Pizzo, il sindaco Callipo contro le scelte della Regione: «Belen sì, Murat no. Non è accettabile»

In merito al mancato finanziamento da parte della Regione Calabria della rievocazione storica murattiana, evento culturale di primaria importanza nel panorama calabrese, il sindaco di Pizzo, Gianluca Callipo, ha diffuso questa lettera aperta che stigmatizza con forza l'esclusione, denunciando il tentativo di marginalizzare il territorio napitino:«Dalla Regione Calabria nemmeno un euro per la rievocazione storica murattiana».

«L’importante manifestazione -continua il sindaco- che ogni anno, ad ottobre, attira migliaia di visitatori che giungono a Pizzo per assistere alla ricostruzione in costume delle vicende storiche che segnarono gli ultimi giorni di vita del re di Napoli Gioacchino Murat, che proprio nella città napitina fu catturato, processato e ucciso, non rientra tra gli eventi culturali finanziati dalla Regione. Una decisione, quella della Regione, che lascia sconcertati, anche in considerazione del fatto che 8 anni fa è stata approvata una legge regionale, la numero 2 del 2009, che dovrebbe garantire promozione e sostegno alle iniziative culturali finalizzate a valorizzare il decennio francese in Calabria (1806-1815). E nessuna altra iniziativa, con riferimento a Murat, è più nota e peculiare di quella che viene promossa annualmente a Pizzo proprio nei giorni di ottobre in cui il cognato di Napoleone Bonaparte fu imprigionato e fucilato nel castello Aragonese.

Un evento che due anni fa, in occasione del bicentenario della morte di Murat, ha visto anche la partecipazione di rappresentanti del consolato francese e dei discendenti dello stesso sovrano, ottenendo un’eco internazionale. Insomma, una di quelle iniziative che la Calabria dovrebbe tutelare e sostenere in maniera prioritaria, perché coincidente con la sua storia e le sue tradizioni. A quanto pare, invece, non c’è spazio per Pizzo e per la rievocazione storica nei bilanci regionali, nonostante si siano trovati invece i soldi (tanti soldi) per finanziare indirettamente la partecipazione di una showgirl come Belen, che per la sua breve apparizione al Festival del Peperoncino di Diamante intascherà decine di migliaia di euro. Non si può assistere in silenzio a uno scippo culturale di queste dimensioni. Ben vengano tutte le comparsate di personaggi famosi, capaci di suscitare la curiosità di turisti e visitatori, ma a patto che siano finanziati anche gli eventi che animano il già troppo asfittico panorama culturale calabrese.

Il Comune di Pizzo, -chiosa il sindaco- per il tramite dell’associazione Murat Onlus, ricorrerà contro la decisione della Regione, chiedendo agli organi competenti di riconsiderare la richiesta di finanziamento per allestire la rievocazione storica murattiana, nell’auspicio che si rimedi all’errore fatto. Qualora dovesse giungere un ulteriore diniego, non è escluso che si decida di adire le vie legali affinché le istituzioni regionali prendano piena coscienza che la misura è ormai colma e non ammetteremo più di essere marginalizzati o ignorati».

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I briganti nelle Serre, i nomi dei ricercati di Fabrizia

