La Ciclovia dell’Appennino passa dai luoghi magici del Parco delle Serre e punta su un nuovo anello che coinvolgerà la storica fonte di “Acqua Mangiatorella”

Domani giungerà a Serra San Bruno, nel cuore del meraviglioso scenario del Parco delle Serre, la 34^ tappa dell’Appennino Bike Tour – il Giro dell'Italia che non ti aspetti: un’importante progetto, duemilaseicento chilometri dalla Liguria alla Sicilia, più di trecento comuni attraversati e 44 comuni tappa, 26 parchi e aree protette. Sono questi i numeri di Appennino Bike Tour, la ciclovia dell’Appennino che ha preso il via in forma itinerante lo scorso 16 luglio da Altare (Savona) e si concluderà l’8 agosto ad Alia (Palermo). Si tratta della più lunga ciclovia d’Italia: il più importante progetto di turismo sostenibile mai realizzato nel nostro Paese, nato da cittadini e cittadine e dalle associazioni, finanziato dalle istituzioni. Un sostegno concreto alla promozione della mobilità sostenibile e al turismo nelle aree interne del Paese, che punta alla valorizzazione di un nuovo modello di turismo che rispetta l’ambiente, migliorando la qualità della vita e promuovendo la riscoperta dei meravigliosi borghi d’Italia attraverso l’utilizzo della bici, mezzo green per eccellenza.

Durante il percorso della 34^ tappa i ciclisti sosteranno in prossimità della sede del “Museo delle Reali Ferriere di Mongiana” per incontrare alcuni dei partners del progetto, il “Parco Naturale Regionale delle Serre” e “Mangiatorella SpA” che ha sponsorizzato il percorso inaugurale dell’intera ciclovia nazionale.

L’incontro, previsto attorno alle 10,30, nasce per promuovere la purezza del territorio del Parco delle Serre, ricco di bellezze naturalistiche, storiche e culturali, attraverso la modalità della mobilità sostenibile e degli itinerari naturalistici percorribili in bici o a piedi attraverso delle “passeggiate ecologiche” che vedono protagonisti i boschi delle Serre, coi loro giganteschi abeti bianchi.

Gli itinerari offrono delle opportunità di visita uniche per turisti e popolazione locale che potranno ammirare le tante opere naturalistiche e culturali accompagnate da guide esperte, lungo i sentieri del parco. Tra questi, anche quelli che permettono di raggiungere la località “Mangiatorella” ove insiste lo Stabilimento di imbottigliamento dell’omonima Acqua Minerale, la Tenuta Ferdinandea, la Cattolica di Stilo e molto altro.

“Mangiatorella”, che deve la sua purezza e le caratteristiche salutari della sua acqua proprio all’ambiente incontaminato in cui nasce, con l’adesione a questo grande progetto è orgogliosa di confermare la sua costante attenzione per la tutela dell’ambiente e del territorio.

Quando Matilde Serao andò a curare la depressione a Ferdinandea

“Passerò l’agosto ed i primi di settembre non a Napoli, non a Castellammare, ma in Calabria nella foresta della Ferdinandea, dove il Fazzari ha trovato delle miniere di ferro. Desidero avere queste impressioni di montagna che mi sono ancora ignote e desidero una solitudine, un distacco breve ma completo.”

Dopo tantissime e dure ore di viaggio in treno giunse nella solitaria stazioncina di Monasterace e qui venne ad accoglierla il suo amico Achille Fazzari, l’intraprendente ex garibaldino, ex sarto, senatore del nuovo regno, compare d’anello alle nozze di Garibaldi con Francesca Armosino.

Era l’agosto del 1883 e la giornalista-scrittrice veniva in Calabria invitata dall’amico Fazzari: “venite alla Ferdinandea e vi sentirete di nuovo nelle vene la linfa della giovinezza.”

L’ospite illustre e bisognosa di serenità tra il silenzio delle montagne era Matilde Serao, prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, il Corriere di Roma e candidata al Nobel per la Letteratura per ben sei volte. Era ancora molto giovane, ventisette anni, ma depressa.

