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Fusione nelle Serre, favorevole il sindaco di Brognaturo

Si levano voci di condivisione rispetto al progetto di fusione dei Comuni di Serra San Bruno, Simbario, Spadola e Brognaturo. Ed è proprio il sindaco di quest’ultimo centro, Pino Iennarella, che spezza una lancia per un’idea innovativa che apre scenari nuovi. “Ben venga questa opportunità – spiega il primo cittadino – perché abbiamo solo da guadagnarci. Sono nettamente favorevole. Diventare un Comune che sfiora i 10 mila abitanti, dalle grandi prospettive e dalle grandi potenzialità, significa stare al passo con i tempi. Aumenterebbe enormemente il nostro potere contrattuale sia dal punto di vista economico che da quello politico”. Si percepisce una certa affinità con il pensiero del collega Bruno Rosi, poiché anche Iennarella guarda con attenzione alla possibilità di “armonizzare il corretto utilizzo del patrimonio boschivo” e ai “vantaggi” di carattere finanziario. Dover gestire “un territorio vastissimo” comporta, però, notevoli responsabilità e richiede una classe dirigente all’altezza. “Chi amministrerà – sottolinea al proposito Iennarella – dovrà capire le esigenze di tutta la popolazione ed ecco perché ritengo di considerevole rilevanza la fase dell’informazione che dovrebbe precedere il referendum”. Su questo aspetto, il sindaco del piccolo paese montano insiste e specifica che “sarebbero necessari diversi seminari per consentire ai cittadini di discutere e per comprendere cosa si aspettano e cosa vorrebbero realizzare. La base di ogni ragionamento deve essere che il territorio appartiene ad ogni cittadino”. Indispensabili diventano dunque la costituzione di “comitati promotori” e le “attività delle associazioni” che dovrebbero accompagnare questo processo. Al momento, anche a causa della distanza, non sembra rientrare nei piani il coinvolgimento di Mongiana, Fabrizia e Nardodipace.

Rosi: “La fusione fra Serra, Spadola, Brognaturo e Simbario è un percorso da attuare”

L’idea di una fusione fra Comuni lanciata dal Redattore è entrata di forza nell’agenda politica di diversi amministratori calabresi. E dopo Giuseppe Pitaro e Gregorio Tino, è Bruno Rosi ad esprimersi in merito, riconoscendo i benefici generati da un’operazione di aggregazione. Il primo cittadino ha intenzione di muoversi subito predisponendo i passaggi necessari per allargare l’area della condivisione e per costruire qualcosa di concreto. Ad essere parte attiva, oltre a quello di Serra San Bruno, sarebbero i Comuni di Spadola, Brognaturo e Simbario. È una prospettiva quasi naturale: un pugno di chilometri separa i loro centri storici; le loro tradizioni e la loro cultura si sovrappongono e si intersecano; la popolazione complessiva è di poco meno di 10 mila abitanti. Gli obiettivi da raggiungere, che sono quelli di “ottimizzare la gestione dei servizi” e di ottenere più congrui “trasferimenti erariali”, paiono poter prevalere sulle rinunce in termini di autonomia, che sono considerate marginali. “Già in precedenti occasioni – afferma il capo dell’esecutivo della cittadina della Certosa – avevo avviato una discussione preliminare su questo argomento con i sindaci di Spadola e Brognaturo, ora quel discorso può essere ripreso”. I tempi sembrano maturi e Rosi sostiene di avere l’intenzione di farsi “promotore di un nuovo incontro, coinvolgendo anche il sindaco di Simbario, per verificare la sussistenza dell’effettiva volontà in questo senso, per adottare idonee iniziative per informare le comunità ricadenti in questo ambito e per approfondire il pensiero dei cittadini”. Nella fattispecie del comprensorio delle Serre vibonesi ci sono poi rilevanti aspetti specifici perché, come spiega Rosi, “la fusione ci consentirebbe di adottare efficaci strumenti per avviare un vero ed armonico sviluppo del territorio e, in particolare, per valorizzare e sfruttare correttamente l’immenso patrimonio boschivo”. Le ricadute, dal punto di vista economico, sarebbero dunque consistenti visto che ai risparmi derivanti dalla riduzione dei costi di amministrazione si sommerebbero potenziali forme di guadagno scaturenti dall’attuazione coordinata di piani di crescita. Maggiori risorse che potrebbero trasformarsi in un migliore funzionamento degli Enti (o meglio, a quel punto, dell’Ente), in più occasioni per il rafforzamento dell’apparato produttivo e per la creazione di posti di lavoro.

