Giorgio La Pira, tra fede e politica

In questa rubrica, finora dedicata solo a illustri e saggi politici calabresi, veri cristiani che hanno applicato il Vangelo in politica, mi par d’obbligo ospitare un politico cattolico che non appartiene alla nostra terra, ma pur sempre meridionale che ha vissuto e santamente ha operato a Firenze, il siciliano Giorgio La Pira (1904 – 1977). Un cattolico che non ha mai smesso di esserlo da deputato, da esponente di governo e da sindaco. Insomma un cattolico impegnato che non smette mai di essere  cristiano e cattolico. Cosa che non avviene oggi. Anzi sono in molti che si proclamano cattolici o cristiani nel bel mezzo di una campagna elettorale. Come durante una campagna elettorale si utilizzano, a vario modo, i grandi e “poveri” uomini della storia del cattolicesimo sociale e poi ce se se dimentica. Ma Giorgio La Pira sono in molti a ricordarlo ma bisognerebbe farlo secondo il comandamento “non nominare il nome di Dio invano”. Un po’ dappertutto, come a Crotone, da qualche anno, e guarda caso nel pieno di una tornata elettorale,  si vanno fondando Circoli che portano il suo nome organizzando anche qualche sporadica conferenza e nulla di più. Ci si fregia del nome del santo politico La Pira ma nessuno ne applica l’insegnamento, hanno altro da pensare e fare. Del resto perché ricordarlo? Gli somigliano poco nulla e il santo uomo fiorentino di adozione si rivolterebbe nella tomba, se non l’ha già fatto. La Pira ebbe il Vangelo come strumento di lavoro accompagnandosi sempre alla preghiera. Modus vivendi strano per un politico? Per tanti, tantissimi di oggi sì. Per quelli della Casta sì. Quando entrò in Palazzo Vecchio a Firenze, da sindaco, presentò il suo programma: “Una città dove ci sia per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per pensare ( la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)”. Programma da sognatore che La Pira attuò con realismo e concretezza. Nel capoluogo toscano le sue amministrazioni sono state le più sane e le più efficienti. Dunque è possibile essere un buon politico senza dimenticare o rinnegare le proprie radici. Quando La Pira diceva di voler essere dalla parte dei poveri, ci stava da povero. Non possedeva che lo stretto necessario e conosceva, condividendole, le attese dei poveri. Una volta disse a Fanfani: “Cambiate la legge perché io non posso cambiare il Vangelo”. Ancora a Fanfani in una lettera del 1955: “Ci vuole coraggio: anche qui l’Evangelo ammaestra, ci vogliono uomini disposti a servire e non ad  essere serviti. Economia rinnovata a misura d’uomo; classi dirigenti nuove e uomini adatti a questa società nuova, che non deve essere più capitalista ma che deve portare i segni visibili di un’aspirazione cristiana […] Chi edifica la città dell’uomo, edifica la città di Dio”. Utopia? Forse! Programma irrealizzabile? Certo che no! Al Presidente della Repubblica Einaudi che gli diceva che il Vangelo è solo un libro di pietà, La Pira senza scomporsi, ribattè che il “Vangelo è un manuale di ingegneria, perché lì dentro c’è tutto, trovi quel che devi fare”. Ricordo che una volta Mons. Agostino,  il compianto arcivescovo della Diocesi  di Cosenza-Bisignano e della Chiesa di Crotone-Santa Severina, disse che è facile essere democratico, difficile essere cristiano. Erano i tempi dei democristiani! Come dire, ed è vero, che non è facile fare politica da cristiani. Occorre fantasia, umiltà, capacità di studio, capacità di ascolto e di servizio, impegno serio, duro. E soprattutto, che ne è la somma, in politica non si entra per tornaconto personale. Una volta l’umile La Pira confidò: “Alla sera affiora nel mio esame di coscienza questa popolazione che aspetta di avere la casa, di avere il lavoro dal quale dipende la sua vita fisica e spirituale, di avere l’assistenza”. E non solo. “Quando la situazione è burrascosa, quando c’è oscurità, una sola è la cosa che va fatta. Respice stellam: alzare gli occhi al cielo e fissare la luce di Dio! Una è la verità che ci guida, questa: che niente avviene nella nostra vita che non sia in vista della nostra personale santificazione”.  Sono queste espressioni finora inedite contenute in un ampio carteggio epistolare indirizzato alla figlia spirituale Paola Ramusani tra il 1940 e il 1975. Carteggio diventato libro, nel 2011, arricchito da una prefazione del cardinale Silvano Piovanelli. Al postutto, non è eresia se si afferma che il deputato e sindaco, unanimemente “santo” di Firenze di origini meridionali è uno di quei grandi laici cristiani del ‘900 che hanno saputo e voluto testimoniare il loro apostolato di fede nella quotidianità; che hanno saputo e voluto percorrere il cammino politico tra la gente, nelle borgate come nei salotti, sempre e comunque col Vangelo in mano. E sono tanti, tantissimi, i politici dei nostri giorni che dovrebbero riflettere. Ah, se non ha ragione quel tizio che rimpiange i tempi di Giorgio La Pira & C.!