Così descriveva le nostre contrade la Serao in un articolo per il Corriere di Roma del settembre 1886: “Ascende la carrozza fra le prime macchie, rade ancora, e gira intorno ad una collina, scoprendo ogni tanto con l’occhio l’immenso Jonio glaciale senza una vela. Lievemente l’aria rinfresca. Ecco Stilo, una piccola città bruna bruna, antica, medievale, fabbricata a mezza costa; cittadina fiera e malinconica con le sue chiese antiche. Si traversa Stilo: le calabresi dal volto pallido vi guardano senza curiosità da dietro piccoli vetri delle loro finestre. La vegetazione poi diventa sempre montanara e si gira sui fianchi della montagna, ora seppellendosi fra gli alberi, ora rasentando un precipizio spaventoso. Qui e là spunta la roccia, nuda, nera, ciclopica. Non dunque questo paese è Ferdinandea? No, questo è Pazzano: paese di pietra e paese di ferro. Sta nell’aria e si respira il ferro: sgorga e si rovescia dalla bocca delle miniere, già riattivate (dal Fazzari) rossastro, sottilissimo, dilagante in flutti di polvere.

Non c’è che dire: un accattivante ritratto della vallata dello Stilaro, della città del Campanella e della Pazzano tutta ferro e granito, speciali doni del Consolino.

Ma poi perché mai le donne di queste parti le apparivano “dal volto pallido” e non belle, simpatiche e more? La depressione fa brutti scherzi.

Un intero mese alla corte di don Achille, alla reggia borbonica della Ferdinandea, tra battute di caccia e tanto silenzio e con la bella vista di reperti storici e archeologici ivi presenti, eredità dei Borbone e delle collezioni dello stesso Fazzari. Stava a meraviglia qui donna Matilde: poteva darsi alla lettura attingendo alla ricca biblioteca; suonare chitarra e pianoforte; giocare a bocce, a scacchi, a bigliardo; fare lunghe camminate ossigenanti, andare a cavallo; una cucina sana con ottimi funghi porcini e tanta selvaggina.

E poi, non meno importante, l’acqua miracolosa della Mangiatorella tanto reclamizzata in tutto il regno.; era l’acqua che faceva per lei depressa come era per via dell’obesità, l’acqua che “distrugge l’acido urico fisiologico cinque volte più della Fiuggi” secondo il prof. Gauthier della reggia università di Napoli.

Non c’è che dire: un bel soggiorno da non dimenticare così facilmente. Forse solo un inconveniente, le mancava la corrispondenza puntuale e giornaliera, perchè qui “ le lettere arrivano assai tardi come se venissero da Pietroburgo; quando piove il postino non compare per tre o quattro giorni in un mese.”

Come dire: non si può avere tutto dalla vita. Venne il tempo del rientro a Roma, il ritorno alla routine, tra novelle, romanzi, saggi, scritti sgrammaticati, come dirà qualcuno, ma di tanto successo. Scriveva di cronaca e alla gente piaceva quello scrivere spontaneo e mai ricercato, popolano.

Aveva ripreso a lavorare tanto e con tanta serenità che le derivava sicuramente dal salutare soggiorno a Ferdinandea.

 

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L'ultimo viaggio di Ferdinando II nelle Serre