Divenuto padrone incontrastato dell’Europa continentale, dopo la vittoria conseguita ad Austerlitz  (2 dicembre 1805), Napoleone, decise di portare i vessilli del suo impero sul trono del Regno di Napoli. Per farlo si affidò, come spesso accadeva, ai parenti. Così ai “napoletani”, per poco meno di due anni, toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Ottenuta la corona di Spagna, il fratello di Napoleone, lasciò Napoli al cognato, Gioacchino Murat, marito della sorella Carolina, il cui regno si concluderà, il 2 maggio 1815, con la sconfitta a Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di stabilire il loro ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano scacciato i francesi e restaurato la monarchia. Nella guerra senza quartiere la Calabria fu in prima fila. Ad insidiare le truppe francesi i numerosi briganti che, favoriti dall’orografia e dalla fitta vegetazione, si cimentavano in continue azioni di guerriglia. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, i paesi situati sull’altopiano serrese diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. I boschi delle Serre divennero, quindi, rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Molti furono uccisi, altri arrestati, di altri ancora non si seppe più nulla. Tra i centri delle Serre dove la presenza brigantesca era piuttosto significativa, figura anche Fabrizia. La schiera dei “fabrizioti” fu particolarmente nutrita tra le fila di coloro i quali, nel maggio 1807, misero a ferro ed a fuoco Serra. Giova ricordare che, all’epoca, Fabrizia comprendeva anche i territori sui quali nasceranno successivamente i comuni di Mongiana e Nardodipace. E’ difficile dire quanti e chi fossero i briganti attivi nel circondario, tuttavia, almeno parzialmente la lacuna può essere colmata grazie alla “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta risale, molto probabilmente, ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma dell’Intendente Colletta ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa impossibile, abbandonata nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. Ad aprire la “Nota” un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Grazie alla “Nota” è possibile risalire all’identità dei 16 “fabrizioti”, 12 uomini e 4 donne, che tra il 1809 ed il 1810 si erano dati alla macchia. Questi i nomi: Ilario Jenco Gajaro e sua moglie, Domenico Cirillo, Domenico Gallace, Bruno Ciancio e sua moglie, Fortunato Masi alias Zio Bruno, Deodato Masi alias Petrichia, Stefano Aloe, Pasquale Monteleone Imiso e sua moglie, Pietro Monteleone, Giovanni Franzé alias Rici e sua moglie, Vincenzo Franzé alias Rici, Giuseppe Franzé.

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Pizzo. Aperta la cripta del Duomo dove si presume siano i resti di Murat

