La “Suriaca a pusiedhu”, dai certosini ai briganti

  • Written by Bruno De Francesco - Chef ristorante ZenZero - Serra San Bruno
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Respirare a pieni polmoni l’aria che profuma di carbone, fare lunghe passeggiate lungo il viale alberato della Certosa, mangiare la neve ed emozionarsi ancora, anno dopo anno, guardando “lu ciucciu” muoversi in modo buffo su quel palco alla festa di san Rocco, sono sicuramente le sensazioni che un buon serrese DOC non finirà mai di amare. Ma amare il proprio territorio significa anche educare, sensibilizzare e soprattutto valorizzare all’esterno ciò che la natura, la cultura e la storia di quel determinato luogo offrono.  Durante le mie costanti ricerche riguardanti la cultura enogastronomica calabrese, mi sono spesso chiesto quali fossero le peculiarità che la tradizione del mio paese potesse definire delle vere e proprie “chicche gastronomiche”.

·         Porcini..ok, nei periodi giusti dell’anno, preferibilmente non rumeni.” J

·         Le ortiche, (ardichi) dal meraviglioso sapore e dall’assurda consistenza vellutata una volta cotte.

·         I fiori di sambuco (pipi di maju), immancabile ingrediente nella famosa “pitta china”.

·         Li “viedhiruni”, simili come sapore agli asparagi, ideali nella frittata.

…e poi broccoli, rape, patate, fagioli…. E che fagioli…

Dicevamo, l’amore per la propria terra significa dunque valorizzare ciò che di buono offre… Me li fecero assaggiare per la prima volta, in una tiepida sera autunnale, Sergio e Salvatore, ne portarono un barattolo (gia cotti), non ancora etichettato e mi chiesero di fargli sapere cosa ne pensassi a riguardo. Sinceramente, un po’ di tempo prima, avevo visto delle foto sul social facebook dove un bel gruppo di amici, “cirnianu allu cirnigghiu la suriaca a pusiedhu”, e già da allora la mia curiosità era alle stelle. Quel gesto semplice, ma meravigliosamente vero, fatto di storia, tradizione e amore che riporta a quando tra le stradine del centro storico c’era chi ancora, (su grandi lenzuola o tovaglie), “amprava” la qualunque. C’era di tutto, dai pomodori ai ceci, alla lana lavata per poi riempire di nuovo i materassi, “li riesti di pipiredhi abbruscenti”, (peperoncini piccanti appesi al filo), queste le cose che ricordo, di certo un serrese DOC ne potrebbe raccontare altre mille almeno. Suriaca janca a pusiedhu dunque (fagioli a pisello delle Serre Calabre), chiamati così proprio per la loro forma rotonda e piccolina a “pusiedhu” appunto.  Chiudendo gli occhi e portando il cucchiaio alla bocca un profumo di terra ti ipnotizza l’olfatto, lo stesso odore lo ritrovi subito dopo in bocca, sapore di terra, zucchero e ceci..e acqua... Mineralità assurda come se in bocca avvenisse un esplosione di terra e acqua. Questo fagiolo riesce ad emozionare i sensi , unico nel suo genere come unica è la storia che lo caratterizza, si dice infatti che furono proprio i nostri amati padri certosini ad inserirlo nell’alimentazione di queste zone. In seguito all’avvento dei monaci dell’ordine istituito da San Bruno di Colonia proprio a Serra San Bruno, il territorio fu infatti arricchito da una varietà considerevole di alberi da frutto oltre che da piante ad uso medicinale. Vi chiederete come faccio ad avere tutte queste informazioni probabilmente… ??? Semplice!!! Si chiama “Terra Margia”, l’encomiabile progetto ideato e lanciato dall’associazione “il brigante” che mira a recuperare tutti quei terreni oramai incolti per valorizzarne i frutti dalle elevate qualità. Economia solidale quindi dove,nuovi e vecchi agricoltori, vengono impiegati  per realizzare questa serie di prodotti ortofrutticoli poi immessi sul “mercato” ad un prezzo equo. Rilanciare e nutrire il nostro territorio è questo il succo del progetto, per riscoprire e valorizzare tramite  questi meravigliosi gioielli le “terre marge”. Adoro non cuocerlo troppo, lasciandolo quasi croccante, per sentirne la consistenza zuccherina e amidosa, gli abbinamenti migliori li ho sperimentati con crostacei e molluschi, (gamberi, scampi, polpo, vongole), in zuppe autunnali con crostini di pane e buon olio evo. Si sposa benissimo anche con la rapa e una leggera punta di piccante. Il mio consiglio però, è sempre uno, assaggiatene una manciata senza nemmeno condirla, magari dopo averla cotta “ntralla pignata” alla “ciminera” o sulla “cucina economica”. Ah, se mentre guardate il vostro bel piatto pieno di fagioli e rape vi verrà in mente l’immagine dei nostri amati certosini immersi tra i boschi, non preoccupatevi.. A me è gia successo…

Alchimie…

Ringrazio l’associazione “il Brigante” per lo spunto e per la magnifica iniziativa.

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