Il simbolismo dei re Magi e la misteriosa sepoltura in Italia

Nella tradizione cristiana gli ultimi ad arrivare a Betlemme per adorare Gesù Cristo furono i Magi.

Dal vangelo di Matteo si evince che essi “giunsero da Oriente” seguendo la “stella” che avevano visto sorgere e che li precedeva. Quando si fermò sopra il luogo in cui si trovava il bambino capirono di aver trovato il re dei giudei di cui si parlava nelle profezie. Al suo cospetto si prostrarono e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.

Tra i tanti enigmi che avvolgono i Magi, il primo riguarda il loro numero.

QUANTI ERANO?

Per la tradizione cristiana sono tre. Tuttavia, Matteo non ha mai scritto quanti fossero.

L'episodio dei Magi è ripreso in vari vangeli apocrifi dell'infanzia. In uno di essi, quello armeno, appaiono per la prima volta i nomi ed il numero. “Subito un angelo del Signore - narra il Vangelo armeno -si recò nel paese dei Persiani per avvertire i Re Magi che andassero ad adorare il neonato. E costoro, guidati da una stella per nove mesi, giunsero a destinazione nel momento in cui la vergine diventava madre. In quel tempo il regno dei Persiani dominava per la sua potenza e le sue conquiste su tutti i re che esistevano nei paesi d'Oriente, e quelli che erano i Re Magi erano tre fratelli: il primo, Melkon, regnava sui Persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli Indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli Arabi”.

CHI ERANO?

Nel Calendario,  Alfredo Cattabiani scrive: “Mago deriva da mag che significa letteralmente dono ed esprime un particolare valore religioso di cui parlano le Gâthâ dell'Avesta, il complesso dei libri sacri dello zoroastrismo. Lo stato di mag separa ciò che è spirituale da ciò che è corporeo, porta in diretto contatto con le energie divine; sicché il mago è «colui che partecipa del mag, acquisisce un potere magico per mezzo del quale può ottenere un'illuminazione, una conoscenza fuori dell'ordinario, una visione e percezione che non sono mediate né trasmesse dagli organi fisici né dai sensi»”.

Per  Erodoto erano, invece, i membri  di una delle sei tribù in cui era suddiviso uno dei popoli che anticamente abitava nella regione che corrisponde all’odierno Iran, i Medi. Quando i persiani conquistarono il regno dei Medi, il termine cominciò a essere usato per indicare semplicemente i sacerdoti.

Infine, Mario Bussagli, li definisce  “una specie di superclero, i depositari di un supremo sapere che, in definitiva, poteva controllare la corretta esecuzione di un rito e permetteva di avere col Sacro un contatto assai diverso da quello concesso a un normale sacerdote [...] Sicuramente essi ebbero una preparazione astrologica e astronomica di origine caldea, ma ampliata e approfondita [...] Conoscevano l'interpretazione dei sogni [...] Potremmo dire che i Magi, per predisposizione naturale, per preparazione, per tradizione, erano in grado di entrare in sintonia con le energie e le vibrazioni dell'universo, cogliendo i segreti della materia che essi consideravano animata”.

LA SIMBOLOGIA

 Nella leggenda sui re Magi riferita nel “Milione”, Marco Polo, scrive: “arrivati al luogo dove il bambino era nato da poco, il più giovane dei tre re andò a vederlo da solo: e lo trovò che somigliava a lui stesso e pareva avesse la sua età e la sua fisionomia. Uscì stupefatto. Dopo di lui entrò quello di media età, e il bambino gli parve com'era parso all'altro, della sua età e della sua fisionomia. Anche lui uscì fuori stupefatto. Poi entrò il terzo che era di età maggiore, e gli accadde la stessa cosa che agli altri due. Uscì fuori tutto pensoso. Quando si ritrovarono insieme, i tre si raccontarono quello che avevano visto e, dopo essersi molto stupiti, decisero di andarci tutti insieme. Eccoli ora tutti insieme davanti al bambino, e lo trovarono dell'aspetto e dell'età che egli aveva, essendo nato da tredici giorni”.

Si tratta di una leggenda che rappresenta un'allegoria del mistero di Cristo che si è mostrato come giovane al giovane, come uomo maturo al maturo e come vecchio al vecchio, ovvero come colui che è passato, presente e futuro, ovvero Eterno. Inoltre, manifestandosi ai Magi come un neonato, Cristo ha voluto mostrare come la somma delle tre età dell'uomo non dà come esito finale la morte, bensì la vita nascente.