La cripta sotterranea del Duomo di Pizzo, dove presumibilmente è sepolto il corpo Gioacchino Murat, è stata aperta. È avvenuto questa mattina, alla presenza, tra gli altri, del sindaco Gianluca Callipo, dell'assessore alla Cultura Cristina Mazzei, del presidente dell'associazione Murat Onlus, Giuseppe Pagnotta, e del parroco del Duomo, don Pasquale Rosano. L'operazione, compiuta con grande discrezione così come aveva chiesto la Diocesi, per il rispetto dovuto ai defunti che riposano in questo antico luogo di sepoltura, è il primo passo per giungere con certezza all'identificazione delle spoglie del Re di Napoli, che nell'ottobre del 1815 fu catturato, imprigionato e ucciso nella città napitina. Il 30 marzo prossimo saranno poi i carabinieri del Ris a calarsi nella cripta per effettuare prelievi biologici e consentire così, nelle settimane successive, il test del Dna.  La rimozione di una delle tre pesanti lastre di marmo che sigillano i tre rispettivi ingressi al vano sotterraneo di sepoltura, ha consentito dunque una prima, sommaria indagine visiva per rendersi conto della situazione e verificare la presenza di eventuali ostacoli fino alla cassa che si presume contengano le ossa di Murat. L'obiettivo è quello di individuare con certezza i resti del sovrano partenopeo, per poi traslarle in un altro luogo di sepoltura a vista, per valorizzare al meglio la sua figura storica.  WLa cripta non veniva aperta da 40 anni - ha spiegato l'assessore Mazzei -. Da quello che abbiamo potuto vedere, si tratta di un unico lungo vano, che si sviluppa sotto il pavimento della chiesa. Il timore era che ci fossero tre diversi ambienti di sepoltura, in corrispondenza delle singole botole di marmo. Questo avrebbe reso molto più difficile giungere sino alla cassa che crediamo custodisca i resti di Murat". Questo primo importante step operativo effettuato oggi, segna il passaggio dalla fase di studio alle operazioni di recupero vero e proprio, così come programmato dal comitato tecnico-scientifico istituito circa un anno fa dal Comune, in collaborazione con l'associazione Murat Onlus. Del comitato fanno parte anche la Sovrintendenza ai Beni archeologici, l'Università di Camerino, il parroco del Duomo e il Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri.Soddisfazione è stata espressa dal sindaco Gianluca Callipo, che ha ringraziato per la puntuale collaborazione il capitano dei carabinieri della Compagnia di Vibo, Diego Berlingieri, e il comandante della stazione di Pizzo, Paolo Fiorello. "Murat rappresenta uno dei maggiori motivi di interesse culturale di Pizzo - ha sottolineato Callipo -. Sono decine di migliaia, infatti, i turisti e gli studiosi che ogni anno visitano il Castello Murat, per vedere i luoghi della sua breve prigionia, del processo e dell'esecuzione mediante fucilazione ad opera della gendarmeria borbonica. Recuperare i suoi resti e allestire un nuovo luogo di sepoltura più visibile e visitabile, significherebbe un grande risultato per la nostra città, non soltanto in termini di valorizzazione culturale, ma anche con riferimento alla promozione turistica del territorio". La posizione della cassa di Murat fu individuata alla metà degli anni '70, in occasione dei lavori per il rifacimento del pavimento della chiesa, quando nella cripta fu calata una macchina fotografica. Le immagini così ottenute mostrarono numerosi resti di corpi umani, tumulati nel corso dei secoli, a conferma della consuetudine di seppellire i defunti sotto le chiese. Tra queste spoglie, fu individuata una bara che corrisponde alla descrizione che alcune cronache dell'epoca fanno dell'ultimo viaggio del re. In particolare, dopo la fucilazione, il suo corpo venne composto in una cassa di abete che durante il trasporto verso il Duomo cadde sul selciato, rompendosi. Per rimediare all'incidente, fu effettuata una riparazione di fortuna, avvolgendo la cassa con una lunga corda. Ed è proprio su un feretro legato da una corda che si è quindi concentrata l'attenzione dei ricercatori. Le probabilità che contenga le spoglie mortali di Gioacchino sono molto alte, ma il dilemma potrà essere risolto soltanto effettuando un prelievo biologico per il test del Dna da comparare a quello dei discendenti che vivono oggi in Francia.

 

