Venerdì a Montepaone la “Festa di San Martino nel Borgo

Venerdi 11 novembre a Montepaone, presso piazza Marini, l’amministrazione comunale organizzerà l’evento denominato “San Martino nel Borgo”. Un’occasione lieta per trascorrere del tempo all’insegna del divertimento, del cibo e del buon vino novello.

La serata sarà allietata dal gruppo etno-folk “Antigua” forti del grande successo, per numero di presenze e gradimento del pubblico, ottenuto nella giornata inaugurale del Taranta festival di Montepaone.

L’assessorato alla Cultura, promotore della manifestazione, evidenzia l’importanza di questi eventi aggregativi capaci di riportare in vita le nostre radici e trasmettere le tradizioni alle future generazioni affinché non rimangano sopite nei ricordi. L’obiettivo è quello di aprire una piccola finestra di serenità e gioia capace di dare il via al clima delle imminenti festività natalizie.

L’evento, organizzato nel borgo di Montepaone, garantirà la possibilità di spazi al coperto nel caso di condizioni atmosferiche avverse.

Dalle 19.30 verranno inaugurate le nuove botti di vino ed inizierà la manifestazione che si protrarrà sino a tarda serata accompagnata dal cibo e dalla musica della tradizione popolare calabrese.

I celti e il culto di san Martino di Tours, se n’è parlato in un seminario del Centro studi Theotokos

Grande successo del Centro Theotokos che, insieme alla Scuola superiore per mediatori linguistici “Don Domenico Calarco” di Reggio Calabria, coordinata da Luigi Rossi, ha organizzato il seminario sul rapporto tra paganesimo e cristianesimo nell’Occidente europeo.

La figura di san Martino di Tours ben si adattava al periodo e all’importanza storica dell’evento in quanto alcune tribù celtiche si sarebbero convertite al cristianesimo, proprio grazie all’opera del primo monaco europeo che la storia ricordi.

 Nell’introdurre i lavori, la coordinatrice del Centro studi Theotokos,Anna Rotundo, ha sottolineato di aver voluto l’incontro in seguito all’interesse riscontrato nei giovani per i culti neopagani, attraverso i quali, comunque, essi manifestano la loro sete di spiritualità.

Al di là di ogni forma di neopaganesimo, secondo Rotundo, ciò conferma ciò che scrisse Mircea Eliade: “il Sacro fonda ontologicamente il mondo”. Francesco Crapanzano, docente di Storia del Cristianesimo, ha invece messo in evidenza la commistione tra riti di natura pagana e cristiana, nel senso che alcuni riti pagani sono stati mutuati e reinterpretati nell’accezione cattolico-cristiana. “Il sincretismo religioso è un fenomeno assai importante, esso indica la confluenza o la fusione tra elementi, in precedenza considerati inconciliabili, di religioni diverse. Culti, riti, sottili analisi teologiche ecc. appartenenti a due o più religioni in ‘competizione’, trovano una sorta di ‘compromesso’ non scritto né pianificato ibridandosi, sostituendosi o trasformandosi”, ha concluso Crapanzano.

Per quanto riguarda i Celti e il culto di San Martino di Tours, il direttore del Centro Theotokos, Martino Battaglia, ha messo in evidenza come vi sia uno stretto legame tra il Santo festeggiato oggi e le tribù celtiche che si sarebbero convertite al cristianesimo grazie al Santo, vescovo di Tours.

Storie e leggende affondano le radici in questo intenso rapporto simbolico-rituale che ancora oggi sopravvive nel ricordo di quei festeggiamenti che rappresentavano il culmine del capodanno celtico.

 San Martino, fondatore del monachesimo in Occidente rappresenta la pietra miliare a cui si sono ispirati ordini monacali in Italia a partire da san Benedetto da Norcia. 

