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Rosi: “La fusione fra Serra, Spadola, Brognaturo e Simbario è un percorso da attuare”

L’idea di una fusione fra Comuni lanciata dal Redattore è entrata di forza nell’agenda politica di diversi amministratori calabresi. E dopo Giuseppe Pitaro e Gregorio Tino, è Bruno Rosi ad esprimersi in merito, riconoscendo i benefici generati da un’operazione di aggregazione. Il primo cittadino ha intenzione di muoversi subito predisponendo i passaggi necessari per allargare l’area della condivisione e per costruire qualcosa di concreto. Ad essere parte attiva, oltre a quello di Serra San Bruno, sarebbero i Comuni di Spadola, Brognaturo e Simbario. È una prospettiva quasi naturale: un pugno di chilometri separa i loro centri storici; le loro tradizioni e la loro cultura si sovrappongono e si intersecano; la popolazione complessiva è di poco meno di 10 mila abitanti. Gli obiettivi da raggiungere, che sono quelli di “ottimizzare la gestione dei servizi” e di ottenere più congrui “trasferimenti erariali”, paiono poter prevalere sulle rinunce in termini di autonomia, che sono considerate marginali. “Già in precedenti occasioni – afferma il capo dell’esecutivo della cittadina della Certosa – avevo avviato una discussione preliminare su questo argomento con i sindaci di Spadola e Brognaturo, ora quel discorso può essere ripreso”. I tempi sembrano maturi e Rosi sostiene di avere l’intenzione di farsi “promotore di un nuovo incontro, coinvolgendo anche il sindaco di Simbario, per verificare la sussistenza dell’effettiva volontà in questo senso, per adottare idonee iniziative per informare le comunità ricadenti in questo ambito e per approfondire il pensiero dei cittadini”. Nella fattispecie del comprensorio delle Serre vibonesi ci sono poi rilevanti aspetti specifici perché, come spiega Rosi, “la fusione ci consentirebbe di adottare efficaci strumenti per avviare un vero ed armonico sviluppo del territorio e, in particolare, per valorizzare e sfruttare correttamente l’immenso patrimonio boschivo”. Le ricadute, dal punto di vista economico, sarebbero dunque consistenti visto che ai risparmi derivanti dalla riduzione dei costi di amministrazione si sommerebbero potenziali forme di guadagno scaturenti dall’attuazione coordinata di piani di crescita. Maggiori risorse che potrebbero trasformarsi in un migliore funzionamento degli Enti (o meglio, a quel punto, dell’Ente), in più occasioni per il rafforzamento dell’apparato produttivo e per la creazione di posti di lavoro.

Quei due francesi uccisi a Serra e seppelliti a Spadola

Nelle lunghe e dure vicende della storia, due soldati morti possono non rappresentare molto. Non rappresenterebbero tanto, neppure, se venissero inseriti nel contesto, più circoscritto, delle guerre napoleoniche o del “decennio francese”  nel Regno di Napoli. Possono rappresentare molto, invece, quando il teatro in cui hanno perso la vita non è un campo di battaglia, bensì un pacioso centro abitato, famoso più per le odi a Cristo che per gl’inni a Marte. Il luogo in questione è Serra San Bruno, dove, il 2 marzo 1811, trovarono la morte due soldati francesi.

Il fatto è riportato nella “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice. Il retroterra della storia rimanda al saccheggio compiuto dai briganti nel 1807. Per evitare che l’episodio si ripetesse, il comando francese aveva deciso di dislocare a Serra un congruo numero di gendarmi, posti agli ordini del “celebra (sic!) Voster”.

I nuovi arrivati, come spesso accadeva con la soldataglia francese, non dovevano essere per nulla teneri con la popolazione civile. Voster, infatti, viene definito “uomo crudele, intrattabile, fiero, e ladro non dissimile alla Brigata di suo comando”.