Serra ed i Briganti. I nomi dei serresi ricercati dai francesi

Dopo la vittoria ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, Napoleone, ormai padrone dell’Europa continentale, decise di porre fine alla monarchia borbonica invadendo il regno di Napoli. In seguito ad ogni conquista, l’imperatore d’Ajaccio metteva in moto un collaudato meccanismo di spartizione  che vedeva protagonisti i componenti del suo numeroso clan familiare. Ai “napoletani” toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Un regno breve, destinato a durare poco più di due anni, fino a quando il fratello maggiore di Napoleone, non venne incoronato re di Spagna. Al suo posto, venne inviato Gioacchino Murat i cui meriti di guerra erano stati accresciuti dalle nozze con Carolina Bonaparte. Il regno del cognato di Napoleone si concluderà il 2 maggio 1815 con la sconfitta di Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di ristabilire l’ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano restaurato la monarchia dopo aver scacciato i francesi. La cruenta lotta vide, quindi, in prima fila la Calabria dove i briganti, favoriti, dalla natura del territorio e dalla fitta vegetazione riuscivano a muoversi con disinvoltura tenendo in scacco i soldati francesi. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, la cittadina della Certosa ed i centri limitrofi diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “definendosi realisti, iniziarono a vivere di ruberie” ed in ”tanti iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. Fu così che da luoghi di preghiera e meditazione, i dintorni di Serra divennero rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Gli episodi più cruenti che interessarono direttamente la cittadina bruniana furono due. Il primo risale al 24 maggio 1807 quando, quattro giorni prima della Battagliata di Mileto, la guarnigione francese di stanza a Serra era andata a dare manforte ai propri commilitoni in vista dello scontro con l’esercito napoletano. Fu in quell’occasione che “150 briganti, guidati da un certo Giuseppe Monteleone, detto Ronca” cui “si erano uniti altrettanti fabrizioti che disarmati speravano di prendere parte al saccheggio” entrarono a Serra e per “otto giorni” compirono assassini e saccheggi. A mettere fine alle devastazioni furono i serresi che avevano combattuto con i francesi a Mileto. Dopo la battaglia, ottenuta l’autorizzazione da parte del comandante delle truppe napoleoniche, generale Reynier, tornarono precipitosamente a Serra e misero in fuga i briganti. Il secondo episodio, invece, risale al 1811 quando, in seguito all’uccisione di due soldati francesi, il generale Manhés, oltre a fare chiudere le chiese, fece esiliare a Maida i preti fin quando non fossero stati consegnati i briganti. Dei ricercati di cui i francesi pretendevano la consegna sono arrivati a noi, tramite la “Platea”, due soli nomi, quelli dei “due Pasquali”, ovvero Pasquale Catroppa e Pasquale Ariganello, gli irriducibili uccisi nel sonno, il 12 aprile 1811, da due pastori di Pazzano che gli avevano dato ospitalità. I briganti serresi, attivi tra il 1806 ed il 1811, furono però molti di più. Complessivamente si tratta di trentadue persone i cui nomi sono contenuti in un documento, la “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta verosimilmente risale ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma apposta da Colletta in qualità d’Intendente ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa giudicata impossibile ed abbandonata proprio nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. La “Nota” si apriva con un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Per quanto riguarda Serra, la “nota” riporta complessivamente 32 nominativi i cui cognomi, in molti casi, sono ancora presenti nella cittadina della Certosa. Di seguito i nomi, in alcuni casi corredati dai soprannomi, dei briganti Serresi attivi fino al 1811: Pasquale Ariganello e Pasquale Catroppa (i “due Pasquali”), Bruno Barbara, Antonio Pace Spito, Pietro Valente del Cardeo, Giuseppantonio Tosto, Rocco Scoleri, Annibale Tedesco, Raffaele Pisani dello Zoppo, Domenico dell’Apa Fociliere, Domenico Crispo Lupo, Bruno Mannella, Rocco e Fortunato Pisano, Gennaro e Giuseppe Raghiele, Biagio Pelaja, Rocco Vellone, Giuseppe Figliuzzi, Salvatore Pasquino, Salvatore Tucci, Raffaele Scrivo, Biagio e Salvatore di Francesco, Biagio e Raimondo Greco, Pasquale e Francesco Zaffino, Domenico Rizza Tirri, Michele e Francesco Condeloro, Pasquale Purria,

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Paesi di Calabria: Pizzo Calabro

