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La "Trasversale" ed i misteri della bretella

Lungo l’asse della sedicente Trasversale, le cui buffe vicende abbiamo già narrato, non sono solo quelli i misteri che nessuno spiega, e tra questi senza dubbio il più strambo è quello della Bretella.

 Dicesi, o piuttosto si dovrebbe dire Bretella un tratto di strada che dovrebbe, diciamo avrebbe dovuto collegare Gagliato con Petrizzi. Le motivazioni per cui i due borghi avvertano l’urgenza di essere collegati, mi sono ignote, stante la rarefazione della popolazione gagliatese, e poco meno quella di Petrizzi, che comunque non va a Gagliato. Primo mistero: a che serviva una strada.

 D’ora in poi vado a memoria: non ho documenti, e temo che anche il commissario Montalbano in persona stenterebbe a trovarli. Una decina di anni fa si sparse la voce che la Bretella avrebbe seguito il percorso Gagliato – Turriti – Campo; e avvennero degli espropri di terreni, con relativi ricorsi eccetera. Poi si seppe che niente valle, tutto a monte. Secondo mistero: perché cambiare strada.

 Lasciata dunque la valle del Turriti, che fine hanno fatto gli espropri? Terzo mistero: gli espropri.

 Iniziano i lavori a monte, con piloni, sbancamenti, tubi, ferro, muri di contenimento, e soldi, soldi, soldi, tantissimi soldi. Quarto mistero: quanti soldi?

 A questo punto, circa sei o sette anni fa, mi pare, muri ferro sbancamenti piloni tubi eccetera, tutto finisce nel nulla eterno, e l’erba, potente segno della Natura, si sta mangiando tutto. Quinto mistero: perché sono finiti nel nulla i sedicenti lavori?

 Sesto mistero, che non c’entra con la Bretella, ma è sempre da quelle parti: c’è una rampa all’ingresso di Gagliato che non porta da nessuna parte, però sono stati spesi denari.

ANAS, governo, regione, provincia, sindaci, giornali, intellettuali, imprenditori, agricoltori, e la magistratura, con particolare riguardo alla Corte dei conti, tutti muti eccetto Ulderico Nisticò con cui sono tutti d’accordo e poi se ne fregano. Settimo mistero.

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Simbario, quando a carnevale si festeggiava la nascita del figlio

Ogni popolo ha le sue tradizioni, ogni paese i suoi costumi. Una regola ferrea, soprattutto, in una nazione, come l’Italia, dove, a tratti, la diversità sembra essere l’unico, vero, elemento unificante.

Una millenaria diversità che emerge, con prepotenza, nella rappresentazione delle festività, nel corso delle quali, attorno ad un elemento archetipico unificante, si sono sviluppati modelli celebrativi totalmente diversi.

A questa regola, generale, non fa eccezione, neppure, il carnevale che pur finendo, per tutti, alla mezzanotte del martedì grasso, inizia in giorni e tempi differenti a seconda delle diverse zone.

Una ricorrenza che per molti rimanda ai Saturnalia romani, anche se, in realtà, rappresenta la reinterpretazione cristiana di una festa di passaggio da un anno all’altro, che si ritrova in varie tradizioni, sia orientali, che occidentali.

Sull’origine del nome, poi, c’è una pluralità di ipotesi, alcune delle quali riconducono al latino medievale “carni levatem”, ovvero “sollievo per la carne”, nel senso di temporanea liberazione dagl’istinti più elementari.

Altre, invece, come segnala Alfredo Cattabiani, nel suo “Lunario”, la interpretano come “carnes levare, cioè togliere le carni, o da carni vale!, “carne addio”, perché una volta in questo periodo si esaurivano in orge gastronomiche le ultime scorte di carni prima della primavera”.

In ogni caso, filo conduttore del periodo carnascialesco, erano le follie, gli scherzi e le beffe. Così, attorno al carnevale, ogni comunità ha costruito la sua tradizione ed ogni paese lo celebra alla sua maniera, secondo un canovaccio che, in molti casi, rimanda a qualche, non sempre documentato, episodio storico. Prova ne è, ad esempio, il celebre carnevale d’Ivrea, con la sua tradizionale battaglia delle arance, nel corso della quale viene ricordata la medievale rivolta della popolazione contro i feudatari.

