"Sufficientemente annuncia la festa non un colpo scuro, ma l'odore che per le strade di spande dai forni dove cuoce il dolce che ripete il pastorale vescovile da voi tenuto nelle mani guantate di rosso: il baculum dei latini, l'abbàaculo di torrone o di 'nzullo' di mostacciolo o più modestamente di farina, latte ed uova con la cannella; non la musica di ottoni e clarini, l'allieta, ma la frignata d'impazienza interrotta dal ceffone materno per non farvi torto".
La festa di cui parla Sharo Gambino nel suo libro "Sull'Ancinale" è quella in onore di san Biagio.
Per certi aspetti, a Serra, la festa è piuttosto singolare, così come singolare era la circostanza che, fino a qualche tempo addietro, il Santo fosse il patrono del paese che deve la sua fondazione a san Bruno.
Una peculiarità la cui origine è piuttosto oscura.
Se, da una parte, infatti, è sufficientemente chiaro il legame, di origine bizantina, tra la Calabria ed il Santo protettore della gola, avvolto nella nebbia del mistero è, invece, quello con la cittadina delle Serre, dove il culto, potrebbe essere arrivato in maniera piuttosto rocambolesca.
A cercare di stabilirne l’origine, non senza una buona dose d’indeterminatezza, è, nella prima metà dell’Ottocento, don Domenico Pisani che, nel resoconto, fatto per la “Platea”, ovvero la “Cronistoria di Serra San Bruno” redatta dai cappellani della chiesa Matrice, rivela che: "venendo qui al di loro travaglio degli uomini, e passando per le vie della Lacina, ove vi era una chiesetta diruta dedicata a S. Blasi, vi tolsero il quadro ivi inculto, che portarono nella di loro chiesetta, ove non sappiamo se dalla pubblica devozione, o d’altro fu dichiarato Protettore e Patrono".
Il culto, dopo aver percorso le accidentate e tortuose vie della fede, nella cittadina bruniana deve essersi diffuso con una certa rapidità, al punto tale che la chiesa Matrice è vocata, proprio, a san Biagio. Ciò che, invece, non nasconde misteri è la lunga tradizione, tutta serrese, sviluppatasi attorno alla festa del Santo.
Alle manifestazioni liturgiche, caratterizzate da una processione molto partecipata che per tre volte faceva il periplo della chiesa Matrice, si associavano e si associa, tuttora, una singolare tradizione dolciaria. Ieri, come, oggi, infatti, i fedeli si recano in chiesa per far benedire gli “abbaculi”, tipici biscotti dall’inconfondibile forma del pastorale, il bastone usato dai vescovi durante le funzioni.
Al di là del riferimento liturgico e religioso, per secoli, gli “abbaculi” hanno rappresentato un vero e proprio suggello d’amore. Secondo la tradizione, infatti, nel giorno dedicato a san Biagio, il fidanzato donava alla promessa sposa un “abbaculu” decorato con mandorle e confetti.
Una volta benedetto, il biscotto veniva spezzato in due parti; la parte diritta rimaneva alla rappresentante del gentil sesso, mentre quella ricurva veniva restituita al futuro sposo. Una sorta di san Valentino in salsa serrese, caratterizzato dal riferimento, neppure troppo velato, alla sessualità ed alla fecondità della coppia.
Passati gli anni in cui la statua del Santo, durante la terza domenica d’agosto, veniva condotta al calvario, i serresi, nella giornata del tre febbraio non si sottraggono alla benedizione della gola attraverso l’imposizione di due candele incrociate.
Le due candele, rimandano al rito della Candelora, che, secondo Alfredo Cattabiani, sarebbe stato mutuato dalla festa in onore della dea Februa, ovvero Giunone, e all’usanza pagana di percorrere le strade impugnando fiaccole accese in segno di purificazione.
Tutto cristiano, invece, il culto legato alla benedizione della gola.
Secondo la tradizione, infatti, mentre veniva condotto a Sebaste (Armenia) per essere processato e poi condannato a morte, durante una persecuzione del IV secolo, san Biagio avrebbe salvato la vita ad un bambino in procinto di soffocare a causa di una lisca conficcataglisi in gola.