Da “In Calabria lungo il Tirreno” di Franceschino Ritondale leggiamo: “Dalla stazione ferroviaria la città si presenta come un grande anfiteatro che si affaccia sul Tirreno, con le sue case sovrapposte e degradanti a terrazzi ampi, sommersa dall’intensa vegetazione prettamente mediterranea che la circonda: boschi di ulivi annosi e folti aranceti tingono di intenso verde i suoi dintorni, dando alla zona un aspetto eternamente primaverile”. Questa è Pizzo Calabro, antica città marinara, là dove il mare e l’arte s’incontrano. Le sue origini risalirebbero alla magnogreca Napetia che poi  si sviluppò lungo il fiume Napeo, oggi Angitola. Scriveva il poeta e giornalista Rosario Bevilacqua, che qui vi è nato e vecchia conoscenza della gente di Serra San Bruno, che “il suo nome dapprima attribuito ad un condottiero greco, successivamente viene attribuito ad un condottiero Napeo ed infine alla sua posizione nei pressi del fiume Napeo. Da Napizia a Pizzo, sincopato di Napeo, Pizzitine, Pizzo”. E giacchè si posa su un promontorio che per la sua forma veniva chiamato “lu pizzu”, fino a qualche anno fa il nostro centro aveva il toponimo di “Il Pizzo”. Dopo il periodo di colonizzazione greca e romana, fu rifondata dagli Angioini verso il 1200, sotto il regno di Giovanna I, che la cinsero di fortificate mura e bastioni. Su uno di questi, poi, nel 1480 vi si costruì da Ferdinando d’Aragona il castello reso celebre dalla fucilazione di Gioacchino Murat. È stato qui, infatti, che nell’ottobre del 1815, l’ex re di Napoli è stato condannato a morte col sogno di un’Italia unita e chiedendo ai boia: “tirate giusto, mirate al petto, salvate il viso”. “ Non fu così – scrive ancora Bevilacqua – ma ciò non toglie significato alla sua forza d’animo e alle aspirazioni di libertà per l’Italia che la storia gli riconosce”. Da allora si chiamerà “il castello di Murat”. Oggi all’interno dell’antico maniero, di quella sfortunata  e pur gloriosa giornata, resta soltanto un busto marmoreo donato dalla nipote Luisa. Davanti al castello si affaccia la grande e affascinante piazza della Repubblica, già dedicata ad Umberto I del quale vi si ammira una bella statua. Questa è, senza voler essere enfatici, una delle più belle piazze  del mondo. Perché? Intanto è un bel terrazzo sul mare da dove si ammira l’infinito del buon Dio e poi questa è la piazza del “miglior gelato del mondo”. E già, qui si viene da ogni parte ed in ogni stagione per sedersi ai simpatici tavolini e godersi il suggestivo panorama ed “il cono pizzicano” e il famosissimo gelato detto “tartufo di Pizzo”. Nella stessa piazza, nella parte terminale verso il mare, s’innalza al cielo, come a proteggere tutto il golfo di Lamezia oltre che i Pizzitani, la snella e bella statua della Madonna. Di fronte a questa, andiamo a visitare un importante Bene culturale. Si tratta della chiesa matrice di San Giorgio, un tempo Collegiata, la più antica della diocesi di Mileto, edificata nel 1587. Nei secoli successivi è stata più volte