I DONI

Nella ricca simbologia racchiusa dall’episodio dei Magi, non può mancare un riferimento ai doni offerti al Salvatore. Per gli autori cristiani, l’oro simboleggia l'essenza di Cristo re dell'universo, mentre l'incenso quella di Dio. Non c’è concordanze di vedute, invece, sul significato della mirra. Per gli autori occidentali, la resina, che si ricava dalla corteccia di alcune piante che crescono in Arabia e Africa, prefigura la passione di Cristo. La sostanza, che gli antichi egizi usavano per le imbalsamazioni, secondo la tradizione, venne usata per ungere il corpo di Gesù prima della sepoltura.

Per le comunità cristiane d'Oriente la mirra rappresenta, invece, un attributo del Cristo come Sapiente medico o taumaturgo. Nel racconto sui Magi, Marco Polo dice a questo proposito: “Raccontano quelli del luogo che tanto tempo fa tre re della loro regione andarono a visitare un profeta nato da poco; e portarono con loro tre offerte, oro, incenso e mirra, per poter riconoscere se quel profeta era Dio o re o sapiente. Pensavano: se prende oro è un re, se prende incenso è un Dio, se prende mirra è un sapiente... Lo adorarono e gli offrirono oro, incenso e mirra, e il bambino prese tutte e tre le offerte”.

LA SEPOLTURA DEI MAGI

 Non meno leggendaria è la sorte toccata ai Magi dopo la morte.  Secondo una cronaca del IV secolo, nel 344, Sant'Eustorgio fece arrivare “le sacre reliquie" a Milano. Fino ad allora, infatti, erano state custodite nella basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, dover erano state portate da sant'Elena che le aveva ritrovarte durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa.

La leggenda vuole che essendo stati trattati con balsami e spezie, i corpi dei Magi erano intatti a tal punto da permettere di dedurre le loro età. Il primo sembrava avere 15 anni, il secondo 30 e il terzo 60 anni.

I resti mortali dei Magi rimasero nella città ambrosiana fino al 1164 quando, Federico Barbarossa, li fece trafugare a Colonia dove venne eretto il Duomo in cui sono tuttora custoditi in un prezioso reliquiario.

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Come è nato il Pesce d'aprile

Il primo aprile è il giorno consacrato agli scherzi. L’usanza di “celebrare” il Pesce d’aprile è nota a tutti e consiste nel far cercare ai creduloni luoghi o personaggi che non potranno mai trovare.

L’origine dell’usanza è piuttosto incerta. Secondo Cattabiani, alcuni la farebbero risalire alla “leggenda popolare secondo la quale la creazione terminò il primo aprile. In quel giorno il Signore sistemate tutte le cose, se ne tornò in cielo. I primi uomini erano come storditi; non sapevano da dove cominciare: si misero a cercare cibo e un riparo per la notte in una confusione aggravata dai più incapaci che intralciavano il lavoro degli altri. Per liberarsene e poter lavorare più tranquillamente i più scaltri li inviarono lontano a prendere cose inesistenti. Da quella volta sarebbe nata l’usanza di mandare i creduloni in giro per le vie facendo loro cercare cose o personaggi che non potranno mai trovare”.

Secondo un’altra leggenda, invece, il primo aprile corrisponderebbe al giorno in cui Noé avrebbe mandato per la prima volta fuori dall’arca la colomba che “girò inutilmente sulla distesa delle acque senza trovare nemmeno un pezzetto di terra emersa”. Per altri, poi, l’origine andrebbe ricercata in uno scherzo fatto dagli abitanti di un paese di mare a quelle di un colle vicino.