In altri casi, invece, la tradizione ha lasciato il passo ad un nichilistico progresso, che nel volgere di pochi anni, ha portato alla dispersione di un patrimonio che affondava le sue radici in secoli di storia.

Tra le tradizioni, più eccentriche e bizzarre, svanite del nulla, quella che si celebrava a Simbario, dove il carnevale era l’occasione per festeggiare la nascita del primo figlio.

Una “costumanza” riportata da Bruno Maria Tedeschi, in una delle relazione contenute nel “Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato – Distretto di Monteleone di Calabria”, pubblicato nel 1859, nella quale, il sacerdote serrese scrive: “Il genitore […] non può esimersi dalla obbligazione di far festa, che ordinariamente si riserba pei giorni di carnovale. Allora si riuniscono tutti gli amici, che non sono pochi, e assaltano schiamazzando, con le maniere più rozze del mondo, il nuovo padre di famiglia, il quale già preparatosi a quell’attacco, come vuole l’uso, deve abbandonarsi ad una fuga precipitosa, e quelli ad inseguirlo, menando furiosamente le calcagna”.

La folle corsa per le vie del paese aveva un suo scopo preciso, non a caso, finiva sempre allo stesso modo.

Una volta raggiunto, il novello padre “viene coperto di mantelli e di lenzuola in modo da rimanerne schiacciato; poscia posto a cavalcioni sopra pertiche incrociate in guisa di barella, viene trasportato in mezzo ad un baccano di risa”, manco a dirlo, “nella taverna, ov’è nell’obbligo di far gli onori a tutti quei compagnoni”. Iniziata la festa, com’è facilmente intuibile, i rumorosi ospiti “non mancano di alleggerire il commestibile, e dar fondo a un competente numero di barili di vino, alternando le libazioni con canzoni, brindisi e balli grotteschi, che appena la notte interrompe”.

Una festa caratterizzata, quindi, dalla spropositata assunzione di cibo e vino, da parte di uomini che, con il neo padre, festeggiavano il carnevale, ovvero, quel limes oltre il quale iniziavano i rigori della quaresima, con i suoi giorni di “magro”, senza carne e senza stravizi.

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Serra: Rosi il tempo è scaduto

SERRA SAN BRUNO - La matassa, si sa, è difficile da dipanare. Il groviglio dei veti incrociati e le rivendicazioni personali di alcuni membri della guarnigione azzurra, il cui traguardo è una poltrona, stanno impantanando il sindaco Bruno Rosi. Ma nella palude c’è piombata anche l’intera cittadina che da mesi, ormai, aspetta un nuovo esecutivo e sconta la cattiva salute di una maggioranza che non riesce ad uscire dall’empasse. Se da un lato, infatti, il sindaco ostenta fiducia nella ricomposizione del governo cittadino, dall’altro il tempo stringe la borsa e la necessità di dare una svolta all’ultimo anno di amministrazione prima della tornata elettorale è quanto mai indispensabile. In ballo non c’è soltanto l’attività amministrativa, ma anche la ricandidatura di Rosi. Il primo cittadino non fa mistero di voler essere ricandidato ma nel contempo sarebbe pronto a farsi da parte qualora non dovesse portare a termine alcuni degli obiettivi che si è prefissato. Quali? La fine della sospensione del taglio dei lotti boschivi che dovrebbe portare nelle casse comunali una boccata d’ossigeno e la soluzione del problema dell’acqua. Questi, dunque, i punti sui quali Rosi ha intenzione di giocarsi il suo futuro amministrativo. Ma, come si suol dire, ha fatto i conti senza l’oste. Cioè non ha fatto i conti con la scelta dei membri dell’esecutivo cittadino che dovrebbero affiancarlo in quella che si presenta come una lotta contro il tempo. Mai, così come in questo frangente, il sindaco, ha bisogno di uomini all’altezza della situazione. Come diceva Eduardo De Filippo: «Il presepio è bello ma i pastori non sono buoni». L’Avvento è finito ed ora è tempo di cambiarli.