sconvolta dai terremoti e nella cripta, dove un tempo venivano seppelliti i morti, ancora giacciono i resti mortali del Murat. È imponente la facciata in pietra tufacea col portale barocco in marmo bianco dello scultore Fontana. L’interno  è davvero un ricco museo. Nella navata di sinistra vi troviamo una lastra marmorea raffigurante “la Pietà” ed opera dei carraresi Antonino e Bartolomeo Berrettaro del 1530. Lo stesso marmo sovrasta il monumento funebre di Antonino Anile, ministro e scienziato di Pizzo, detto anche “il Poeta di Dio”; ed ancora la cinquecentesca statua marmorea della Madonna del Popolo attribuita al Gagini, come anche una scultura di Sant’Antonio di Padova; una scultura in marmo di Santa Caterina d’Alessandria opera di M. Carlo Casale ed un San Giovanni Battista, entrambe del XVI secolo, ed entrambe dichiarate “Monumento nazionale”. Ancora nella Matrice ammiriamo la Cappella Reale fatta edificare da Ferdinando II di Borbone nel 1832 con la pala d’altare raffigurante la Madonna della Salvezza di stile neoclassico di un tal Michele Foggia, due Crocifissi lignei del ‘400 e del ‘700; infine tanti dipinti e ceramiche di vari artisti quali: i pizzitani Zimatore, Grillo e Sambiase. Scendendo a mare, attraversiamo le belle e bianche spiagge di Prangi, la Seggiola, Centofontane e Piedigrotta. Su quest’ultima una bella meraviglia: la chiesetta rupestre detta “chiesa dei miracoli” che indubbiamente costituisce forte richiamo per turisti, residenti e fedeli. Per Bevilacqua: “ti devi fermare, non puoi andare oltre, Qui c’è un voto da fare, una promessa da sciogliere. È una chiesa scavata nella roccia tufacea. La leggenda narra che nel 1600 l’equipaggio di un veliero travolto dalla tempesta trovò rifugio su questa spiaggia. I marinai erano esausti e scoraggiati, quando d’improvviso videro sul bagnasciuga il quadro della Madonna sistemato nella cappella di bordo. Lo raccolsero, lo collocarono nella grotta, vi lasciarono anche la campana della nave…”. Oggi nella grotta vi sono tante statue sacre  oranti davanti alla Vergine, sono sculture modellate col tufo dallo scultore Angelo Barone e dal figlio Alfonso. La chiesetta di Piedigrotta ha davvero un non so che di paradisiaco e starvi a sostare in preghiera, in meditazione è come esaltarsi, entrare in una dimensione surreale per non uscirne più; qui le frenesie del mondo si arrestano ed il silenzio di Dio ti attrae per svelarti come è meraviglioso il Creato. E Pizzo non è solo Castello di Murat e Piedigrotta, è anche mare con le sue tonnare ed i suoi lidi balneari che accolgono i turisti da ogni angolo del mondo. Da qui, poi, si aprono le strade per le escursioni verso le vicine Tropea e la Certosa di Serra San Bruno. Pizzo è sicuramente un accattivante centro peschereccio e balneare comprensivo di variegate sfumature ambientali alla maniera delle Cinque Terre della Riviera ligure. È un attraente centro di turismo culturale e balneare. Insomma è un bell’angolo del Mediterraneo da scoprire.

