La Calabria è la "miseria senza fantasia"

Nei giorni scorsi, tra le tante vecchie carte gelosamente custodite del mio modesto archivio librario, ho ripreso la copia di un articolo, datato 20 marzo 1958, a firma di Ugo La Malfa scritto per “La voce repubblicana” e titolato “La miseria di Cutro”. Mi piace, ora, riproporlo e trascriverlo fedelmente, senza ulteriore commento, pur consapevole che esso non sia più del tutto attuale e molto vicino alla realtà dei nostri giorni ma pur utile ad aprire un dibattito tra le coscienze attorno ai grandi temi di oggi che, fatte le debite proporzioni, riprendono le tinte di ieri.

 

Mimmo Stirparo

 

“Ha scritto Alfredo Todisco su La Stampa di giorni fa, a illustrazione di una sua inchiesta in Calabria, e dopo aver elogiato la riforma agraria, la bonifica, l’intervento della Cassa del Mezzogiorno, le seguenti impressionanti parole: “Un miglioramento, senza dubbio, vi è stato…La visione di Cutro, tuttavia, è ancora terribile. A Napoli la miseria, anche la più tetra, è sempre di uomini che conservano la scintilla dell’anima. Qui la miseria ha uno sfondo che ha perduto molto dell’umano. Senza canti, senza tradizioni artigiane, senza costumi particolari. Cutro è un paese abitato da un popolo di bambini scalzi e di cani randagi. Gli adulti sono sui campi, oppure aspettano un lavoro lungo la strada principale, seduti a terra, gli sguardi stupefatti. I cani di Cutro hanno lunghe orecchie penzolanti, sono tutti diversi gli uni dagli altri, offrono una varietà infinita di musi contraffatti e spiritati…A Cutro, forse il comune più depresso d’Italia, la natalità raggiunge uno dei tassi più elevati, il cinquanta per mille. Gli interni (delle case) sono ancora più tetri delle vie, se possibile. Pavimenti di terra battuta, cosparsi di foglie e di verdura. Il fuoco spesso si accende in un angolo dell’unica stanza, il fumo incrosta il muro di nero, esce dal tetto sconnesso. Nessuna meraviglia che in queste condizioni il tracoma e la tubercolosi infieriscano tra la popolazione del comune. Spingendo ancora più nell’interno del marchesato di Crotone, si traversano paesi che oltre a non avere acqua, luce, fognature, mancano persino del cimitero.” Ho citato queste parole per dimostrare come, a quasi dieci anni di distanza dalla riforma agraria, dall’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, da una politica di interventi statali, la situazione di molte zone d’Italia sia rimasta in uno stadio di miseria quasi inconcepibile. E non si tratta della sola Calabria o del solo Mezzogiorno. Si visitino molti Comuni montani dell’Umbria, delle Marche, della stessa Emilia, del Piemonte: il quadro non è differente. Vi è in corso una vasta e clamorosa polemica fra statalisti e antistatalisti. L’on. Malagodi, il senatore Sturzo, il ministro Pella, vantano i meriti della libertà economica e si proclamano fieri assertori dell’antistatalismo. Altri difendono lo statalismo o, almeno, si fanno propugnatori dell’intervento statale. Ma come è avvenuto che essendovi state, nel nostro Paese, fasi di libertà economica, a cui sono succedute cosiddette fasi di statalismo, essendo o non essendo esistiti l’IRI e l’ENI, essendovi stati al governo uomini della destra o della sinistra, democratici o totalitari, la sorte di Cutro sia rimasta la stessa? Che cosa ha fatto sì che la civiltà più elementare non abbia sfiorato Cutro, o altri Comuni che si trovano nella stessa tragica condizione di Cutro? Come è possibile che, nell’anno di grazia 1958, giornalisti come Todisco, facciano nel nostro Paese, che noi presumiamo essere di alta civiltà, constatazioni e rilievi che si possono tutt’al più riferire a miserrimi villaggi dell’Egitto, della Turchia o dell’India? Quale mai razza di collettività e di società è la nostra, che può mostrare, contemporaneamente, i grattacieli e le costose costruzioni edilizie di Milano e le miserie di Cutro? Come si può pretendere di far parte dell’Europa, della cosiddetta civiltà occidentale, e avere casi come quelli di Cutro, facendone oggetto di commossi e attoniti reportages giornalistici soltanto? Siamo alla vigilia di una battaglia elettorale. Possiamo forse sperare che la sorte di Cutro migliorerà nei prossimi cinque anni? L’on. Malagodi, il senatore Sturzo, il ministro Pella promettono di smantellare l’IRI o l’ENI, di fare tabula rasa dello statalismo, ma forse ci danno una soluzione qualunque del problema della miseria italiana? Lo statalismo imperversa e non si accorge di Cutro, ma se ne è accorta forse l’iniziativa privata in tutti questi anni? Lo Stato sperpera denaro in inutili cose, ma i grattacieli di Milano, ma i lussuosi cinematografi oggi in crisi, innegabili frutti dell’iniziativa privata, sono proprio utili in un Paese che mostra agli stranieri attenti e consapevoli, una desolazione e una miseria ancora tanto assurdamente diffuse? In verità, dopo i primi interventi del 1950, dopo gli entusiasmi e le polemiche intorno alla riforma agraria e alla Cassa del Mezzogiorno, la democrazia si è seduta. La fiamma si è spenta e il regime di oggi continua  l’andazzo di ieri, le tradizioni del fascismo o dello Stato liberale. Si continueranno a gettare centinaia di miliardi dell’iniziativa privata o dell’iniziativa pubblica in investimenti voluttuari o del tutto superflui o non commisurati alle necessità elementari del Paese. Ma all’orizzonte di Cutro non apparirà nulla di nuovo, come dieci anni, come cinquant’anni, come un secolo fa. È evidente che la nostra non è una civiltà degna di questo nome, se per civiltà s’intende una condizione di vita dignitosa ed omogenea. E’ evidente che senza un grande sforzo di disciplina, di austerità, di solidarietà, l’Italia non sarà mai un Paese occidentale e moderno. È evidente che solo lo Stato, affiancato dalle regioni, dai comuni, dall’iniziativa pubblica e privata, può portare a compimento un grandioso processo di redenzione di tutta la società nazionale. Ma vi è forse una qualsiasi indicazione politica che questo possa essere fatto nei prossimi anni? Vi è un impegno, una battaglia, un programma che dia qualche speranza? Dieci anni fa la democrazia aveva più sensibilità ai problemi della condizione storica e sociale del nostro Paese di quanta non ne abbia oggi. È questa la causa vera del generale malessere e di indubbia decadenza. Troveremo l’energia morale e le forze politiche necessarie ad un compito che sistematicamente una certa Italia ufficiale, sia di destra o di sinistra, statalista o antistatalista, democratica o totalitaria, trascura, occupandosi di ben più solidi interessi e di meno crude realtà? E quando governo e parlamento a Roma, ma alcuni liberi iniziativisti a Milano o a Torino, si accorgeranno che Cutro è in Italia e non nel centro dell’Africa?” (Ugo La Malfa)

 

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