e 600 morti e soprattutto quello del 28 dicembre quando un movimento del 7°.1 rase al suolo Reggio e Messina con ripercussioni dannose anche a Crotone. Il tremuoto fu avvertito con terrore fino a Napoli: totale ottantamila morti. Secondo il geologo Antonio Infante, la nostra regione “risulta caratterizzata da periodi di attività sismica piuttosto continua e di notevole livello energetico seguiti da più o meno lunghi periodi di relativa quiete. Tutto ciò, pero, non ci deve far perdere la memoria storica di questi eventi naturali, facendoci abbassare la guardia ma deve renderci coscienti del fatto l’intera Calabria, nulla hanno da invidiare alle zone più sismiche del mondo”.Insomma per Infante  è necessario che “le nuove costruzioni devono essere progettate e realizzate al fine di sopportare senza gravi danni i terremoti meno forti e senza crollare quelli più forti”. Al postutto, stante l’imprevedibilità di tali eventi naturali, è meglio prevenire con l’alta tecnologia che intervenire con la Protezione Civile.

 

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Dal terremoto di Reggio e Messina alla Rivoluzione d’Ottobre, la lunga storia dell’incrociatore Aurora

Ci sono simboli che sfidano il tempo, a tal punto da sopravvivere a ciò che li ha resi celebri. Un caso particolare è quello dell’incrociatore Aurora, la nave da cui partì il primo colpo di cannone che diede l’abbrivo alla Rivoluzione d’Ottobre.

Si tratta di un’unità da guerra dal destino particolare, l’unica a fregiarsi del vessillo di Sant’Andrea, prima e dopo quello dei soviet. In questi giorni è ritornata alla ribalta, poiché dopo un restauro, durato due anni, è ritornata al suo posto a San Pietroburgo, dove continuerà ad essere esposta come museo.

La storia dell’incrociatore è legata agli eventi più tragici del Novecento. Un segno particolare lo ha lasciato anche in Italia, dove partecipò attivamente ai soccorsi a Reggio e Messina, dopo il devastante terremoto del 1908.

Nonostante fosse in linea da meno di un lustro, quando giunse nelle acque dello Stretto, l’Aurora vantava uno stato di servizio di tutto rispetto. Progettata dall’ingegnere Ratnik, responsabile dei cantieri navali di San Pietroburgo, era stata impostata nel 1897. Varata l’11 maggio 1900, dopo l’allestimento, era entrata in servizio nel 1903. Lunga 127 metri e larga 17, poteva raggiungere la velocità di circa 20 nodi con un equipaggio formato da 550 marinai agli ordini di 20 ufficiali. Il nome gli era stato dato in onore dell’omonima fregata che, durante la guerra di Crimea (1853 – 1856), aveva difeso con successo la città di Petropavlov. Dopo il varo, era andata a far parte della potente flotta del Baltico. Dalle gelide acque del nord Europa, fu spedita sui tiepidi marosi del Pacifico, dove presa parte attiva al conflitto russo-giapponese (1904-1905). Partecipò anche alla battaglia di Tsushina (27-28 maggio 1905), nel corso della quale la marina nipponica fece strage del naviglio zarista.

L’Aurora fu tra le poche navi a scampare alla falcidia provocata dai siluri del Sol Levante. Colpita da una corazzata e pesantemente danneggiata riuscì a tenersi a galla fino a raggiungere, avventurosamente, il porto di Manila, nelle Filippine. Riparata e riportata in Russia, a partire dal 1907 fu adibita a nave scuola per i cadetti.

In tale veste, il 28 dicembre 1908, si trovava in Sicilia, quando il flagello del terremoto si abbatté su Reggio e Messina. Fu tra le prime unità a portare soccorso alle popolazione delle sue martoriate città. La mattina del 29 dicembre, raggiunse la rada di Augusta dove, secondo i piani emanati dall’Alto Comando di Pietroburgo, avrebbe dovuto incontrare la squadra navale del suo Paese impegnata in un’esercitazione nel Mediterraneo. Trovò ad attenderlo il solo incrociatore Bogatyr, mentre al suo fianco la corazzata Slava, salpate le ancore, si apprestava a partire alla volta di Messina. La sera precedente, ricevuto un cablo contenente la richiesta di portare aiuti immediati, l’ammiraglio Livtinov aveva dato ordine alla corazzata Cesarevic e all’incrociatore Makarov di muovere alla volta della città dello Stretto.