La guarnigione francese, quindi, doveva essere composta, per la gran parte, da ribaldi interessati a cogliere tutti gli agi connessi alla loro condizione di occupanti. Tanto più, che i soldati transalpini “non accorrevano” neppure “alle Spedizioni” contro i briganti, “ma restavano nel paese a commettere mille bricconerie”.

I gendarmi, tanto restii a prendere parte alle attività condotte dalla Guardia Civica, erano, invece, velocissimi a mettere le mani su qualunque cosa desiderassero. A testimoniarne la rapacità, un episodio accaduto nei primi mesi del 1811, in prossimità della “Gurna di li bufali”, dove, nel corso di una delle tante operazioni condotte in quel periodo, gli uomini della Guardia Civica, erano riusciti a sbaragliare un gruppo di briganti ed a sequestrare un consistente bottino; “le quali cose tutte portate a Serra furono prese dal sud.to Voster e sua Brigata, restando alla Civica il trapazzo di averle prese”.

In questo contesto, incalzati dall’azione repressiva condotta dai militi serresi, il 2 marzo, tre briganti, per il tramite di “Raffaele Timpano del Paparello”, un “villano di Spinetto”, chiesero alle autorità cittadine un salvacondotto. Per uno strano scherzo del destino, quel giorno, in assenza di Voster il comando della piazza era stato affidato ad un tenente, tale Gerard. Il povero Timpano, probabilmente, indeciso sul da farsi, si era rivolto al giudice di pace, Bruno Chimirri, il quale accompagnato dal comandante della Guardia Civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, andò a cercare il tenente Gerard. Lo trovò nel suo alloggio, in compagnia del maresciallo Ravier.

I due, evidentemente, abituati a tenere un contegno tutt’altro che marziale, avevano riportato la peggio da un lauto convivio con Bacco. Completamente incapaci di analizzare la situazione, consegnata una pistola ciascuno a Chimirri e Peronacci, nonostante i cauti suggerimenti dei serresi, si avviarono verso la casa in cui i tre briganti aspettavano il salvacondotto.

Alticci ed altezzosi com’erano, arrivati sul posto, cercarono di fare irruzione, ma non ebbero il tempo di varcare la soglia della porta d’ingresso che vennero freddati a colpi di schioppo. Nel frattempo, a dare man forte, erano arrivati, gli uomini della Guardia Civica che, al termine di un sanguinoso scontro a fuoco, costato la vita al milite Domenico Jorfida, riuscirono ad uccidere i tre briganti. Ritornato al comando ed appresa la notizia, Voster dovette andare su tutte le furie, al punto da ritenere Serra, indegna di accogliere le salme dei suoi soldati. Dispose, quindi, di “donare” quei due corpi straziati dalle pallottole brigantesche alla comunità spadolese, affinché li inumasse nella sua chiesa. Al lungo corteo che accompagnava le salme di Gerard e Ravier fino a Spadola, presero parte i militari francesi, i “cittadini” di Spadola, nonché quelli di Simbario e Brognaturo che avevano reclamato, invano, ”l’onore” di poter avere “fra loro i due Campioni”.

La vicenda assunse tratti, farseschi, quando, restaurati i Borbone, gli abitanti di Spadola trovarono imbarazzante custodire nella loro chiesa i corpi di due nemici della corona. Così, corsero ai ripari ed in maniera piuttosto spiccia, li “dissotterrarono, e li buttarono nel fiume”.

Memori dell’alterigia con la quale, al grido di “campioni” avevano accolto le salme al tempo di Voster, i “Maestri ferrari delle forge della via di S. Rocco” ogniqualvolta vedevano arrivare uno spadolese, un simbariano o un brognaturese, “lasciavano il martello, e correndoli dietro gridavano e ripetevano Campioni, Campioni: tantoché i spadolesi specialmente, nel venire a Serra: eran costretti entrare per la via dello Schiccio”.