Quei due francesi uccisi a Serra e seppelliti a Spadola

Nelle lunghe e dure vicende della storia, due soldati morti possono non rappresentare molto. Non rappresenterebbero tanto, neppure, se venissero inseriti nel contesto, più circoscritto, delle guerre napoleoniche o del “decennio francese”  nel Regno di Napoli. Possono rappresentare molto, invece, quando il teatro in cui hanno perso la vita non è un campo di battaglia, bensì un pacioso centro abitato, famoso più per le odi a Cristo che per gl’inni a Marte. Il luogo in questione è Serra San Bruno, dove, il 2 marzo 1811, trovarono la morte due soldati francesi.

Il fatto è riportato nella “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice. Il retroterra della storia rimanda al saccheggio compiuto dai briganti nel 1807. Per evitare che l’episodio si ripetesse, il comando francese aveva deciso di dislocare a Serra un congruo numero di gendarmi, posti agli ordini del “celebra (sic!) Voster”.

I nuovi arrivati, come spesso accadeva con la soldataglia francese, non dovevano essere per nulla teneri con la popolazione civile. Voster, infatti, viene definito “uomo crudele, intrattabile, fiero, e ladro non dissimile alla Brigata di suo comando”.

La guarnigione francese, quindi, doveva essere composta, per la gran parte, da ribaldi interessati a cogliere tutti gli agi connessi alla loro condizione di occupanti. Tanto più, che i soldati transalpini “non accorrevano” neppure “alle Spedizioni” contro i briganti, “ma restavano nel paese a commettere mille bricconerie”.

I gendarmi, tanto restii a prendere parte alle attività condotte dalla Guardia Civica, erano, invece, velocissimi a mettere le mani su qualunque cosa desiderassero. A testimoniarne la rapacità, un episodio accaduto nei primi mesi del 1811, in prossimità della “Gurna di li bufali”, dove, nel corso di una delle tante operazioni condotte in quel periodo, gli uomini della Guardia Civica, erano riusciti a sbaragliare un gruppo di briganti ed a sequestrare un consistente bottino; “le quali cose tutte portate a Serra furono prese dal sud.to Voster e sua Brigata, restando alla Civica il trapazzo di averle prese”.

In questo contesto, incalzati dall’azione repressiva condotta dai militi serresi, il 2 marzo, tre briganti, per il tramite di “Raffaele Timpano del Paparello”, un “villano di Spinetto”, chiesero alle autorità cittadine un salvacondotto. Per uno strano scherzo del destino, quel giorno, in assenza di Voster il comando della piazza era stato affidato ad un tenente, tale Gerard. Il povero Timpano, probabilmente, indeciso sul da farsi, si era rivolto al giudice di pace, Bruno Chimirri, il quale accompagnato dal comandante della Guardia Civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, andò a cercare il tenente Gerard. Lo trovò nel suo alloggio, in compagnia del maresciallo Ravier.

I due, evidentemente, abituati a tenere un contegno tutt’altro che marziale, avevano riportato la peggio da un lauto convivio con Bacco. Completamente incapaci di analizzare la situazione, consegnata una pistola ciascuno a Chimirri e Peronacci, nonostante i cauti suggerimenti dei serresi, si avviarono verso la casa in cui i tre briganti aspettavano il salvacondotto.

Alticci ed altezzosi com’erano, arrivati sul posto, cercarono di fare irruzione, ma non ebbero il tempo di varcare la soglia della porta d’ingresso che vennero freddati a colpi di schioppo. Nel frattempo, a dare man forte, erano arrivati, gli uomini della Guardia Civica che, al termine di un sanguinoso scontro a fuoco, costato la vita al milite Domenico Jorfida, riuscirono ad uccidere i tre briganti. Ritornato al comando ed appresa la notizia, Voster dovette andare su tutte le furie, al punto da ritenere Serra, indegna di accogliere le salme dei suoi soldati. Dispose, quindi, di “donare” quei due corpi straziati dalle pallottole brigantesche alla comunità spadolese, affinché li inumasse nella sua chiesa. Al lungo corteo che accompagnava le salme di Gerard e Ravier fino a Spadola, presero parte i militari francesi, i “cittadini” di Spadola, nonché quelli di Simbario e Brognaturo che avevano reclamato, invano, ”l’onore” di poter avere “fra loro i due Campioni”.

La vicenda assunse tratti, farseschi, quando, restaurati i Borbone, gli abitanti di Spadola trovarono imbarazzante custodire nella loro chiesa i corpi di due nemici della corona. Così, corsero ai ripari ed in maniera piuttosto spiccia, li “dissotterrarono, e li buttarono nel fiume”.