 

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Pizzo: forse individuati i resti di Murat. Verranno recuperati entro maggio

Saranno recuperati entro la fine di maggio i campioni biologici dai resti individuati nella cripta sotterranea del Duomo di Pizzo, che si presume appartengano a Gioacchino Murat, il re di Napoli che nell'ottobre del 1815 fu catturato, imprigionato e ucciso nella città napitina. Sarà poi il test del Dna, che verrà effettuato nei prossimi mesi a confermare o meno se le spoglie appartengano al cognato di Napoleone. È questo il ruolino di marcia che si è imposto il comitato tecnico-scientifico istituito dal Comune, in collaborazione con l'associazione Murat Onlus, dopo la prima riunione operativa. Del comitato, oltre all'assessore alla Cultura, Cristina Mazzei, in rappresentanza dell'Amministrazione comunale, fanno parte la Sovrintendente ai Beni archeologici Maria Teresa Iannelli, l'antropologa dell'Università di Camerino Isolina Marota, il parroco del duomo Pasquale Rosano, il presidente dell'associazione Murat Onlus Giuseppe Pagnotta e due alti ufficiali del Reparto investigazioni scientifiche (Ris) dei Carabinieri, Sergio Schiavone e Sergio Romano. Quest'ultimo, nella sua qualità di biologo, sarà colui che dovrà calarsi nella cripta una volta rimossa la pesante lastra di marmo sul pavimento della chiesa di San Giorgio, che sigilla l'accesso all'antico luogo di sepoltura. Una volta dentro, dovrà effettuare rilievi fotografici e prelievi biologici in corrispondenza della cassa, individuata negli anni Settanta grazie ad una con telecamera calata per esplorare i sotterranei del duomo, che si ritiene possa contenere i resti di Murat. In quell'occasione, le immagini mostrarono numerosissimi resti di corpi umani, tumulati nel corso dei secoli, a conferma della consuetudine di seppellire i defunti sotto le chiese. Tra queste spoglie, fu individuata una cassa che corrisponde alla descrizione che alcune cronache dell'epoca fanno della bara in cui venne deposto il corpo dell'ex sovrano. In particolare, dopo la fucilazione, il corpo di Murat venne composto in una cassa d'abete che, durante il trasporto verso il duomo, cadde sul selciato, rompendosi. Per ovviare all'incidente, fu effettuata una riparazione di fortuna, avvolgendo la bara con una lunga corda al fine di tenerla insieme. Ed è proprio su un feretro legato da una corda che si è quindi concentrata l'attenzione dei ricercatori. Le probabilità che contenga le spoglie mortali di Gioacchino sono molto alte, ma il dilemma potrà essere risolto soltanto calandosi nella cripta, analizzando i resti ed effettuando un prelievo per il test del Dna. Nei prossimi giorni, il comitato tecnico-scientifico invierà al vescovo di Mileto una relazione dettagliata della procedura e della tempistica che si intende seguire, per il via libera da parte della Diocesi, che deve formalmente autorizzare le operazioni di ricerca. «Riuscire a individuare con certezza il corpo di Murat sarebbe molto importante - sottolinea l'assessore Mazzei -, non soltanto per ovvi motivi storici e culturali, ma anche perché questa scoperta accrescerebbe la capacità attrattiva di Pizzo, che già fa leva sull'importante figura di questo giovane re e delle vicende storiche che lo coinvolsero. Non dimentichiamo, infatti, che il castello aragonese nel quale fu imprigionato e ucciso, è il segno distintivo della nostra città ed è già meta di migliaia di turisti ogni anno. Individuare con certezza le spoglie di Murat, nel bicentenario della sua morte che ricorre quest'anno, sarebbe un risultato di grandissimo impatto per Pizzo».
 