Nelle stesse ore in cui l’Aurora dava fondo alle ancore ad Augusta, le due navi erano già entrate nel porto di Messina ed avevano iniziato a sbarcare uomini e mezzi.

Erano state precedute di poche ore dalle cannoniere Gilijak e Koreek, anch’esse della flotta russa, provenienti da Palermo; il giorno successivo le avrebbero raggiunte la corazzata Slava, due giorni dopo il Bogatyr, mentre l’Aurora si sarebbe diretto su Reggio.

La Cesarevic e il Makarov rimasero stabilmente in porto; la Slava, il Bogatyr e l’Aurora iniziarono a far la spola tra Reggio, Messina e Napoli divenuta retrovia della catastrofe e centro di raccolta dei feriti recuperati dai marinai russi nelle città dello Stretto.

Terminata la missione nel Mediterraneo, a partire dal 1910, iniziò una lunga crociera negli oceani, Pacifico, Atlantico ed Indiano, partecipando, tra l’altro, nel 1911, ai festeggiamenti per l’incoronazione del re del Siam, l’attuale Thailandia. Dopo essere ritornata nella sua base, nel corso della prima guerra mondiale venne impiegata sul Baltico a difesa della città di Riga. Nel 1916 venne fatta rientrare a San Pietroburgo per essere sottoposta a manutenzione straordinaria. Qui, il 25 ottobre del 1917, entrò nella storia facendo partire dal castello di prua il primo colpo di cannone che diede l’avvio alla Rivoluzione d’Ottobre.

Nel 1918, durante la guerra civile, l’incrociatore venne trasferito a Kronstadt e posto in riserva. Le sue bocche da fuoco, una volta smontate vennero, spedite ad Astrakhan dove armarono la batteria della flottiglia rossa del Volga e del Caspio.

Nel 1924 venne schierata nuovamente sul Baltico dove funse da nave scuola. In occasione del decennale della rivoluzione fu insignita dell’Ordine della Bandiera Rossa.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, la colse nella rada di Oraniembaum. Venne, quindi, impiegata a difesa di Leningrado come batteria antiaerea mentre, nel 1941, le sue batterie furono smontate per ordine di Georgij Zukov e furono mandate al fronte insieme ai cannoni della flotta del Baltico per contrastare l’avanzata delle truppe tedesche. Montati su un treno speciale, i cannoni del vecchio incrociatore furono schierati a difesa di Pietroburgo, la città teatro delle sua antiche gesta, ribattezzata nel frattempo Leningrado. L’unità venne gravemente danneggiata dal fuoco dell’artiglieria tedesca, il 30 settembre 1944.

Recuperata nel 1944, al termine del conflitto venne sottoposta ad un lungo e complicato restaurato. Ritornata in linea come nave scuola, nel 1956 venne trasformata in museo galleggiante e collocata sulla Neva, nel punto esatto da cui sparò il famoso colpo di cannone.

Decorata con l’Ordine della Rivoluzione d’Ottobre nel 1968, continuò a far sventolare la bandiera rossa fino al luglio 1992.

Da allora, sul suo pennone garrisce al vento il vessillo navale di Sant’Andrea, lo stesso che oltre cento anni fa, videro fremere i superstiti di Reggio e Messina.  