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Serre: Allerta meteo e possibili nevicate

Allerta meteo in tutta la Calabria. La zona delle Serre non fa eccezione, così per le prossime 24-36 ore, la Protezione civile prevede venti forti e piogge insistenti. Secondo gli esperti di 3Bmeteo, a causa di una perturbazione prodotta dalla “bassa pressione che si va approfondendo sul Mediterraneo in relazione ad una discesa di aria fredda in arrivo dal Nord Europa”, il maltempo durerà fino a giovedì prossimo. In particolare, per quanto riguarda l'area delle Serre, tra venerdì e domenica, sopra gli 800 metri, è prevista qualche debole nevicata. Precipitazioni piovose, sono, invece, previste nelle giornate di lunedì, martedì e mercoledì. Un leggero miglioramendo dovrebbe registrarsi a partire dal pomeriggio di giovedì 12 marzo

 

Serra: Per i lavoratori del call center si avvicina il giorno della disfatta

Ennesima fumata nera sulla vertenza Infocontact che, da settimane, tiene con il fiato sospeso decine di lavoratori che vedono avvicinarsi lo spettro della disoccupazione. Dopo l’incontro infruttuoso della scorsa settimana, nella giornata di ieri, i protagonisti della trattativa, ovvero organizzazioni sindacali, commissari straordinari e rappresentanti di Comdata ed Abramo Customer Care, interessate ad acquisire, rispettivamente, le sedi di Rende e Lamezia Terme, si sono ritrovati attorno al tavolo tecnico convocato, al Mise, per cercare di dipanare l’ingarbugliata matassa. L’esito dell’incontro è stato tutt’altro che soddisfacente. “Governo e committenti latitano – hanno dichiarato i rappresentanti sindacali – e la situazione diventa sempre più complicata.”. Quel che più desta sconcerto, però, è il disinteresse che ruota attorno alla vertenza. Un disinteresse che si percepisce dal tenore delle affermazioni delle organizzazioni sindacali che non hanno esitato a  denunciare la mancata partecipazione al tavolo dei “rappresentanti del Mise”. “La Calabria non è figlia di un Dio minore. Circa 100 persone – hanno evidenziato sindacati - sono fuori dalla proposta delle società acquirenti. Per circa 900 persone si prospettano pesanti riduzioni di orario e di reddito. Centinaia di lavoratori precari delle sedi periferiche impossibilitati a continuare attività lavorativa se trasferiti presso i due centri di Lamezia e Rende”. Nel chiedere al Governo nazionale “un intervento concreto ed una maggiore attenzione verso i lavoratori, come fatto per altre vertenze” i sindacati hanno annunciato l’intenzione di mettere in campo “iniziative di protesta su tutto il territorio” regionale. Tuttavia, da quanto fatto trapelare, sembrerebbe che lo scontro si sia materializzato attorno alla volontà degli acquirenti di ridurre l’orario di lavoro. Come si legge in una nota della Slc Cgil nazionale “l'unica soluzione secondo l'azienda, per garantire la maggiore continuità occupazionale sarebbe l'abbattimento delle ore lavorate da parte dei lavoratori. Una soluzione non percorribile – prosegue la nota - sia sotto il profilo giuridico (la deroga prevista dall’Art. 47 non consente di tagliare il profilo orario contrattuale dei singoli) che su quello sindacale. Tutelare l’occupazione non significa offrire briciole a più gente possibile, sapendo sin da ora che i volumi futuri consentiranno nuove assunzioni”. Dal tenore del documento, sembra, quindi, di capire che la trattativa ruoti, esclusivamente, attorno al nuovo orario di lavoro proposto dagli acquirenti. In altre parole, la situazione relativa agli operatori impiegati nelle sedi periferiche potrebbe essere uscita definitivamente della trattativa. Se così fosse, vorrebbe dire che le organizzazioni sindacali considerano quella dei lavoratori impiegati nelle sedi dislocate nei centri più piccoli una battaglia già persa. In tal caso, gli operatori del call center di Serra, non avrebbero altra possibilità che accettare il diktat che impone un improbabile trasferimento a Lamezia. Un trasferimento che avrebbe il sapore amaro di un licenziamento.

 

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Mastro Bruno Pelaggi e l'Unità d'Italia

Christopher Duggan, ne è pienamente convinto. Il nucleo emotivo su cui si basa l’unità d’Italia è debole ed inconsistente.