Le conclusioni sono state affidate al filosofo Antonino Laganà, che ha messo in luce una serie di aspetti relativi al rapporto tra fede e religiosità popolare che ancora non trovano risposta in chi dovrebbe gestire in modo più chiaro situazioni così importanti. Laganà è partito dalla mitologia greca per giungere poi a comparare pratiche e riti che hanno segnato il tempo delle narrazioni poetiche che accompagnano da sempre quel rapporto intrinseco tra spiritualità e materialità.

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Festa di san Martino: dalla Norvegia alla Calabria, il lungo viaggio dello stoccafisso

Cosa lega la Calabria alla Norvegia? Apparentemente nulla.

L’unica caratteristica, che le due terre collocate agli opposti confini d’Europa sembrano avere in comune, è la distanza che le divide.

Tuttavia, abbandonando il porto della superficialità, emergono lentamente comuni elementi che rendono i due popoli meno distanti di quanto si creda.

Da Giske, minuscola isola situata nella regione dei fiordi occidentali, partì, infatti, Gange-Rolv, altrimenti detto Rollone il “Camminatore” che, con i suoi vichinghi, mosse alla volta della Francia, dove, nel 911, fondò il ducato di Normandia.

Da quella regione che, dagli uomini venuti dal nord, i “northmeen” per l’appunto, ha preso il nome, intorno all’anno 1000, i normanni iniziarono a muovere alla volta dell’Italia meridionale.

Alcuni di loro, ben presto, vollero smettere i panni dei mercenari per vestire quelli dei conquistatori. A compiere il grande passo, furono gli Altavilla che, scalzato, con Guglielmo il “Guiscardo”, l’ultimo duca longobardo, nel 1077, fondarono il Regno normanno, con sede a Salerno.

Da qui, nel volgere di pochissimi anni, riuscirono a conquistare l’intero sud Italia.

La presenza normanna, soprattutto, per merito di Ruggero II, ha contribuito a plasmare la Calabria, rendendola per certi aspetti così com’è.

In tempi più recenti, però, quel che ha ricongiunto la Calabria, soprattutto centro meridionale, alla Norvegia, è la cucina, o meglio uno dei piatti più caratteristici della tradizione gastronomica locale. Una pietanza legata, anche, al culto di san Martino, al punto che in molti centri della regione è in uso il detto: “di san Martinu piscistuoccu e vinu”.  

Sì, proprio, lo stoccafisso, il famoso “pesce a bastone (dal norvegese “stokkfisk”), pescato nelle fredde acque dell’Atlantico ed essiccato sugli scogli delle incantevoli isole Lofoten.

Come, il “pesce stocco”, che, altro non è, se non il merluzzo secco, sia arrivato in Calabria non è chiarissimo.

Le prime testimonianze risalgono al Cinquecento, quando, da Napoli, giunsero al porto di Pizzo Calabro i primi carichi di pesce stocco che, a dorso di mulo, iniziarono a prendere la via dell’interno, verso i paesi dove, generalmente, il pesce fresco non poteva arrivare.

A favorire la diffusione del nuovo prodotto, soprattutto nella Calabria centro meridionale, potrebbe essere stata la Certosa di Serra San Bruno, che, proprio nel 1513, era stata restituita al culto dei certosini, la cui dieta prescrive l’astinenza assoluta dalla carne.

Molto probabilmente, nel capoluogo partenopeo, era stato introdotto dai mercanti veneziani che lo avevano scoperto, già nella prima meta del Quattrocento, in maniera del tutto rocambolesca. Nella Serenissima, infatti, quello strano pesce era arrivato, grazie a Pietro Quirini, un patrizio veneziano, la cui nave, mentre era in navigazione verso le Fiandre, era andata alla deriva per alcuni mesi, prima di approdare, nel gennaio del 1432, sull’isola di Rost, nelle Lofoten.

Durante il suo soggiorno, trascorso in compagnia di sedici marinai superstiti, Querini, in una dettagliata relazione indirizzata al Senato veneziano, descrisse le abitudini dei pescatori locali, i quali “Prendono fra l'anno innumerabili quantità di pesci, e solamente di due specie: l'una, ch'è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l'altra sono passare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso l'una. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno”.