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Il terremoto del 1908 ed i soccorritori romani a Reggio

Reggio e Messina hanno festeggiato da alcune ore la nascita di Cristo quando, alle 5,21 di lunedì 28 dicembre 1908, una potente scossa scuote i sismografi di tutta Europa e rade al suolo tutto ciò che si trova in un raggio di diversi chilometri. Dei suoi 140 mila abitanti Messina ne vede perire 80 mila, 15 mila rimangono sotto le macerie di Reggio, tanti altri vengono seppelliti dai resti delle povere case nei centri minori.  L’Italia ed il mondo vengono messi al corrente del disastro solo la mattina successiva, quando il Corriere della Sera pubblica la notizia. A darne comunicazione al Governo è la torpediniera “Spica”, costretta a navigare fino a Nicotera Marina, sulla costa Calabra per trovare un telegrafo ancora funzionante. La notizia recapitata al ministro della Marina, l’on. Mirabello, si presenta con il seguente tenore: "Oggi la nave torpediniera Spica, da Marina di Nicotera, ha trasmesso alle ore 17,25 un telegramma in cui si dice che buona parte della città di Messina è distrutta. Vi sono molti morti e parecchie centinaia di case crollate. È spaventevole dover provvedere allo sgombero delle macerie, poiché i mezzi locali sono insufficienti. Urgono soccorsi, vettovagliamenti, assistenza ai feriti. Ogni aiuto è inadeguato alla gravità del disastro. Il comandante Passino è morto sotto le macerie". I primi soccorsi alle due città devastate giungono alcune ore più tardi, all’alba del 29 dicembre con l’arrivo dei marinai della flotta russa in quei giorni impegnati in manovre delle acque del Mediterraneo. Da tutta la Penisola, oltre agli aiuti predisposti dal Governo presieduto da Giovanni Giolitti, arrivano squadre di soccorso frutto della gara di solidarietà nazionale. Al personale della Sanità militare, cui viene demandato il compito di predisporre gli ospedali da campo e fornire il personale medico e paramedico specialistico, si uniscono contingenti di volontari della Croce Verde, della Croce Bianca, di organizzazioni umanitarie e degli ospedali civili. La Croce Rossa e l’Ordine dei Cavalieri di Malta mettono in funzione anche dei “Treni Ospedale” che si occupano della cura e del trasferimento dei feriti in altre città. Nelle ore caotiche e tormentate del post terremoto Roma assolve il proprio compito di capitale del Regno. Dalla Città Eterna, oltre alle direttiva, partono treni carichi di aiuti. Le squadre di soccorso provenienti dal nord giungono in treno a Roma, da qui proseguono per Napoli da dove  partono le navi sulle quali viaggiano soccorsi e soccorritori. I soccorritori romani concentrano la loro attività soprattutto a Reggio e su buona parte della costa calabra. A poche ore dalla tragedia, Giovanni Cena, per le colonne di Nuova Antologia, da Palmi, una delle cittadine calabresi maggiormente colpite dal terremoto, scrive: "Il tenente, Bodeo, romano, ch’era qui in distaccamento, dopo aver salvato i suoi, ha, con 500 assicelle per letti dei soldati, fatto costruire tredici