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Serra e la crisi: ecco cosa è cambiato nell’ultimo lustro

SERRA SAN BRUNO – La sensazione, confermata dai numeri, è che la cittadina della Certosa si stia trasformando, diversificando la sua popolazione e, nel contempo, perdendo risorse umane. Basta “vivere” le strade per notare il soffio di un vento cosmopolita e il mutare delle esigenze dei giovani serresi che, sempre più frequentemente, scelgono di lasciare la propria terra per giungere alla realizzazione professionale. Questa situazione, che più o  meno ogni famiglia tocca con mano, si deduce anche dai dati, che confortano l’ipotesi di un processo di cambiamento avvertito – con diversa intensità a seconda delle aree - in tutta la Penisola. Ma scendiamo nei dettagli per verificare quanto sta avvenendo.

Innanzitutto, la popolazione sostanzialmente non cresce perché in un contesto socio-economico con troppe incertezze le coppie sembrano restie a tradurre il loro sentimento nella nascita di un figlio. Ragionamento comprensibile visti i rischi derivanti dall’atavico ritardo di sviluppo a cui si sono andati a sommare gli effetti nefasti della congiuntura economica.

 

 TAB. 1 – DINAMICHE DEMOGRAFICHE SERRA SAN BRUNO

 

2010

2011

2012

2013

2014

Nati

79

53

85

65

51

Morti

60

60

66

62

69

Diff. (A)

19

-7

19

3

-18

 

Preoccupa inoltre il trend delle persone che si trasferiscono altrove (residenze cancellate): rimane alto il livello di chi emigra per motivi di studio o di lavoro ed è facile desumere che nell’entroterra vibonese venga percepita una sorta di assenza di opportunità di crescita. E chi parte spesso non torna perché evidentemente la differenza di benessere, al netto della mancanza degli affetti familiari, è elevata.

Altalenante, ma con picchi significati, è il flusso delle persone che arrivano a Serra e vi pongono la loro residenza (nuove residenze). Non si tratta di lavoratori provenienti dai centri confinanti (come riscontrato nei decenni precedenti) e, d’altronde, non ve ne sarebbe motivo in considerazione della graduale chiusura o del ridimensionamento degli uffici pubblici. Sono piuttosto abitanti dell’Est europeo o extracomunitari che sperano in condizioni di vita più favorevoli. E sono coloro che arrivano nella nostra regione ponendo in essere nuove attività commerciali o essendo disponibili a compiere lavori più umili non sempre accettati dai residenti.

 

TAB. 2 – FLUSSI MIGRATORI SERRA SAN BRUNO

 

2010

2011

2012

2013

2014

Nuove residenze

104

112

88

179

81

Residenze cancellate

107

131

141

151

121

Diff. (B)

-3

-19

-53

28

-40

 

Il risultato di questi fattori è il progressivo svuotarsi dei tratti caratterizzanti di un paese che, con la sua gente, perde le sue tradizioni senza adeguarsi correttamente alla globalizzazione.

 

TAB. 3 – VARIAZIONI NELLA POPOLAZIONE SERRA SAN BRUNO

 

2010

2011

2012

2013

2014

Diff. (A)

19

-7

19

3

-18

Diff. (B)

-3

-19

-53

28

-40

Variazione tot.

16

-26

-34

31

-58

 

A riprova delle difficoltà a permanere nel centro montano vi è la crescente disoccupazione generata, oltre che dal crollo dell’economia reale che ha aggravato lo stato di un apparato produttivo già asfittico, dalla combinazione della scomparsa dei vecchi mestieri e della formazione di giovani con competenze universitarie di fatto inutilizzabili nell’ambiente lavorativo del comprensorio serrese. Lampante, a tal proposito, è l’aumento dei soggetti disoccupati nella zona di competenza del Centro per l’Impiego di Serra.

