ESCLUSIVO: Massimo Bubola si racconta al Redattore

Massimo Bubola, cantautore controcorrente e di culto, ha composto venti album e scritto più di 300 brani. Nelle sue canzoni potenza del rock e linguaggio poetico si abbracciano alla tradizione della musica popolare e della canzone d’autore italiana creando quella forma particolare di espressione musicale che va sotto il nome di “rock d’autore”. E’ stato coautore insieme a Fabrizio De Andrè di veri e propri capolavori della musica d’autore come “Rimini” e “L’indiano”. E’ una calda serata di luglio e lo incontriamo a Dinami poco prima del suo concerto. Il cielo non è quello dell’Irlanda ma è cangiante anche in Calabria e a Massimo Bubola questo non è sfuggito.

Massimo, se non ricordo male, almeno negli ultimi anni, questa è la tua terza volta in Calabria. Cittanova, Nardodipace e ora Dinami, centri diversi ma un’unica gente, come hai trovato il pubblico calabrese?

«E’ sempre un pubblico molto partecipe e molto attento. Quando posso suonare in Calabria lo faccio con grande soddisfazione perché i calabresi dimostrano un grande amore per la lingua e per la poesia. I miei testi, nei quali uso abbastanza la metafora, vengono molto capiti perché il calabrese ha a che fare molto col greco, una lingua colorata ed espressiva. Ti confido che vorrei venire più spesso».

La Calabria ti piace, ma quale canzone dedicheresti a questa terra eternamente martoriata?

«Sicuramente una canzone di speranza e di riscatto per certe realtà sempre sottovalutate e considerate marginali. Io ho scritto molte canzone sui perdenti e credo che, per quanto riguarda quelle scritte insieme a Fabrizio De Andrè, “Fiume Sand Creek” sia molto adatta. Per quelle solo mie dedicherei “Il cielo d’Irlanda” perché è fondamentalmente una canzone di speranza, se al posto dell’Irlanda ci metti la Calabria ci può stare. Anche questo è un cielo molto cangiante».

Cosa ti è piaciuto del territorio calabrese? Lo hai visitato?

«La Calabria è una regione montuosa, di grandi mari ma anche di grandi montagne e soprattutto la gente del nord questo non lo sa. Ho girato la Sila e l’Aspromonte e ho visto le grandi foreste di alberi di alto fusto».

Ti manca la parte montana della Calabria centrale, le Serre.

«Quando ho suonato a Nardodipace sono passato da Serra San Bruno dove ho fatto tappa alla Certosa, è famosissima. Sai, ho studiato storia dell’Ordine benedettino».

Davvero?

«Si io sono storico, sono medievalista e studiando le riforme dell’Ordine benedettino ho studiato la Regola di San Bruno, quella dei certosini è anch’essa una riforma. Conosco bene Bruno di Colonia. Ti dirò di più, sono andato a vedere la Certosa di Padula, quella di Farneta, hanno chiese di grande fattura. In Calabria ci sono territori importanti. Lo scorso novembre sono andato ad Olimpia  e c’era il “Tempio del tesoro”, le nazioni dell’antica Grecia avevano una casa dove tenevano i soldi per pagare gli atleti che partecipavano alle gare e li c’era quella dei sibariti, cioè di Sibari, che gareggiavano con i grandi greci e gli spartani».

Alla Calabria ti lega anche la canzone “Camice rosse” che hai scritto per Garibaldi.

«Si, la cantò anche Fiorella Mannoia. Qui fu ferito e Garibaldi in Calabria ebbe un percorso importante. Da storico ho composto delle canzoni, per meglio dire si tratta di ballate, nelle quali c’entra anche la storia. Ora sto facendo un lavoro sulle canzoni che riguardano la Grande Guerra, si tratta di folk, che riguarda più un’area veneto-lombarda. Di cantastorie conosco bene Otello Profazio che è stato un grande scrittore di ballate popolari. Anche io mi considero un cantastorie. Il problema è che la musica Folk in Italia avrebbe dovuto essere insegnata anche nelle università come spesso accade in America, ma qui da noi ci fermiamo al melodramma e non viene considerata»

Com’è nata la tua amicizia con Rino Gaetano?

«Ero in tournèe con Venditti, era il periodo di “Sotto il segno dei pesci” e lui era avanti di noi di una data e dietro di noi avevamo Ivan Graziani. Cosi ci trovavamo spesso insieme e mi piaceva molto quel suo taglio ironico e surreale. Lui è stato uno dei primi surrealisti nella canzone italiana. Faceva della satira molto profonda».

Nel panorama musicale di oggi chi potrebbe essere un erede di Massimo Bubola?

«Mah guarda, io ho influenzato il Folk-rock in Italia quindi penso ai Gang o i Modena City Ramblers. Credo di aver influenzato di più delle band. Io stesso nasco con una band anche se poi ho fatto il cantautore. Tutt’ora io suono con una band, sono un po’ atipico, non amo il “turnismo” dei professionisti che oggi suonano con te e domani suonano con un un’altro. Io cerco di costruire un suono, una identità».

Che cos’è la musica per te?

«La musica è cultura, un insieme di percorsi antropologici, penso che vada studiata. Io sono per la tolleranza, non sono contrario alla musica pop però ci deve essere l’una e l’altra mentre a me sembra che in questo Paese ci sia una prevalenza attraverso le radio e la tv della musica pop. La musica è percorso e cultura e va difesa».

Grazie.

«E’ stato un piacere».

 

 

 

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