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Murat, il re di Napoli ucciso a Pizzo 200 anni fa

Premesso che commemorare significa solo commemorare e non lodare o approvare o il contrario, sarebbe il caso di commemorare Murat nel duecentesimo della sua avventura di Tolentino, e, il prossimo 13 ottobre, della fucilazione a Pizzo. Promosso re di Napoli dal cognato Napoleone per trasferimento di Giuseppe Bonaparte in Spagna, Gioacchino Murat ereditò una situazione difficile: la Calabria era in fiera rivolta; gli Inglesi occupavano Capri; essi e re Ferdinando minacciavano dalla Sicilia. Conquistò Capri e intensificò la lotta contro i borboniani calabresi, inviando il generale Manhès con amplissimi poteri: quelli da cui verrà copiata dal Regno d’Italia la famigerata legge Pica! Tentò una spedizione contro la Sicilia, senza risultati. Più importanti i suoi effetti sul piano interno. Secondo l’ingombrante affine di Parigi, doveva comportarsi da re vassallo; suo intento era invece di guadagnarsi sempre più vasti spazi di autonomia, e a tal fine si studiò di costituire una classe burocratica e un esercito “nazionali”, al punto da imporre ai generali francesi di naturalizzarsi napoletani, con ira di Napoleone. Già al tempo della spedizione in Russia, buona parte dei generali e colonnelli erano meridionali, e non damerini da parata, ma veri uomini di guerra. Fu la Guardia reale napoletana a salvare Napoleone durante la disastrosa ritirata, respingendo i cosacchi; fu Florestano Pepe a tenere Danzica contro i Prussiani… Le riforme interne furono secondo il modello napoleonico: centralismo burocratico, controllo delle province in mano ai prefetti, diffusione della proprietà privata della terra sottratta alla Chiesa, Codice civile “Napoléon” con “l’uguaglianza di fronte alla legge” (calma, significa solo tutti soggetti, legge territoriale!)… Per venire incontro alla vanagloria meridionale, distribuì a piene mani titoli ormai puramente nominali di baroni, consentendo agli arricchiti di inventarsi mai esistiti nobili avi: una mania che dura tuttora! Al ritorno dalla sconfitta napoleonica di Russia, e dopo quella ancor più dura di Lipsia, Gioacchino riconsiderò la propria sorte, e tentò di salvare il trono separandosi dal cognato e dalla Francia; per qualche tempo del 1814 fu mezzo alleato dell’Austria, e attaccò assieme a questa il Regno Italico del viceré Eugenio. Tornato a Napoli, si avvide che Austria e Gran Bretagna non erano affatto certe di cosa fare del Sud Italia, e oscillavano tra il mantenimento di Murat e il ritorno dei Borbone. Decise, con irruenza più che con logica, la guerra all’Austria, e si spinse fino in Toscana e in Romagna. Qui lanciò agli Italiani un Proclama di Rimini incitandoli alla lotta per l’indipendenza. Era un messaggio improbabile e per chi lo inviava e per chi lo leggeva; e non lo lesse nessuno, tranne un poeta milanese, il Manzoni, che iniziò, e non finì un Inno di quel titolo. Il 2 maggio 1815 Murat, assestatosi nelle Marche, venne attaccato a Tolentino dal generale austriaco Bianchi, e il giorno dopo battuto. Fuggì in Francia, mentre i generali riportavano in patria le truppe, e da lì a poco stipularono, con un compromesso insincero da entrambe le parti e causa di ogni futuro male politico del Sud, la Convenzione di Casalanza con il Borbone, riconoscendolo re di Napoli. L’anno seguente nasceranno le Due Sicilie: una curiosità, il titolo era stato giù usato e da Giuseppe e da Gioacchino! Un giovanissimo intellettuale, non ancora poeta, di quelle parti, Recanati, scrisse subito una “Orazione per la liberazione del Piceno”, ovvero cacciata di Gioacchino e dei suoi “barbari Sanniti” dalle Marche. Murat riparò a Marsiglia, poi in Corsica; intanto Napoleone era fuggito dall’Elba e tornato imperatore, per essere definitivamente sconfitto da Britannici e Prussiani a Waterloo il 18 giugno. Anche Murat tentò il ritorno sul trono; sbarcato a Pizzo, non trovò alcuna accoglienza; arrestato e sottoposto a un processo per identificazione, venne messo a morte. Questo sbarco a Pizzo è un mistero storico. Ammesso che Murat confidasse di avere ancora un partito favorevole, non l’avrebbe trovato davvero in Calabria, la terra a lui più ostile. Si ritenne volesse puntare su Salerno, e che a Pizzo sia finito per una tempesta. Un’ipotesi non senza argomenti viene affaccia da Luigi Durante in “Napitia 2”, sulla scorta di documenti e lettere di testimoni dei fatti pizzitani del 1815. Suggerisce che Murat sarebbe stato attirato in una trappola per poterlo eliminare. Commentiamo così l’ipotesi. Caduto la seconda volta Napoleone, non per questo in Francia era venuto meno il partito bonapartista, che nel 1849 tornerò al potere con Luigi, poi dettosi Napoleone III. C’era chi rivendicava l’Impero, per un momento anche Bernadotte, divenuto principe ereditario di Svezia; e restava pur sempre un figlio di Napoleone, sia pure in de virilizzante esilio austriaco. Il re Borbone, Luigi XVIII, non era dunque molto al sicuro, anche perché gli stessi monarchici più legittimisti dubitavano di lui e si chiedevano quale fosse la verità sul figlio di Luigi XVI, il Delfino misteriosamente scomparso durante la rivoluzione. Tra i marescialli che potevano mettersi alla testa dei bonapartisti, placato Bernadotte, fucilato Ney (ma si disse fatto fuggire di nascosto in America), passato Soult a fare il ministro regio, morti o isolati altri, restava solo Murat; e questi avrebbe potuto persino rivendicare il trono, se non per sé, per il figlio suo e di Carolina. I due Borbone di Parigi e di Napoli avevano dunque un pericolo in comune, che era più prudente eliminare: meglio se in maniera legale, e fuori dalla Francia. Non so se è vero e non potremmo saperlo mai, però pare logico.

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