Nel suo saggio “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi”, lo storico inglese, sostiene che figlio di ambizioni e frustrazioni, di slanci e di sconfitte, vi fu l’incapacità da parte dello Stato nazionale di risolvere la cosiddetta Questione Meridionale.

Cantore in presa diretta della nascita dello Stato unitario e della Questione Meridionale, dei problemi ad esso connaturati e dei danni che il nuovo governo arrecò al Mezzogiorno ed in particolare alla Calabria, è stato il poeta Mastro Bruno Pelaggi (Serra San Bruno 15 settembre 1837 – 6 gennaio 1912) che visse quasi tutta la sua parabola esistenziale nel paese della Certosa.

Il “poeta – scalpellino” aveva imparato la vita alla severa scuola della crudezza e aveva improntato la sua esistenza ai principi della giustizia e dell’uguaglianza, assumendo il concetto del bene e del giusto quale regola inflessibile di condotta.

Come rilevato da Biagio Pelaia che ha curato “Li Stuori”, esaminando le liriche di Mastro Bruno è possibile rinvenire, in alcuni componimenti, concetti e principi omogenei. Pur non potendo parlare di pensiero sistematico, in quando il poeta scalpellino non ebbe una cultura letteraria né tantomeno filosofica, è possibile tuttavia parlare di una concezione etico-politica che caratterizza la maggior parte delle sue poesie e che ne fa un acuto osservatore e denunciatore della nascente Questione Meridionale.

Certo, non è possibile parlare di una “poetica politica” come frutto di una coscienza di classe.

Piuttosto, ad animare la penna del “poeta – scalpellino”, c’é un naturale “istinto di classe” frutto della consapevolezza che al mondo esistono due categorie di esseri umani, gli sfruttatori e, gli sfruttati, cui il poeta serrese sa di appartenere.

In Mastro Bruno, dunque, la Questione Meridionale, come sostenuto giustamente dallo studioso Biagio Pelaia, si manifesta non soltanto come testimonianza diretta, ma, soprattutto, come vicenda umana personalmente vissuta e sofferta.

Partendo dalla propria esperienza, Pelaggi  matura riflessioni e considerazioni che saranno alla base della coscienza meridionalistica. Sebbene vi siano otto componimenti interamente dedicati al periodo monarchico-unitario, vi è un solo frammento, costituito da otto quartine, dal titolo “Quand’era giuvinottu”, in cui il poeta serrese tenta di cogliere, a posteriori, le differenze tra il regime borbonico e quello unitario.

Quand’era giuvinottu,/ jio mi ricuordu appena/ ca si dicia ca vena/ Cientumasi;/ di sira, ‘ntra li casi,

cu’ certi carvunari,/ pimmu ‘ndi dinnu mali/ dilli Borboni/ Ch’era ‘nu lazzaroni/ ‘n sigrietu si dicia;

c’ognunu non vulìa / mu parra forti, / picchì a sicura morti/ jia ‘ncuntru, o carciratu/e pue cadia malatu/ e si futtia./Tandu non capiscia;/però (mancu li cani!),/cu chist’atri suvrani/si dijuna.

‘N Calabria ormai la luna/Va sempi alla mancanza,/e non c’è cchiù spiranza/ca ‘ndargimu.

C’arriedi sempi jimu,/li mastri e li fatighj;/chissu lu capiscivi/non di mò;/Ca lu Guviernu vò

sulu pimmu ‘ndi spògghja,/ mu ‘ndi leva la vòggjia/  mu stacimu …                                                                                                          

In questo frammento, nei versi iniziali, Mastro Bruno, ricorda uno dei tanti episodi della sua gioventù e riporta un piccolo squarcio dell’attività cospirativa che, verosimilmente, dovrebbe datarsi intorno al 1848, quando la propaganda antiborbonica era molto intensa. Cientumasi era il cospiratore, il ribelle. Ciò che emerge fin dai primi versi è la segretezza e la paura dell’attività cospiratrice pre-risorgimentale, cui, curiosamente, anche i piccoli centri come Serra San Bruno erano interessati. Il poeta, dopo aver descritto quest’attività, pone il confronto col regime unitario ed il dato di fatto emergente è sconvolgente.