Memori dell’alterigia con la quale, al grido di “campioni” avevano accolto le salme al tempo di Voster, i “Maestri ferrari delle forge della via di S. Rocco” ogniqualvolta vedevano arrivare uno spadolese, un simbariano o un brognaturese, “lasciavano il martello, e correndoli dietro gridavano e ripetevano Campioni, Campioni: tantoché i spadolesi specialmente, nel venire a Serra: eran costretti entrare per la via dello Schiccio”.

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I "discoboli" del formaggio

SPADOLA – Con l’approssimarsi del carnevale, il borgo della Minerva mette in scena, ogni anno, una delle sue tradizioni più avvincenti e popolari, il gioco del formaggio. Poco o nulla si sa circa l’epoca in cui gli spadolesi hanno iniziato ad usare il formaggio a scopo ludico. Non meno incerte le origini del gioco che, alcuni studiosi fanno risalire addirittura all’epoca etrusca. Un’ipotesi avanzata sulla base del ritrovamento nella “Tomba dell’ olimpiade”, a Tarquinia, di un affresco nel quale è ritratto un atleta nell’atto di lanciare una forma di formaggio. Fonti meno aleatorie ed interpretative ne attestano la diffusione presso gli antichi romani che lo praticavano con il nome di “tronchus”. I discendenti di Enea utilizzavano, infatti, quale surrogato del formaggio, un disco di legno. La pratica, seppur a macchia di leopardo, si è diffusa in molti paesi dell’Italia centro meridionale, nel corso del medioevo, quando a praticarlo erano prevalentemente le persone appartenenti agli strati più umili della popolazione, tanto da essere considerato lo “sport dei poveri”. Al di là delle notizie di carattere storico, quel che più conta è il rinnovarsi di una tradizione che, a Spadola, prende il via nel giorno di carnevale. La lunga serie di dispute, che anima ed appassiona decine di spadolesi appartenenti a tutte le classi d’età entra nel vivo con il ritrovarsi dei  giocatori in prossimità della “Cona”, l’ara votiva, dedicata alla Madonna, situata al centro del paese. Seguendo il collaudato canovaccio composto da regole non scritte, i protagonisti iniziano le loro partite con la selezione dei giocatori necessari a formare le due squadre che danno luogo ad ogni singola sfida. Una selezione che avviene per mezzo “ di lu tuaccu”, ovvero la conta. Una volta formate le squadre, composte, in genere, da quattro giocatori, prende il via la contesa. Ciascun concorrente, inizia il proprio turno di lancio servendosi di un lungo laccio, le cui estremità sono avvolte, da una parte, attorno al formaggio e dall’altra attorno al dito indice del lanciatore. Grazie all’ausilio del legaccio, il formaggio sfrutta al meglio l’energia cinetica ed inizia la propria corsa appena tocca terra. A turno, i tiratori delle due squadre cercano di spingere il formaggio il più lontano possibile. I concorrenti successivi ai primi due, iniziano il lancio dal punto esatto in cui si è arrestato il tiro del compagno di squadra che l’ha preceduto. La compagine che per prima, a parità di lanci, raggiunge la meta, collocata alle porte del centro abitato di Simbario, si aggiudica la prima manche. Durante la seconda frazione di gioco, viene coperto il percorso inverso. Per aggiudicarsi la sfida è necessario vincere entrambe le manche. In caso di pareggio, invece, si da luogo ad vero e proprio spareggio che consiste nell’effettuare  un lancio per ogni componente delle due squadre. A parità di lanci, vince chi è riuscito a portare il formaggio nel punto più lontano. Il gioco, come spesso succede, subisce anche delle brusche interruzioni. Oltre alle avversità atmosferiche che, comunque, non fermano i giocatori, uno degli inconvenienti più frequenti e fastidiosi è rappresentato dalla rottura della forma di formaggio. Capita, non di rado, che la forma di formaggio, generalmente pecorino, non sia sufficientemente stagionata, quindi, poco adatta a sopportare le numerose sollecitazioni cui è sottoposta. La conseguenza, ovvia, è che sovente va in frantumi, prima che le squadre abbiano portato a termine la sfida. In tal caso, è necessario ricorrere a “lu ruadhu”, una riproduzione esatta, ma in legno, della forma di formaggio. Nel rispetto della tradizione, le sfide vanno avanti, tutti i giorni, fino a martedì “di l’azata”, ovvero martedì grasso. Come ogni anno, concorrenti e spettatori saluteranno la fine dei giochi davanti ad un ricco e movimentato desco sul quale, l’immancabile formaggio, rappresenterà solo l’antipasto di una luculliana cena, caratterizzata dalle immancabili e appetitose polpette di carne al sugo.

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