La Trasversale delle Serre non è la "Strada dritta"

Parafrasando una nota battuta attribuita a von Schirach, “quando sento parlare di ‘Trasversale delle Serre’ mi viene da mettere mano alla pistola”. A distanza di quasi mezzo secolo, esattamente 49 anni, da quando venne redatto il primo documento nel quale se ne parlava ufficialmente, la “Trasversale” viene, ancora, utilizzata per formulare promesse cui nessuno crede più. Si spera almeno che, qualora un giorno dovesse essere completata, nessuno osi presentarsi con le forbici in mano per tagliare nastri inaugurali. Al contrario, per sfuggire alla vergogna, la scelta più saggia sarebbe aprirla al transito di notte. Quella della “Trasversale” è, infatti, la storia di un’opera tenuta nel limbo, una storia che rappresenta, per certi versi, il paradigma di come vanno le cose nel nostro Paese. A far montare l’indignazione, il raffronto con opere ben più imponenti costruite a tempo di record, in anni in cui le tecnologie non erano certo quelle di oggi. Una in particolare, suscita insieme orgoglio e sdegno. Orgoglio per la rapidità con cui è stata realizzata, sdegno se la si accosta alle infinite vicissitudini della “Trasversale”. L’A1, meglio nota come “Autostrada del sole”, che collega Milano a Napoli, ha una storia molto diversa da quella della “Trasversale”. Una storia raccontata, nel 2011, da Francesco Pinto, in “La strada dritta”, un bel libro sospeso tra saggio e romanzo. I cantieri per la sua realizzazione vennero aperti il 19 maggio 1956. Prima, però, l’amministratore della Società autostrade, Felice Cova, insieme ad un gruppo d’ingegneri, era volato negli Stati Uniti per studiare le autostrade americane. Una volta realizzato il progetto c’era da trovare i soldi. Un’incombenza cui pensò l’Iri che, investendo 272 miliardi di lire, rese possibile la costruzione dell’opera che avrebbe rivoluzionato l’Italia. Eppure, non mancarono i bastian contrari, quanti sostenevano che si trattava di uno spreco, di un’opera superflua, inutile in un Paese in cui le automobili in circolazione erano ancora pochissime. Discorsi miopi che si sentono ripetere ancora oggi ogniqualvolta si pensa di progettare grandi opere destinate a migliorare il presente ed anticipare il futuro. Per fortuna l’Italia di quegli anni era meno pusillanime dell’attuale ed i lavori per l’edificazione della prima autostrada italiana del dopoguerra presero il via, in barba ai menagramo. Così, dopo appena, due anni, nel 1958, l’allora capo del Governo Amintore Fanfani inaugurava il primo tratto da Milano a Parma. Per il completamento del tratto successivo si dovette attendere poco più di un anno. Conoscitore dei vizi italici, nel timore che i fondi fossero insufficienti, Cova aveva fatto avviare i lavori sia da Nord che da Sud. Così, nel 1959 venne aperto al traffico il tratto compreso tra Napoli e Capua. L’anno successivo gli automobilisti potevano viaggiare comodamente da Bologna a Firenze; mentre nel 1962 venne terminata la Roma - Napoli. Domenica 4 ottobre 1964, dopo il completamento della Chiusi – Orvieto, nel giorno di San Francesco, patrono d’Italia, il presidente del consiglio Aldo Moro inaugurava l’intero percorso. Il 9 dello stesso mese, la “Settimana Incom”, scriveva: “I maggiori tecnici del mondo, che l’hanno giudicata un capolavoro d’ingegneria stradale, ce la invidiano”. Non si trattava di un esagerazione. Per costruire l’opera, progettata e realizzata interamente da italiani, era stato necessario sfidare la natura, costruendo 38 gallerie e 853 tra viadotti e ponti. Una dimostrazione che quando c’è la volontà politica non esistono ostacoli insormontabili. Nel discorso inaugurale, Aldo Moro, aveva detto “non siamo un popolo in decadenza […]. E’, la nostra, una società viva, che si trasforma, che cerca nuovi equilibri economici, sociali e politici”. Un’Italia completamente diversa dall’attuale, dove non si riesce neppure a tappare le buche, figurarsi a completare la “Trasversale”.

 

 

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