Se durante il periodo borbonica, da un lato, la libertà, soprattutto quella di espressione e dissenso, era pressoché negata, col nuovo regime sabaudo le classi che potremmo definire “proletarie” vivono la fame e vengono sommerse da nuove tasse destinate a rimpinguare le casse dell’indebitato Stato piemontese. E’ noto agli storici, infatti, come le maestranze artigianali (meastranza “di la Serra”), che spesso erano rappresentate da veri e propri artisti, dopo l’unificazione entrarono in un periodo di crisi inarrestabile che ne comportò un lento e inesorabile processo di decadenza fino alla loro scomparsa.

Basta! – Simu ‘Taliani!  / Gridamma lu Sissanta.                                                                                                     (Ad Umberto I, vv. 69-70)

Le parole di Mastro Bruno sono emblematiche nell’esprimere la passione con cui anche i ceti proletari e più poveri avevano guardato all’unificazione. L’impresa dei Mille sembrava voler chiamare tutti gli italiani verso una meta comune. Ma fu un’illusione, dopo l’Unità, le divergenze, sociali ed economiche, riaffiorarono con maggiore crudezza.

In particolare, la nuova politica fiscale imposta dai piemontesi, obbligò il nuovo Stato e le classi sociali più deboli a farsi carico dei debiti portati in dote dal regno Sabaudo.

Sul popolo calabrese, dunque, si abbatté una serie infinita di tasse: la comunale e la provinciale, la tassa di famiglia e quella sul macinato, oltre all'inimmaginabile tassa di successione e all'impensabile leva obbligatoria. La gente del meridione, dopo aver vissuto l’illusione di essere stata riscattata dall’unità nazionale, dovette rassegnarsi nuovamente. Il Mezzogiorno patì l’abbandono non soltanto economico ma soprattutto sociale e morale.

Cosi Mastro Bruno, scrive al Re per esprimere la disperazione e solitudine dell’uomo meridionale, sfruttato e deriso dai potenti:

Picchì hai mu li nascundi / li gridi calabrisi/ Non pagamu li spisi/’guali atutti?/ Ma tu ti ‘ndi strafutti/ li deputati cchiùi:/duvi ‘ncappamma nui,/ povar’aggenti!

(Ad Umberrto I, vv. 97 – 104)

Ma non ricevendo alcuna risposta da Umberto I, decide di rivolgere il suo lamento al Padreterno, nella speranza che almeno il cielo si accorga della sofferenza che attanaglia il meridione:

Non vidi, o Patritiernu,/ lu mundu mu sdarrupi/ ché abitatu di lupi/ e piscicani?

 (Lettera al Padreterno, vv 1- 4)

A nui ‘ndi scuorticaru/ li previti, l’avaru/ e lu Guviernu

 (Lettera al Padreterno, vv 110 - 112)

In effetti, tra il 1865 ed il 1890 lo Stato unitario spese ingenti somme per l’acquisto di beni ecclesiastici e demaniali, che di fatto impedirono investimenti che avrebbero potuto ottimizzare l’agricoltura meridionale.

Alla fine Mastro Bruno Pelaggi, deluso ed amareggiato, preso dallo sconforto e sentendo tutte le sue forze svanire, decide di raccontare il suo tribolare alla luna, quale unica e impassibile spettatrice delle sue sofferenze, affidando al suo mutismo il compito di raccoglierle e portarle a riposare con se.

Essa è l'interlocutrice cui il poeta serrese rivolge i suoi lamenti, con la consapevolezza di non ottenere mai risposta, poiché essa rappresenta l'infinito, l'eterno e l'immortale, in altre parole ciò che un uomo non potrà mai essere.