Gli storici locali tacciono su molte situazioni che invece andrebbero chiarite. E' evidente dalle proficue fonti che Ferdinando II Re delle Due Sicilie, viaggiò spesso in Calabria, e lo fece specialmente per visitare i Reali Opifici Metallurgici che la Corona vi possedeva.  Tuttavia dopo questa breve ma significativa premessa, dipanerò una situazione storica datata 1852. Sua Maestà, conscio dei suoi possedimenti e amante della nostra Regione, si portò durante il suo lungo regno ben tre volte nelle nostre contrade visitando  in quel periodo paesi e città della Calabria: il primo viaggio lo compì nel 1833 a pochi anni dall’ascesa al trono, poi nel 1844, ed infine nel 1852. Racconterò qui dell’ultimo dei viaggi calabresi di Ferdinando, puntando l’attenzione solo su quanto accaduto a Mongiana. Nell’autunno del 1852, il Re decide a sorpresa di ispezionare la Fabbrica Statale di Mongiana sita nel cuore delle Serre Monteleonesi (oggi ViboValentia) accompagnato dal Principe Francesco che affettuosamente il Borbone chiamava Ciccillo. Sebbene furono giorni intensi quelli di quell’autunno per il Vibonese, in quanto la piena del fiume Angitola aveva intasato i campi e le uniche strade presenti, come aggiunge Imperio Assisi in una operetta apparsa sul Normanno bimestrale di cultura che porta titolo “Quel disastroso viaggio in calesse di Ferdinando II alla Ferriera di Mongiana”, dove annota: “Il 16 ottobre il Sovrano giunge a Mongiana da Pizzo Calabro, era stato costretto a pernottare a Serra San Bruno in quanto la carrozza reale si impantanò nelle fanghiglie dell’Angitola”, le alluvioni nel Vibonese non guardavano in faccia neanche i reali. I contadini delle Serre furono costretti a scortare Sua Maestà facendo da apripista ed in alcuni tratti, quelli più difficili, costretti a sollevare il reale calesse. Quella spericolata ma affascinante salita in calesse permise al Re di godere delle bellezze paesaggistiche, della calma certosina di Serra e di notare la difficoltà nel viaggio per giungere all’Opificio. Di ciò, però, non può essere ritenuta responsabile la casa reale, soprattutto quando citando ancora le parole dell’Assisi, sempre nella stessa opera, continua dicendo: ”per la cronaca giornalistica annotano che nell’anno domini 2012 il tracciato è lo stesso, curve o non curve repubblicane e non più monarchiche che a parte qualche spruzzata di bitume si scioglie come neve al sole di Calabria”. Tuttavia, è doveroso tornare a quel 16 ottobre del 1852; distrutto dal viaggio, ed avendo ascoltato le lamentele del giovane Principe, il Borbone si accinge a visitare l’industria statale ed a ritemprarsi negli appartamenti di Ferdinandea inaugurata dallo stesso Re nel suo primo viaggio del 1833 assieme al ponte dell’ Angitola i cui lavori di realizzazione erano stati affidati al Palmieri. Giunto in prossimità della Ferdinandea, il Re visitò le Reali Ferriere constatando l’ ingente produzione d’acciaio. Soddisfatto della situazione, Ferdinando II tornò a Napoli non dopo aver accolto e graziato il centro di Mongiana che da tempo chiedeva l’autonomia dall’iniqua Fabrizia, cosa che inquinò per sempre i rapporti con quest’ultima, come apprendiamo dalle parole del colonnello Pacifici che così scrive:”questo villaggio di Mongiana che in sé contiene 3 reali stabilimenti nel quale il più proficuo e prosperante si è quello della novella fabbrica d’armi, ha una popolazione composta da varie famiglie naturali(…) 100 anime, 3 o 400 individui fidati addetti al lavoro nello stabilimento. I naturali sono modestamente urbanizzati sia per buona indole e per come sono stati educati da impiegati e ufficiali d’artiglieria. Esiste un numero di persone istruite (…) il villaggio suddetto ha la disgrazia di essere aggregato al comune di Fabrizia composto da gente rozza e incolta sotto la cui arbitraria amministrazione giaciamo (…)”. Mongiana, a seguito di questa accorata lettera, riceve la grazia di essere eretta a Comune. Senza ombra di dubbio e senza titubanza per la grazia concessa, il Re tornò quindi a Napoli carico di progetti e di osservazioni fatte proprio in groppa al calesse; si adoperò per far sì che le opere mancanti venissero compiute. Si dice che le promesse di un Re a quel tempo fossero come quelle di un marinaio, ma non per Ferdinando, il quale ordinò di portare a termine ciò che aveva assunto l’impegno di far realizzare, ovvero:” aprire una strada per le miniere passando per Ferdinandea, costruire la strada per l’Angitola, sviluppare Ferdinandea senza tralasciare Mongiana, costruisce una caserma militare a Mongiana, ed abbellire la chiesa “. A conti fatti l’impegno fu mantenuto; lo stesso impegno che ebbe nella visita a Monteleone nel 1833 quando promise al popolo un orfanotrofio ed una scuola di agraria, cose che fece costruire. Il periodo aureo di Mongiana crebbe notevolmente sotto Ferdinando, tanto è vero che l’Opificio delle Serre divenne il fiore all’occhiello della siderurgia borbonica, vanto quindi del Re. Questo fu davvero l’ultimo viaggio del Re, purtroppo infatti, a pochi anni di distanza, quando oramai Mongiana aveva raggiunto l’acme del suo successo economico, giunse Garibaldi con la conseguenza che il fiorente comparto venne decapitato. ” Il 21 agosto 1862 con la legge n° 793 il Governo italiano decise di includere Mongiana nei beni demaniali da alienare e con la legge n° 1435 del 23 agosto 1873 sancisì la definitiva caduta del comparto”.