Per Ludovico Passarini, infatti, alcune persone che dimoravano in collina sarebbero andate al “lido, il giorno di primo aprile, ed appiccicato discorso co’ pescatori oziosi in quel dì, ebbero il desiderio di pescare anch’essi, lusingati chi sa con quante belle parole che avrebbero fatto una grossa pesca, e tanto più abbondante quanto più la barca pescareccia fosse spinta lontano ove sono alte le acque. Sì, sì dissero quel del colle; basta che qualcuno di voi ci faccia compagnia  a guida più sicura della barca”. I pescatore “novellini” così si spinsero al largo nella speranza di riempire le reti che vennero ritirate più volte, ma sempre vuote. Al tramonto, ormai stanchi e sfiduciati ritornarono a riva senza aver pescato neppure un pesce. “Burlati e derisi, seppero essi poi che nell’aprile, al sopravvenire della tepida e vaga stagione, anche i pesci ne godono, e si raccolgono facendo gruppo insieme giù nell’imo fondo delle acque, ove depongono le ova”.

La “burla dei pescatori” sarebbe diventata proverbiale a tal punto da essere ricordata, ogni anno, con il nome di pesce d’aprile. 

Per altri, invece, l’usanza sarebbe da ricondurre al periodo pasquale, poiché “una volta proprio al giovedì santo ci si divertiva alle spalle degli ingenui mandandoli a destra e manca in una specie di processione carnascialesca, di ‘passione dell’idiota’, e nella Domenica di Resurrezione vi era un’altra usanza, nota come Ritus Paschalis e viva nei paesi di lingua tedesca fino all’inizio del secolo scorso. Consisteva in una serie di burle, scherzi, barzellette e pantomime che il celebrante stesso eseguiva all’altare, durante la predica, per far ridere i fedeli”.

Al di là delle origini più o meno remote, il Pesce d’aprile sarebbe stato “arrivato” in Italia in tempi relativamente recenti. L’usanza sarebbe, infatti, storicamente documentata solo a partire dal 1875.

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Serra: San Biagio, l'abbaculu e la benedizione della gola

"Sufficientemente annuncia la festa non un colpo scuro, ma l'odore che per le strade di spande dai forni dove cuoce il dolce che ripete il pastorale vescovile da voi tenuto nelle mani guantate di rosso: il baculum dei latini, l'abbàaculo di torrone o di 'nzullo' di mostacciolo o più modestamente di farina, latte ed uova con la cannella; non la musica di ottoni e clarini, l'allieta, ma la frignata d'impazienza interrotta dal ceffone materno per non farvi torto".

La festa di cui parla Sharo Gambino nel suo libro "Sull'Ancinale" è quella in onore di san Biagio.

Per certi aspetti, a Serra, la festa è piuttosto singolare, così come singolare era la circostanza che, fino a qualche tempo addietro, il Santo fosse il patrono del paese che deve la sua fondazione a san Bruno.

Una peculiarità la cui origine è piuttosto oscura.

Se, da una parte, infatti, è sufficientemente chiaro il legame, di origine bizantina, tra la Calabria ed il Santo protettore della gola, avvolto nella nebbia del mistero è, invece, quello con la cittadina delle Serre, dove il culto, potrebbe essere arrivato in maniera piuttosto rocambolesca.

A cercare di stabilirne l’origine, non senza una buona dose d’indeterminatezza, è, nella prima metà dell’Ottocento, don Domenico Pisani che, nel resoconto, fatto per la “Platea”, ovvero la “Cronistoria di Serra San Bruno” redatta dai cappellani della chiesa Matrice, rivela che: "venendo qui al di loro travaglio degli uomini, e passando per le vie della Lacina, ove vi era una chiesetta diruta dedicata a S. Blasi, vi tolsero il quadro ivi inculto, che portarono nella di loro chiesetta, ove non sappiamo se dalla pubblica devozione, o d’altro fu dichiarato Protettore e Patrono".

Il culto, dopo aver percorso le accidentate e tortuose vie della fede, nella cittadina bruniana deve essersi diffuso con una certa rapidità, al punto tale che la chiesa Matrice è vocata, proprio, a san Biagio. Ciò che, invece, non nasconde misteri è la lunga tradizione, tutta serrese, sviluppatasi attorno alla festa del Santo.

Alle manifestazioni liturgiche, caratterizzate da una processione molto partecipata che per tre volte faceva il periplo della chiesa Matrice, si associavano e si associa, tuttora, una singolare tradizione dolciaria. Ieri, come, oggi, infatti, i fedeli si recano in chiesa per far benedire gli “abbaculi”, tipici biscotti dall’inconfondibile forma del pastorale, il bastone usato dai vescovi durante le funzioni.