Quantu’ agghjuttivi amaru/ ‘ntra ‘st’esistenza mia!/ Luna, si non niscia/quant’era mieggju!

 

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La “Suriaca a pusiedhu”, dai certosini ai briganti

Respirare a pieni polmoni l’aria che profuma di carbone, fare lunghe passeggiate lungo il viale alberato della Certosa, mangiare la neve ed emozionarsi ancora, anno dopo anno, guardando “lu ciucciu” muoversi in modo buffo su quel palco alla festa di san Rocco, sono sicuramente le sensazioni che un buon serrese DOC non finirà mai di amare. Ma amare il proprio territorio significa anche educare, sensibilizzare e soprattutto valorizzare all’esterno ciò che la natura, la cultura e la storia di quel determinato luogo offrono.  Durante le mie costanti ricerche riguardanti la cultura enogastronomica calabrese, mi sono spesso chiesto quali fossero le peculiarità che la tradizione del mio paese potesse definire delle vere e proprie “chicche gastronomiche”.

·         Porcini..ok, nei periodi giusti dell’anno, preferibilmente non rumeni.” J

·         Le ortiche, (ardichi) dal meraviglioso sapore e dall’assurda consistenza vellutata una volta cotte.

·         I fiori di sambuco (pipi di maju), immancabile ingrediente nella famosa “pitta china”.

·         Li “viedhiruni”, simili come sapore agli asparagi, ideali nella frittata.

…e poi broccoli, rape, patate, fagioli…. E che fagioli…

Dicevamo, l’amore per la propria terra significa dunque valorizzare ciò che di buono offre… Me li fecero assaggiare per la prima volta, in una tiepida sera autunnale, Sergio e Salvatore, ne portarono un barattolo (gia cotti), non ancora etichettato e mi chiesero di fargli sapere cosa ne pensassi a riguardo. Sinceramente, un po’ di tempo prima, avevo visto delle foto sul social facebook dove un bel gruppo di amici, “cirnianu allu cirnigghiu la suriaca a pusiedhu”, e già da allora la mia curiosità era alle stelle. Quel gesto semplice, ma meravigliosamente vero, fatto di storia, tradizione e amore che riporta a quando tra le stradine del centro storico c’era chi ancora, (su grandi lenzuola o tovaglie), “amprava” la qualunque. C’era di tutto, dai pomodori ai ceci, alla lana lavata per poi riempire di nuovo i materassi, “li riesti di pipiredhi abbruscenti”, (peperoncini piccanti appesi al filo), queste le cose che ricordo, di certo un serrese DOC ne potrebbe raccontare altre mille almeno. Suriaca janca a pusiedhu dunque (fagioli a pisello delle Serre Calabre), chiamati così proprio per la loro forma rotonda e piccolina a “pusiedhu” appunto.  Chiudendo gli occhi e portando il cucchiaio alla bocca un profumo di terra ti ipnotizza l’olfatto, lo stesso odore lo ritrovi subito dopo in bocca, sapore di terra, zucchero e ceci..e acqua... Mineralità assurda come se in bocca avvenisse un esplosione di terra e acqua. Questo fagiolo riesce ad emozionare i sensi , unico nel suo genere come unica è la storia che lo caratterizza, si dice infatti che furono proprio i nostri amati padri certosini ad inserirlo nell’alimentazione di queste zone. In seguito all’avvento dei monaci dell’ordine istituito da San Bruno di Colonia proprio a Serra San Bruno, il territorio fu infatti arricchito da una varietà considerevole di alberi da frutto oltre che da piante ad uso medicinale. Vi chiederete come faccio ad avere tutte queste informazioni probabilmente… ??? Semplice!!! Si chiama “Terra Margia”, l’encomiabile progetto ideato e lanciato dall’associazione “il brigante” che mira a recuperare tutti quei terreni oramai incolti per valorizzarne i frutti dalle elevate qualità. Economia solidale quindi dove,nuovi e vecchi agricoltori, vengono impiegati  per realizzare questa serie di prodotti ortofrutticoli poi immessi sul “mercato” ad un prezzo equo. Rilanciare e nutrire il nostro territorio è questo il succo del progetto, per riscoprire e valorizzare tramite  questi meravigliosi gioielli le “terre marge”. Adoro non cuocerlo troppo, lasciandolo quasi croccante, per sentirne la consistenza zuccherina e amidosa, gli abbinamenti migliori li ho sperimentati con crostacei e molluschi, (gamberi, scampi, polpo, vongole), in zuppe autunnali con crostini di pane e buon olio evo. Si sposa benissimo anche con la rapa e una leggera punta di piccante. Il mio consiglio però, è sempre uno, assaggiatene una manciata senza nemmeno condirla, magari dopo averla cotta “ntralla pignata” alla “ciminera” o sulla “cucina economica”. Ah, se mentre guardate il vostro bel piatto pieno di fagioli e rape vi verrà in mente l’immagine dei nostri amati certosini immersi tra i boschi, non preoccupatevi.. A me è gia successo…