 

TAB. 4 – DISOCCUPATI NEL COMPRENSORIO DI COMPETENZA DEL CENTRO PER L’IMPIEGO DI SERRA SAN BRUNO

 

2010

2011

2012

2013

2014

Disoccupati

1505

1796

1966

2199

2394

 

La crisi, comunque presente in ogni dove, produce poi il distacco dalle Istituzioni e dalla vita pubblica ed il segno inconfondibile è la sempre minore partecipazione alle vicende politiche.

La delusione si manifesta soprattutto negli appuntamenti elettorali: tutti i partiti perdono consensi e gli elettori dimostrano la disapprovazione non recandosi alle urne o non esprimendo alcuna preferenza. Come riferimento possono essere prese le elezioni regionali, in quanto più recente consultazione elettorale e quindi con un dato più attendibile rispetto all’analisi proposta.

 

TAB. 5 – VOTANTI ALLE ELEZIONI REGIONALI A SERRA SAN BRUNO

 

2010

2014

Votanti

4228

3409

Aventi diritto

7206

7264

% Votanti

58,67

46,93

 

Serra non è più la stessa: è doveroso prendere atto del cambiamento ed intervenire con le strategie e le azioni più opportune per non disperdere un patrimonio umano di inestimabile valore.

 

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Serra: gioiello di arte, fede e natura. Ma il presente è grigio...