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Ferdinandea, ascesa e declino di un sogno industriale

La Calabria, con le sue vestigia di un passato che spesso sembra non voler passare, racchiude nella parte più nascosta e misteriosa del suo seno luoghi, eventi, fatti, misfatti e circostanze che, pur avendone tratteggiato il destino, sembrano essersi definitivamente smarriti nel lento, ma sornione ed inesorabile divenire del tempo. Una regione fatta di storie senza storia, di racconti senza narratori, di romanzi senza romanzieri. Ciascuno conserva qualche episodio tramandato più della memoria orale che dal rigore scientifico degli amanti di Clio. E così a sopravvivere sono storie antiche, a volte remote, di cui si è perso però il pur minimo riferimento storico. I greci, gli arabi, i bizantini, i normanni, se non fosse per qualche toponimo e come se non ci fossero mai stati. I luoghi della memoria giacciono negletti, abbandonati, come se avessero la colpa di far ricordare un passato più incerto ma meno aleatorio del vuoto e grigio presente. In un contesto in cui alla memoria collettiva si è spesso sostituita l’immagine folcloristica da sagra paesana è sempre più difficile elaborare un processo storico condiviso in grado da fungere da volano turistico. Mentre altrove si scrivono storie, si rielabora il passato e si valorizzano territori, in Calabria, al contrario, si lascia agonizzare lentamente quel che di buono è scampato alla furia dei terremoti, all’impeto delle alluvioni, alle scorrerie di vecchi e nuovi predoni. Nella cuore di monte Pecoraro, da dove è possibile scorgere le increspature dello Jonio e le arsure della vallata dello Stilaro, sorge ancora quel che rimane di Ferdinandea. Un nome evocativo dal quale traspare inequivocabile l’origine Borbonica. Correva l’anno 1833 quando veniva inaugurato quello che molti, per troppo tempo, hanno erroneamente ritenuto il casino di caccia di re Ferdinando II. Al contrario, l’imponente realizzazione edificata nel bel mezzo della montagna, tra superpi abeti e faggi secolari, costituiva il nucleo secondario di una ferriera, succursale degli stabilimenti siderurgici di Mongiana. Nel corso della sue breve esistenza produttiva, Ferdinandea seguì inevitabilmente la stessa sorte toccata al ramo aziendale principale, costretto a chiudere subito dopo l’unità d’Italia. Il 27 agosto 1860 un contingente garibaldino circondava e requisiva gli stabilimenti siderurgici. Un evento che segnerà il “de profundis” per uno dei primati produttivi del sud Italia. I nuovi padroni, ben presto, si dimostrarono assai meno caritatevoli di quelli appena scalzati. Estinte le attività proto – industriali, Ferdinandea conoscerà il suo definitivo canto de cigno. Nel 1874 l’immensa tenuta diventava proprietà del garibaldino Achille Fazzari, che l’acquistava all’asta insieme agli stabilimenti di Mongiana ed a diversi beni accessori. Nel corso degli anni “don Achille” farà di Ferdinandea la sua ricca e lussuosa dimora, nella quale, tra gli altri, soggiorneranno il fondatore del “Il mattino” di Napoli, Edoardo Scarfoglio e la di lui moglie, Matilde Serao. E proprio la scrittrice partenopea nel settembre del 1886, su “Il Corriere di Roma”, accostava Ferdinandea al leggendario “castello incantato di Parsifal”. Nel corso dei loro soggiorni, i visitatori potevano apprezzare la munificenza ed il mecenatismo del loro anfitrione. Fazzari aveva fatto della sua dimora una sorta di eterogeneo e caotico museo. Oltre alla “cura” del patrimonio artistico, Fazzari, che nel frattempo era diventato deputato, a Ferdinandea aveva riavviato, dopo averla ammodernata, la vecchia segheria borbonica dotandola, nel 1892, di una dinamo elettrica con la quale venivano movimentate le attrezzature. E proprio nei boschi di Ferdinandea sorgerà nel 1910, ad opera di Cino Canzio, compagno della figlia di Fazzari, Elsa, la prima azienda idroelettrica della zona. Nel corso degli anni la proprietà  passerà più volte di mano. Alla fine delle attività produttive non rimarrà altro che la fonte della Mangiatorella e l’industria boschiva, peraltro privata dal valore aggiunto costituito dalla lavorazione del legname. Per il resto, un lento, inesorabile declino testimoniato dagli immensi capannoni abbandonati ed ormai cadenti, dagli alloggi per gli operai e dal nucleo centrale sul quale incombe inesorabile la scure del tempo. I tanti visitatori, che ancora oggi si avventurano sui luoghi che potrebbero rappresentare il fulcro di un percorso organico di archeologia industriale, subiscono la stretta al cuore di chi vede lentamente svanire il patrimonio di una regione che stenta a comprendere che lo sviluppo turistico passa attraverso il recupero della sua storia.

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