baracche". Ai militari, che per dovere d’ufficio sono chiamati ad assolvere le mansioni dei soccorritori, si associano centinaia di civili. I romani non si risparmiano nella generosa opera d’aiuto, tanto che in molti casi sono tra i primi a giungere sui luoghi del cataclisma. Come riporta Nuova Antologia "la squadra di Roma, condotta dal Ballori e dal Rossi-Doria, fu la prima ad accorrere a Reggio". Tanti i superstiti strappati alle macerie dall’abnegazione di uomini che compiono fino in fondo il loro dovere. Sull’edizione dell’1-2 gennaio 1909 il quotidiano Roma riporta una corrispondenza spedita da Reggio Calabria il 31 dicembre nella quale si segnala: "Vi confermo ora che Reggio è quasi completamente distrutta. Si calcola che appena da un terzo della popolazione ascenda il numero dei superstiti. Continua l’opera di salvataggio compiuta con grande abnegazione. La truppa è giunta ieri da Napoli. Il servizio sanitario è disimpegnato dalla 9a compagnia di sanità di Roma e dalla Croce Rossa di Napoli". Sul primo dispaccio spedito per le colonne del Corriere della Sera l’inviato Nardini scrive: "Mentre scrivo qui accanto la folla urla disperatamente invocando prontezza di soccorsi. Restare tra queste rovine significa una sofferenza indicibile. I soldati e i marinai fanno sforzi inauditi, benché ormai affranti; anche le suore di carità sono eroiche, e i pompieri di Roma fanno miracoli. Ma ormai tutto è distrutto e nessuna casa è servibile. I morti sono putrefatti, i feriti aggravati, i vivi sconvolti". Tanti i riconoscimenti ai soccorritori romani segnalati sui maggiori organi d’informazione. Del resto le squadre romane non limitano i loro interventi ai centri costieri, spesso si spingono nei paesi più remoti e meno accessibili. A Scilla, scrive Giovanni Cena, "Troviamo, oltre i medici inglesi, una squadra di coraggiosi studenti venuti da Roma, e la Croce Verde di Milano. Arrivati stamani, hanno già visitato i paeselli del monte, Melia, Solano. Ci danno delle cifre di morti e di feriti". A distanza di giorni nelle situazioni più disagevoli e precarie i soccorritori romani continuano a prodigarsi per portare avanti la loro opera. "Anche oggi, quarto giorno della catastrofe – scrive Olindo Bitetti - furono scoperti nuovi superstiti sotto le macerie. I pompieri romani compirono i medesimi eroismi dei russi". Nel marasma di polemiche che accompagna i soccorsi anche la stampa anti governativa evidenzia la presenza e l’attività dei soccorritori romani. L’Avanti!, organo del Partito socialista, del 4 gennaio 1909 a firma di Tommaso Rossi-Doria riporta la presenza a Reggio, già la mattina del 30, dei "medici romani Mancinelli, Cherubini, Ricci [che] hanno subito cominciato a medicare feriti". Ai fiumi d'inchiostro che hanno  giustamente celebrato le imprese dei marinai russi a Messina, quasi mai è corrisposta altrettanta solerzia nel narrare la storia a volte dimenticata di medici, studenti, popolani e soldati romani che sulle rive dello Stretto portarono il vessillo e la solidarietà della capitale d'Italia.