Quando si scrive Serra San Bruno si legge Certosa. È già abbastanza ricca la letteratura e la manualistica certosina. Da ogni parte del mondo: poeti, storici, scrittori, giornalisti, scienziati, teologi si sono avvicendati attorno alla storia di questo preziosissimo bene culturale che Serra custodisce gelosamente, orgogliosa com’è di essere stata eletta primogenita della scelta di San Bruno, quando venne in Calabria al seguito del suo discepolo, il Papa Urbano II al quale rifiutò la nomina di vescovo di Reggio Calabria e soprattutto gelosa di custodire e venerare le reliquie del Santo che qui vi morì il 6 ottobre 1101. Tra i tanti studiosi della Certosa mi piace ricordare: Benedetto Tromby, Domenico Taccone Gallucci, Benedetto Croce, Andrè Ravier, Bruno Maria Tedeschi, Agostino Ribecchi, Cesare Mulè, Corrado Iannino, Tonino Ceravolo, Sharo Gambino, Ilario Principe, Enzo Romeo, Pietro De Leo ed altri;  tra i visitatori illustri cito: il re borbonico Ferdinando II, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, lo statista Alcide De Gasperi, molti viaggiatori stranieri del ‘700-800, il Cardinale Carlo Maria Martini, oltre Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI. Oggi finalmente la Certosa vive il suo millenario silenzio e la sua clausura come voluto dalla sua Regola cartesiana, senza più invasioni di turisti o semplici curiosi. Infatti nell’estate del 1994 è stato inaugurato il Museo della Certosa allestito all’interno dello stesso muro di cinta e ai piedi dell’antico torrione sopravvissuto al terremoto. Si tratta di una struttura di 1200 mq che ricostruisce quasi fedelmente l’atmosfera della vita claustrale dei Certosini. Ma Serra San Bruno non è solo Certosa: è la città dell’arte nel verde. Entrando in Serra è d’obbligo visitare, perché no, il cimitero monumentale ricco di quattro artistiche chiesette e di tanti monumenti sepolcrali in granito, marmo e bronzo e tra i tanti spicca il monumento granitico dell’artista serrese Biagio Lo Moro e la statua bronzea del Redentore dello scultore Salvatore Pisani di Mongiana. Percorrendo, poi, il centro storico visitiamo le quattro chiese che, come ha scritto Enzo Vellone, “sono la prova del nove di un grande retaggio architettonico ben innestato in un contesto paesaggistico e ambientale quasi unico”. La prima di queste è la chiesa arcipretale, la Matrice, detta anche di San Biagio, con artistica facciata in granito a tre navate ed edificata nel 1785; all’interno sono conservate pregevoli opere marmoree, lignee ed oggetti sacri in metalli preziosi, molti di questi provengono dalla Certosa rinascimentale. La seconda è il prezioso tempietto dell’Addolorata di architettura barocca del 1721, ad una sola navata con portale esterno in bronzo del serrese Giuseppe Maria Pisani ed il ricco portale interno ligneo del “professore” Salvatore Tripodi. Pochi metri più in là, la chiesa, la più antica, dell’Assunta detta anche di San Giovanni.  Infine la chiesa, anche questa, dell’Assunta, è detta dello Spinetto dal nome del nuovo quartiere sorto dopo il terremoto del 1783, che custodisce un’artistica e raffinata statua lignea  dell’omonima Madonna, di scuola napoletana. Oltre alle citate chiese, a Serra si possono ammirare nobiliari palazzi con portali artistici e soffitti riccamente lavorati, fontane, obelischi e tantissime altre opere d’arte. Insomma un vero museo a cielo aperto immerso nel vede. È doveroso, qui, precisare, che tutto il ricco ed abbondante patrimonio artistico è creatura di artisti serresi: scultori, scalpellini del granito, ebanisti, architetti, pittori ed artisti del ferro battuto. Sono artisti figli di tante dinastie che vanno dai Pisani agli Scrivo, ai Barillari e ai De Francesco, dagli Scaramozzino agli Zaffino, ai Reggio e ai Lo Moro e Tripodi già citati. Sono quegli uomini d’arte che hanno costituito la leggendaria “Maestranza di la Serra” che ha arricchito, anche, tante chiese sparse in Calabria: Nicotera, Vibo, Catanzaro, Stilo, Roccabernarda, Petronà, Santa Severina ed altri e financo a Napoli dove ha operato Biagio Scaramozzino. Di sicuro, oggi, però il vero fiore all’occhiello, in termini di fede, arte e natura è il Santuario mariano regionale di Santa Maria del Bosco, forte richiamo turistico in ogni stagione dell’anno. Siamo a due chilometri dalla Certosa, nell’antico eremo certosino dove sono evidenti i luoghi abitati e vissuti dal Santo. Nello splendido scenario incorniciato da alte conifere di abeti bianchi, faggi, pini ed altre singolari piante, non solo spicca la chiesa che custodisce una bella statua della Madonna, ma di fronte a questa troviamo la cappella che ricorda la grotta dove viveva e dormiva il Santo e per testimoniarlo vi è posta la statua marmorea di san Bruno dormiente. Scendendo la caratteristica scalinata di Giuseppe Maria Pisani, vediamo il laghetto con il santo tedesco genuflesso e immerso nell’acqua a ricordo dei suoi momenti penitenziali. Questa è Serra San Bruno: città di arte, fede e natura, città testimonianza ed opera del Divino. Ma tutto questo ben di Dio par che voglia morire seppellito dall’indifferenza e dall’inettitudine degli uomini. Per dirla bruscamente, c’è gente che non ci ritorna più o che preferisce altre mete meglio raggiungibili e più accoglienti. Della  tanto cantata e suonata Trasversale delle Serre, dopo più di mezzo secolo (sic!) aperti solo alcuni tratti e pericolanti con una segnaletica che fa venire i brividi. A Serra il turista non si disseta più all’acqua limpida, cristallina e minerale ma a quella dell’Alaco. A Serra e dintorni non si può parlare più di montagna incontaminata: chi sa quali e quanti veleni sono interrati. A Serra non trovi un locale per incontri culturali manco a pagarlo a peso d’oro se non il solo Palazzo Chimirri ma spesso occupato da politici e politicanti. E quella bella struttura che è stato il Kursaal, l’hanno lasciato lentamente ed inesorabilmente decadere. Insomma ce n’è per far dire a turisti o visitatori della domenica: chi me la fa fare ad andare a Serra San Bruno?

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Di "Trasversale" solo le promesse

 Detengo un prezioso documento: la prima riunione per parlare della Trasversale delle Serre, allora detta Superstrada; e la annunziò come imminente. Era il 1968, io frequentavo ancora il Liceo.