Da grandi mercanti quali erano, i naufraghi veneziani fiutarono l’affare e partendo da Rost, nel maggio del 1432, portarono con loro sessanta “stocfisi”. Giunto nel territorio della Serenissima, in ottobre, Querini “presentò” la sua scoperta. Quello strano pesce, riscontrò un immediato successo.

Ad agevolarne la diffusione non era solo il gusto, ma, anche, la facile conservazione e le prescrizioni religiose. A favore dello “stocfisi” giocava, infatti, un elemento del tutto particolare. Nell’Europa dell’epoca, durante i periodi di “magro”, oltre duecento giorni all’anno, i precetti cattolici prescrivevano l’astinenza assoluta dalla carne.

La circostanza induceva i fedeli a rivolgere la propria preferenza, proprio, verso quel pesce gustoso ed a buon mercato. La facilità di conservazione, unita alla possibilità di mangiare un piatto ricco di sostanze nutrienti, anche nelle località lontane dal mare, fecero, quindi, dello stoccafisso un prodotto particolarmente apprezzato dai calabresi. Non è un caso, infatti, che i due terzi dell’intera produzione norvegese finisca, oggi, in Calabria ed in Veneto.

Nell’estremo lembo dello stivale, lo “stocco” ha trovato la sua patria d’elezione a Mammola, tanto da essere inserito, dal Ministero delle politiche agricole e forestali, nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani.

Un prodotto tradizionale calabrese, essiccato dal tiepido sole delle Lofoten. Un vero tesoro per gli chef che possono sbizzarrirsi nell’elaborazione di autentichi manicaretti, anche se, in Calabria, la ricetta più tipica è anche quella più semplice, con sugo di pomodoro e patate.

Una ricetta tradizionale in Calabria, ma anche, ad Oslo, dove viene servito da asporto, dalla “Fiskeriet youngstorget”, la più antica pescheria ristorante della capitale norvegese.

Per vedere la galleria fotografia delle isole Lofoten, dove viene pescato e conservato lo stoccafisso clicca qui

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Isole Lofoten: dove e come nasce lo stoccafisso. Le foto

Lo stoccafisso è arrivato in Italia, nel 1432, grazie al patrizio veneziano Pietro Querini che lo scoprì, dopo essere naufragato sull’isola di Rost, nell’arcipelago delle Lofoten, in Norvegia. Pescato tra gennaio ed aprile, ieri come oggi, il merluzzo delle Lofoten viene conservato seguendo l’antico metodo dello “stockfish”. Il pesce, una volta decapitato ed eviscerato, prima di essere appaiato, viene messo ad asciugare su enormi rastrelliere a forma di “A” disseminate su ogni scoglio dell’arcipelago. Dopo aver perso  l’80% del peso, nella fase successiva, grazie alle sapienti mani e all’allenato naso dell’addetto alla conservazione, viene operata la classificazione del prodotto. Terminata la selezione, lo stoccafisso viene stivato in enormi magazzini da dove viene spedito in tutto il mondo. Le teste, infatti, una volta essiccate, vengono esportate in Nigeria, dove sono impiegate per preparare un popolare piatto piccante. Alle Lofoten, invece, le ricette più tradizionali vengono elaborate con la lingua e le uova, mentre nei chioschi è possibile trovarlo addirittura sotto forma di snack. Un soluzione, quest’ultima, apparentemente moderna, che rimanda, in realtà, all’abitudine dei vecchi pescatori di consumare pezzi di stoccafisso crudo. Infine, c’è il prodotto che ha nauseato generazioni di bambini, l’olio di fegato di merluzzo, estratto dalla bollitura del fegato e ricchissimo di vitamina D, tanto da essere impiegato, per decenni, nella cura e nella prevenzione del rachitismo.

Cliccando sulla foto è possibile accedere alla galleria (foto: Mirko Tassone)

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