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Mongiana ed il misterioso “delitto dell’amuleto"/ PARTE I

“In questa provincia v’è un Comune, Mongiana, il cui nome rimarrà negli annali della criminologia per uno strano delitto – rimasto finora impunito – che per la prima volta nella storia delle istruttorie giudiziarie, ha chiesto l’intervento di un perito non medico né chimico né psichiatra, ma studioso, e insigne etnografo: il professor Raffaello Corso, titolare di quella materia nell’istituto Superiore Orientale di Napoli. E a lui, infatti, che i giudici dell’Assise d’Appello di Catanzaro hanno chiesto di spiegare qual è il significato del misterioso amuleto appeso al collo di un contadino, Francesco Demasi, di settanta anni, trovato morto e legato ad una trave del suo casolare, in contrada S. Maria di Cropani”.

Inizia con queste parole, un dettagliato resoconto giornalistico, pubblicato nel maggio del 1956 sulla “Stampa “ di Torino.

Vergato da Crescenzo Guarino, l’articolo descrive l’ultima fase processuale di un omicidio perpetrato a Mongiana, il 27 luglio 1950.

Non si tratta del solito omicidio, di un assassinio come gli altri. Oltre alle modalità con le quali è stato consumato il crimine, di anomalo c’è un particolare: al collo della vittima, l’omicida ha appeso un ciondolo raffigurante una tartaruga.

Un simbolo che induce i magistrati della Corte d’Appello di Catanzaro a rivolgersi ad un illustre studioso per cercare di venire a capo del mistero. I giudici sperano, infatti, di capire quale possa essere stata la ragione per la quale l’assassino abbia lasciato quello strano oggetto.

La relazione presentata da Raffaele Corso rappresenta, però, solo l’epilogo di una vicenda iniziata qualche anno prima.

Siamo negli ultimi giorni nel luglio del 1950, fa caldo, è tempo di raccolto e le attività agricole fervono. Un contadino, Francesco Demasi, come ogni anno, con l’arrivo dell’estate si stabilisce nel suo fondo agricolo situato nella contrada Santa Maria di Cropani di Mongiana e vi trascorre tutto il tempo. La mattina bisogna iniziare i lavori prima che il sole sia alto. Per non perdere tempo, anziché fare ritorno nella sua casa di Mongiana, a fine giornata l’anziano si sdraia su un pagliericcio, fatto da una “coperta di lana grigia ed una giacca”, che ha allestito in una capanna senza porta. Accanto alla bicocca c’è un casolare nel quale l’uomo custodisce gli attrezzi ed altre povere cose. Trascorsa la notte, all’alba si sveglia, si alza e riprende le sue attività. Ogni giorno è uguale al precedente, fino al 27 luglio, quando “una guardia campestre, Bruno Monteleone, si recò alla stazione dei Carabinieri di Serra San Bruno per denunciare che, trovandosi a passare lungo la carrozzabile per Fabrizia, presso un fondo di Santa Maria di Cropani,  aveva udito delle grida di dolore e d’aiuto. Dalla voce riconobbe subito un suo amico, Antonio Demasi. Accorso nell’abitazione, si era trovato innanzi ad un fatto atroce: il corpo di Francesco, padre di Antonio, stava sollevato da terra, legato ad una fune che, girandogli sotto le ascelle, era sospesa al soffitto. Il vecchio, a piedi nudi, indossava dei pantaloni di tela blu ed una camicia di cotonina Kaki. Nell’interno del casolare, composto di una sola stanza, le poche cose alcuni recipienti di terracotta, due ceste del pane) tutte al loro posto dimostravano che non vi era stata lotta”.

La scena, macabra, si arricchisce di nuovi particolari quando le risultanze della “perizia necroscopica” evidenziano che l’uomo è stato soffocato nel sonno.

Qualcuno, quindi, nel cuore della notte, dopo averlo strangolato si è preso la briga di “trasportare” il cadavere nel “casolare”, di appenderlo con una fune ad una trave e di lasciargli addosso un misterioso amuleto.

Fosse stato consumato ai giorni nostri, il delitto avrebbe animato sicuramente una delle tante trasmissioni in cui si spettacolarizza, anche, la morte più violenta. Ma nell’Italia degli anni Cinquanta la vita, come la morte ha una sua sacralità.

CONTINUA


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