Reggio ed il terremoto del 1908: morte, distruzione e abbandono

E’ trascorso oltre un secolo dal devastante terremoto che il 28 dicembre 1908 rase al suolo Reggio e Messina. A rammentarne la ricorrenza, più che gli uomini, sono le periodiche ed inquietanti scosse telluriche che si susseguono a largo delle coste calabresi. Segnali con cui le forze della natura sembrano intimare a non dimenticare. Obbedienti, ricordiamo ciò che accadde in Calabria, in particolare a Reggio e dintorni. Dopo il sisma, la città dello Stretto dovette attendere due giorni ed una notte prima che giungesse una qualche forma d’aiuto. Tra la fatale alba del 28 dicembre ed il tragico tramonto del giorno successivo, mentre su Messina convergevano le navi del soccorso internazionale, la città calabrese rimase in balia di se stessa, annichilita, priva di aiuti, preda di approfittatori e ladri. Amaro e impotente fu il commento scritto, a pochi giorni di distanza, dall’inviato della Stampa di Torino, Giuseppe Borghese: “ la povera Reggio è rimasta seconda anche nel compianto degli uomini: la funebre gloria di Messina ha oscurato la sua e perfino la notizia della sua morte tardò più lungamente a propagarsi. Il silenzio tragico che avviluppò per dodici ore Messina durò quasi ventiquattro per Reggio”.  Ai superstiti fu negata anche la soddisfazione di raccontare le proprie peripezie : “ a Reggio i giornalisti son venuti correndo, sono ripartiti correndo: perciò i superstiti sono insoddisfatti, avendo dovuto reprimere quell’avidità di raccontare che è l’unica consolazione di coloro che hanno sofferto le torture e gli spasmi di un inferno terrestre”. Tuttavia, grazie alle “frettolose” cronache di quei primi giornalisti, abbiamo un quadro, per quanto confuso, di quel che avvenne in città nei giorni successivi al terremoto. Sappiamo, ad esempio, che i primi soccorritori giunsero a piedi da Lazzaro, seguiti a breve distanza da una squadra agricola di Cirò, composta da 150 operai armati di vanghe e picconi. “Questa squadra ebbe contegno mirabile e diede aiuto alle migliaia di feriti giacenti presso la stazione. Gli stessi operai provvidero anche allo sgombero della linea ferroviaria favorendo la riattivazione delle comunicazioni ferroviarie. Appena giunti furono circondati da una turba di affamati ed il pane da essi portato venne a loro strappato letteralmente dalle mani, sicché essi dovettero patire la fame fino al giorno 30 quando cominciò l’arrivo delle navi”. Quelle navi però vagarono per giorni prima di trovare nuovi punti d’approdo. Le banchine, infatti, erano state spazzate via da tre gigantesche onde di maremoto generate dalle ripercussioni della scossa sul fondale marino. Provenienti da nord-ovest, dopo aver investito Ganzirri e la costa settentrionale di Messina, le onde si erano infilate nell’imbuto dello Stretto e si erano abbattute con inaudita violenza sulla costa occidentale dell’estrema Calabria. Nelle cittadine rivierasche, a iniziare da Palmi e giù fino a Reggio, come ebbe modo di rilevare il corrispondente dell’Hamburger Fremdenblatt, “la marea era penetrata fino ai primi piani e, carica di bottino in vite umane e beni, velocemente, si era poi rifugiata, così come in passato facevano i saraceni, nel bacino del mar Tirreno”. A Cannitello, su 2000 residenti se ne salvarono meno di 40; il villaggio dei pescatori della Chianalea di Scilla fu sbriciolato e spianato dalla marea. Il 90% dei suoi abitanti scomparve tra le onde. Maremoto e incendi fecero la differenza, ma accomunarono nella distruzione Reggio e Messina. Quel poco che lungo la costa reggina aveva resistito al terremoto fu travolto dalle onde. Su tutta l’area dello Stretto la pioggia fredda e battente aggiunse disagio a disagio, inondando di fango le rovine e ostacolando l’opera di ricerca dei superstiti. Le stazioni ferroviarie di Reggio e Villa San Giovanni erano crollate, il piazzale della stazione di Villa era sprofondato di circa due metri e il maremoto aveva travolto i treni in transito riducendoli ad ammassi di ferraglia. Le onde avevano scagliato barche da pesca e battelli in piena campagna, ben oltre i terrapieni della linea ferroviaria tirrenica. Il ponte in ferro di Pellaro era stato sollevato di peso e depositato sul torrente. Per oltre un mese, passeggeri e merci furono costretti a fare la spola tra i treni in arrivo e in partenza sulle due testate della linea. La maggior parte degli edifici pubblici di Reggio era crollata e dell’edilizia privata si erano salvati solo i pochi fabbricati bassi, costruiti nel rispetto delle norme antisismiche varate dopo il terremoto del 1783. Particolarmente gravi per conseguenze ed entità delle vittime, i crolli dell’Ospedale Civile e della Caserma Luigi Mezzacapo. Il crollo del nosocomio, nel quale perirono 260 dei 280 degenti, privò la città del luogo deputato a fornire cure ed assistenza. L’unica forza militare presente in città, la sola che avrebbe potuto dare un aiuto immediato, era stata annientata dal crollo della caserma Mezzacapo. Dei 600 soldati di leva del 22° Reggimento acquartierati nella caserma, ben 500 erano morti sotto le macerie insieme alla maggior parte dei loro ufficiali. Fu solo la mattina dell’ultimo dell’anno, con l’arrivo in città dei pompieri di Roma, dei volontari della Croce Rossa di Napoli e delle squadre di soccorso partite dalla Toscana, dalla Lombardia e dall’Emilia, che si organizzarono i primi soccorsi e si eressero le prime tendopoli. L’Ordine dei Cavalieri di Malta provvide a organizzare treni-ospedale adibiti al trasferimento dei feriti in altre città. Sulla costa reggina, intanto, operava già la squadra navale inglese i cui ospedali da campo stridevano per lindore e organizzazione nel marasma generale. Pur tra le inevitabili polemiche, con la proclamazione della legge marziale e l’affidamento all’Esercito delle funzioni di coordinamento dei soccorsi, fu poi avviata la fase di normalizzazione. Ma la città, distrutta, ci avrebbe messo trent'anni per risollevarsi.    

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