 Quell’anno stesso m’iscrissi all’Università di Pisa, e lì feci il Sessantotto, con prolungamento l’anno seguente. Via, era troppo presto perché fosse finita la Trasversale delle Serre, siamo onesti.

 Era poi l’anno 1971 quando io, sì, proprio io, avendo in corso una complessa storia d’amore con una fanciulla abitante sul Tirreno, io, sì, proprio io, io peggio del più squallido politicante calabro, le dissi queste immortali parole o giù di lì: “Cara, sarà facile vederci, perché tra poco faranno la Trasversale delle Serre”. Vi prego di credermi, lo giuro, è vero.

 Era poi l’anno 1985, credo, e a Serra, come accadeva allora ogni anno, c’erano le elezioni comunali; venne tale Tassone Mario con un funzionario dell’ANAS, e ci dimostrò, carte alla mano, che erano stati stanziati i soldi per la Trasversale. Io, carte alla mano, feci due conti, e, presa la parola, obiettai che potevano fare esattamente un chilometro e settecento metri. Sarebbe quella specie di allargamento dalle parti di Vallelonga. Dite voi: e Vallelonga che c’entra? C’entra, perché in quegli anni tutti i sindaci dell’Istmo e dintorni volevano la Trasversale sotto casa, e il progetto cambiò una ventina di volte senza un centimetro di asfalto.

 Passò il 1971, il 1972, 3, 4, 5… 1980… 1990… Arrivò nel 1994 al potere Berlusconi con il MSI e la Lega, e in quel di Chiaravalle io, sì, proprio io, partecipai come relatore a un convegno che, presenti alcuni esponenti di quel fugace governo e dintorni, dichiarò che la Trasversale era “cantierabile”; io commentai che prendevo atto, anche in cuor mio sentivo che questa melodiosa parola era troppo strana per sembrarmi traduzione di “inizieremo i lavori domani”; e così, infatti, non fu.

 Fecero poi quella che, al massimo, possiamo chiamare Tangenziale di Chiaravalle. Arrivò il governo D’Alema (sì, o italiani, abbiamo visto anche questo!) con sottosegretario Soriero, il quale pensò bene che il traffico convulso di Argusto, nota e popolosissima metropoli, aveva bisogno di almeno due svincoli, uno ovest e uno più o meno est; e qualche miliardo di lire dell’epoca volò per soddisfare la più ridicola vanagloria.

 Si tracciò poi persino il tratto Gagliato – Argusto, che è lì, che è pronto da anni e anni, ha tutto, asfalto eccetera, però ad Argusto ne impediscono l’accesso dei veri megaliti di cemento. Davvero un mistero, che nessuno mi vuole svelare. ma il 15 novembre 2001 la stampa annunziava imminente l’apertura, entro un anno. Dal 2002 sono passati 13 anni invano.

 Aggiungiamo il tratto di Spadola e quello di Serra, e questo è tutto, dal 1968!

Una paroletta sulla qualità. La locuzione superstrada è già di per sé arcaica, roba da anni 1960, un esperimento che poi si abbandonò. Il risultato attuale è una strada a due corsie con divieto continuo di sorpasso (violato alla grande, ma divieto), sicché, se mai finirà e uno volesse davvero, come io promisi nel 1971, da Soverato raggiungere il Tirreno, e per disgrazia gli capita davanti un’Ape Piaggio, allora gli conviene di più la gloriosa murattiana, borbonica e fascista 182 con scorciatoia Filogaso!

 Alla prossima, la Bretella di Gagliato. Una barzelletta per volta, ragazzi.