Alchimie…

Ringrazio l’associazione “il Brigante” per lo spunto e per la magnifica iniziativa.

Serra: Rosi vuole la riconferma, ma Salerno pensa ad un'alternativa

SERRA SAN BRUNO – “La giunta è morta, viva la giunta”. Ci piace parafrasare il detto “Le Roi est mort, vive le Roi!”, che era uno tratto distintivo della monarchia francese per dire che la fine era il principio, che l’idea continuava a camminare su gambe nuove, giovani, guerreggianti. Era insomma un inno di gioia e di vita. Il sindaco, Bruno Rosi, deve pensarla allo stesso modo se, dopo aver fatto dimettere i suoi assessori in nome di un rinnovamento e averne restaurato alcuni, pensa che il ricambio dei giovani guerreggianti possa portare l’esercito forzista verso la vittoria alle comunali del prossimo anno. La situazione politica della maggioranza, per dirla con Ennio Flaiano «è grave ma non è seria» e le vicende degli ultimi giorni rischiano di compromettere il cammino politico dell’intera compagine che sostiene il primo cittadino serrese, ma soprattutto il suo futuro di amministratore. I mal di pancia, in attesa che venisse partorita la nuova giunta, sono stati di molti e le doglie si sono protratte per quasi tre mesi. Poi finalmente il sindaco ha trovato la quadratura del cerchio e ha dato un nuovo esecutivo alla cittadina. Il sindaco è stato chiarissimo, aspira alla sua riconferma nella candidatura a primo cittadino per le prossime comunali e lega questa sua legittima pretesa al raggiungimento di due obbiettivi: la soluzione del problema dell’acqua e la fine della sospensione della vendita dei lotti boschivi che, portando una boccata di ossigeno alle casse comunali, possa dare nuovo vigore all’azione amministrativa. Se cosi non dovesse essere, Rosi sarebbe pronto a farsi da parte. Per il dopo Rosi, però, il dominus politico, il consigliere regionale Nazzareno Salerno, non avrebbe in mente nessun nome e starebbe aspettando che la situazione si chiarisca, prima di procedere ad una eventuale consultazione con la maggioranza. Ma nuove nuvole grigie si addensano sull’orizzonte della guarnigione forzista. L’estromissione dalla giunta, l’ex assessore Carmine Franze, non l’ha mandata, proprio, giù ed è convinto di pagare il prezzo per l’abiura della fede salerniana e la sua appartenenza alla minoranza interna del partito di Berlusconi che fa capo al consigliere regionale Giuseppe Mangialavori. Tuttò ciò, secondo i bene informati, potrebbe portare la minoranza interna a chiedere, per le prossime comunali, la costituzione una lista civica a discapito della scelta di quella di partito, e nell’ipotesi più estrema, non escludono che possa partecipare a qualche altra lista civica anche contraria ai fratelli berlusconiani.