Al di là del riferimento liturgico e religioso, per secoli, gli “abbaculi” hanno rappresentato un vero e proprio suggello d’amore. Secondo la tradizione, infatti, nel giorno dedicato a san Biagio, il fidanzato donava alla promessa sposa un “abbaculu” decorato con mandorle e confetti.

Una volta benedetto, il biscotto veniva spezzato in due parti; la parte diritta rimaneva alla rappresentante del gentil sesso, mentre quella ricurva veniva restituita al futuro sposo. Una sorta di san Valentino in salsa serrese, caratterizzato dal riferimento, neppure troppo velato, alla sessualità ed alla fecondità della coppia.

Passati gli anni in cui la statua del Santo, durante la terza domenica d’agosto, veniva condotta al calvario, i serresi, nella giornata del tre febbraio non si sottraggono alla benedizione della gola attraverso l’imposizione di due candele incrociate.

Le due candele, rimandano al rito della Candelora, che, secondo Alfredo Cattabiani, sarebbe stato mutuato dalla festa in onore della dea Februa, ovvero Giunone, e all’usanza pagana di percorrere le strade impugnando fiaccole accese in segno di purificazione.

Tutto cristiano, invece, il culto legato alla benedizione della gola.

Secondo la tradizione, infatti, mentre veniva condotto a Sebaste (Armenia) per essere processato e poi condannato a morte, durante una persecuzione del IV secolo, san Biagio avrebbe salvato la vita ad un bambino in procinto di soffocare a causa di una lisca conficcataglisi in gola.

 

 

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La lontana eco celtica del 2 novembre

La ricorrenza dei defunti segue quella di Ognissanti. La circostanza, tutt’altro che casuale, affonda le radici nell’VIII secolo, quando, ricorda Alfredo Cattabiani nel suo Lunario, “l’episcopato franco la istituì per sostituirla al Capodanno celtico che cominciava all’inizio di novembre”. Tuttavia, perché la festività si diffondesse in Europa dovettero trascorrere alcuni secoli. Papa Sisto IV la rese obbligatoria per la Chiesa universale solo nel 1475 . La lontana eco celtica sopravvive, ancora oggi, non solo nella festa religiosa ma anche in quella profana di Halloween che si “celebra” tra il 31 ottobre ed il primo novembre. In occasione del loro capodanno, le antiche popolazioni celtiche si recavano nei cimiteri dove trascorrevano l’intera notte all’insegna di canti e libagioni. Un’usanza fondata sulla credenza che, durante i passaggi da un periodo dell’anno all’altro, i morti ritornassero sulla terra. Non a caso, tra l’1 ed il 2 novembre, per i celti ricorreva la festa di Samain, dedicata proprio agli abitanti dell’aldilà. Fu, quindi, per “cristianizzare  questo Capodanno pagano che la Chiesa franca istituì non soltanto Ognissanti, ma anche la commemorazione dei defunti.”. In particolare, pare sia stato “Odilone di Cluny a ordinare nel 998 ai cenobi dipendenti dalla celebre abbazia di celebrare l’ufficio dei defunti  partire dal vespro del primo novembre”. Del resto, il rapporto di filiazione tra l’usanza celtica e la festa cattolica lo si evince in una serie di credenze secondo le quali, in alcune regioni d’Italia, Calabria compresa, durante la ricorrenza dei defunti i morti ritornano a casa e mangiano il cibo preparato per loro. Una credenza radicata a tal punto da indurre i familiari a seppellire i loro defunti con l’abito della festa affinché si presentassero nel migliore dei modi quando, nella notte tra l’1 e 2 novembre, avrebbero dovuto percorrere in processione le vie del paese. A tal riguardo, con diverse varianti, è diffusa una leggenda archetipica secondo la quale, una donna vestì la figlia morta con abiti vecchi. Una scelta dettata dalla necessità di conservare quelli nuovi per i figli sopravvissuti. La sera dei Morti la piccola anziché andare in processione con gli altri defunti andò a bussare a casa della madre dicendole: “Hai visto, mi vergogno di andare in processione con gli altri perché ho i vestiti strappati”. Halloween, Ognissanti e i Morti, con tutta evidenza hanno, quindi, un ceppo originario comune che affonda le radici in quell’Europa precristiana lontana parente dell’Europa senza fede e senza cuore plasmata dal relativismo dei tempi ultimi.

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