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Serra: Ospedale senza impianto antincendio

Si arricchiscono di nuovi particolari le rivelazioni fatte, martedì scorso, dal “Redattore”, sul mancato funzionamento dell’impianto antincendio al primo pianto dell’ospedale di Serra San Bruno. Pare, infatti, non solo che l’impianto sia, allo stato, fuori uso, ma che addirittura non sia mai stato completamente installato. Secondo quanto siamo riusciti ad apprendere, la ditta che stava svolgendo i lavori, ad un certo punto avrebbe sospeso la propria attività. L’installazione, pertanto, non sarebbe mai stata completata. Alla luce di tale situazione, i dubbi e gli interrogativi si fanno sempre più legittimi. A questo punto, chi di dovere, farebbe bene ad intervenire per cercare di dare delle risposte. Tanto più che le domande sollevate rimangono tutte sul tappeto. Quanto è stato speso per un impianto antincendio che non sarebbe stato neppure installato? Perché i cappuccetti che ostruiscono i rilevatori di fumo sui quali campeggia la scritta “remove before use” non sono mai stati rimossi? Da quanto tempo sono lì? E’ vero o non è  vero che la ditta non ha mai consegnato i lavori? E’ vero o meno che l’installazione non è mai stata completata? Domande che necessitano di urgenti risposte, tanto più che la situazione coinvolge il pronto soccorso, l’astanteria, la radiologia ed il reparto analisi, ovvero i luoghi in cui sono presenti strumentazioni ed apparecchiature sottoposte a pesanti carichi di corrente che fanno aumentare notevolmente la temperature. A ciò si aggiunga che, per loro natura, le strutture sanitarie sono classificate a rischio di incendio elevato per la complessità delle attività svolte, degli impianti tecnologici che vi operano e per le particolari condizioni di salute delle persone ospitate. In un ospedale la principale misura di tutela è rappresentata, sotto ogni profilo, dalla prevenzione ovvero da tutti quegli accorgimenti tecnici e di comportamento umano che servono per prevenire adeguatamente il rischio di un incendio. A questo punto, la domanda più pertinente, è la seguente: cosa potrebbe succedere se dovesse scoppiare un incendio?

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Serra - Ospedale: fuori uso l'impianto antincendio?

Chi, pur in un momento di estremo bisogno, alzasse gli occhi trovandosi al primo piano del nosocomio di Serra San Bruno, avrebbe l’impressione di vedere sul soffitto degli strani dischetti di colore giallo. Una volta escluso che si tratta di dischi volanti, il secondo interrogativo che lo sbigottito osservatore si pone è il seguente: di cosa si tratta? Semplice. Sono i cappucci che ostruiscono i rilevatori di fumo dell’impianto antincendio di cui pure sarebbe dotato l’ospedale serrese ma che, a quanto pare, non sarebbero entrati in funzione. Già, perché la dicitura sopra il cappuccio è abbastanza eloquente: “remove before use”. E allora ci chiediamo, da quanto tempo sono lì? Perché non sono stati rimossi? L’impianto antincendio è stato omologato? E se sì, perché, come pare, non è ancora entrato in funzione? Una situazione che riguarda il pronto soccorso, l’astanteria, la radiologia e il reparto analisi. Tutti luoghi dove si trova la maggior parte della strumentazione sottoposta a carichi di corrente, sollecitazioni e temperature piuttosto importanti, basti pensare alla sala tac dove la temperatura è mediamente più alta rispetto alle altre sale del nosocomio. L’impianto di rilevazione fumi ed incendi è obbligatorio per legge, in molti casi la sua importanza in aziende, ospedali, centri commercaili e luoghi pubblici in genere, è fondamentale, spesso addirittura essenziale. Di norma, bastano pochi minuti per stabilire se un incendio potrà essere estinto o solo contenuto, e questa possibilità dipende dalla velocità con cui lo si individua, appunto grazie ai rilevatori di fumo. Le strutture sanitarie, infatti, sono per definizione classificate a rischio di incendio elevato per la complessità delle attività svolte, degli impianti tecnologici con i quali si opera e per le particolari condizioni di salute delle persone ospitate. In un ospedale la principale misura di tutela è rappresentata, sotto ogni profilo, dalla prevenzione ovvero da tutti quegli accorgimenti tecnici e di comportamento umano che servono per prevenire adeguatamente il rischio di un incendio. Proprio all’ospedale, dunque, luogo che nell’immaginario collettivo dovrebbe tutelare più di ogni altro la salute e la sicurezza dei suoi ospiti, tutto quello che abbiamo raccontato lascerebbe presupporre che l’impianto antincendio non funzioni.

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