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In viaggio sul tappeto di buche

Sembra essere il sogno impossibile delle Serre. Uscire dall’isolamento, acquisire la libertà di movimento, godere di una rete viaria, se non all’avanguardia, almeno decorosa. Dopo anni d’inutile attesa, nel 2005, quel sogno sembrava finalmente alla portata. L’apertura dei cantieri per la realizzazione della “Trasversale delle Serre”, agognata da mezzo secolo, sembrava il preludio ad una nuova stagione destinata a portare nell’età contemporanea, anche, questo lembo sperduto di Calabria. L’avvio dei lavori della più imponente opera pubblica mai realizzata in questo territorio aveva suscitato entusiasmo, speranze e perché no, finalmente, qualche sogno. L’opera, secondo il cronoprogramma stilato dall’Anas doveva essere inaugura il 28 gennaio 2008, ma tutti sanno com’è andata a finire. Più che una strada, sembra un puzzle cui un bambino capriccioso ha voluto staccare parte delle tessere. Nell’era della net economy, o in quello che sotto l’incalzare impetuoso della crisi ne rimane, c’é chi ancora in questa martoriata regione desidera solamente una lingua d’asfalto che non trasformi la mobilità in un supplizio. L’era della velocità qui, però, non è mai arrivata. Se altrove, le strade virtuali di internet passano attraverso la fibra ottica, qui chi ha una lentissima Adsl, si considera un privilegiato. Se in altre regioni, le vie di comunicazione, quelle reali e visibili, necessitano di dispositivi autovelox per indurre gli automobilisti a moderare la velocità, qui, invece, non c’è il rischio, neppure a volerlo, di superare i 50 chilometri orari. Certo, non mancano, neppure altrove, situazioni in cui l’orografia causa difficoltà nelle comunicazioni. Ma da quelle parti, almeno, alle curve, ai tornati, alle ripide salite ed alle tormentate ascese, corrisponde almeno un uniforme manto stradale. Qui, invece no. Da noi, alle difficoltà dettate dalla natura, sembra aggiungersi il malefico accanimento di qualche goliardico silfo. A chi viene da fuori, è sufficiente imboccare l’ex SS 110, la provinciale che dall’autostrada conduce sulle Serre, attraverso il bivio Angitola, per capire che questo è un altro mondo. Il cammino s’insinua lentamente tra le sugarelle che via via lasciano il posto agli ulivi prima, ai castagni ed agli abeti dopo. Un percorso impegnativo, tortuoso. Come se non bastasse, però, alle curve, nel corso del tempo, si sono aggiunte le buche, gli smottamenti ed i conseguenti restringimenti di carreggiata. Gli automobilisti, non provano neppure a schivarle le buche, tanto l’una è la prosecuzione della precedente. Ad offrire un contributo, poi, si è aggiunta la rigogliosa vegetazione. Arbusti, rami, frasche e chi più ne ha più ne metta invadono quel che rimane della sede stradale. Una vera delizia, soprattutto, per gli automobilisti che all’auto tengono, a quelli sempre pronti a comprare l’ultimo modello. Percorrendo l’ex SS 110, la personalizzazione della vernice è assicurata, una bella striatura non la leva nessuno. Magari, l’intento della Provincia di Vibo Valentia che ne ha la competenza, è, anche, quello di far crescere, ancor di più, la vegetazione, nella speranza che le piante poste alle due estremità della carreggiata possano, prima o poi, incontrarsi e formare una bella galleria. Che spettacolo sarebbe! Roba da fare invidia ai settecenteschi giardini all’inglese. Ma non bisogna indulgere al pessimismo. Basta percorrere una trentina di chilometri e la situazione migliora. Arrivati al vecchio casello Anas di monte Cucco, si respira, finalmente, un’aria da un avamposto della modernità. Da qui la strada, come un fendente, sembra volersi aprire un varco tra le aspre rughe disegnate dalla natura. S’intravede, finalmente, un rettilineo. Peccato inizi troppo tardi e duri troppo poco. Guardando la striscia di “Trasversale” che s’innesta sulla vecchia strada Borbonica si viene assaliti dallo sconforto. Non rimane che sperare nel futuro, intanto, però, si rimpiange il passato.

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