De Andrè e la sua “Storia di un impiegato” tra ieri, oggi e domani

Quando nel 1973 esce l’album “Storia di un impiegato” la critica comprende subito che non si trattava semplicemente del  tentativo di “ricostruire” il ’68 in termini musicali. C’era qualcosa di più. Il disincanto e l’impossibilità da parte del singolo di compiere un balzo in avanti e cambiare il sistema. Lo sa bene l’impiegato che, dopo aver tentato di mettere una bomba al Parlamento (tipico gesto da individualista) che invece rotola rovinosamente su una edicola di giornali, si trova a comprendere come la battaglia contro il sistema di piccoli privilegi che il potere concede in cambio del rispetto delle proprie regole dev’essere portata sul piano collettivo. Era un contesto storico piuttosto agitato, la primavera sessantottina che in Francia si esaurì col “Maggio francese”, in Italia durò oltre un decennio per poi assumere in alcuni casi le derive insurrezionali che tutti conosciamo. L’album nel quale Fabrizio de Andrè si dichiara politicamente senza lasciare margini di dubbio è ancora attualissimo e riascoltarlo adesso, nel 2016, significa ripercorrere per mano un pezzo di storia italiana ma anche comprendere come ora, quando la congiuntura economica è addirittura peggiore rispetto a quella 1973, la protesta sia defunta. Il «cadavere di Utopia» è stato definitivamente accompagnato «tra i flauti» al camposanto e a protestare contro un sistema che ingoia deboli e arricchisce i sempre più ricchi non rimane altro che il coro delle cicale. Lo ha descritto magnificamente, quello che sta succedendo, Thomas Piketty nel suo volume “Il capitale nel XXI secolo”. L’impiegato che ascolta 5 anni dopo la canzone che i giovani francesi intonavano nelle strade è il pretesto per paragonare la propria vita fatta di buonsenso e piccoli privilegi a quella dei giovani che hanno avuto il coraggio della ribellione nel tentativo di guadagnare quella uguaglianza universale predicata 1968 anni prima da un signore di nome Gesù Cristo. Crocefisso dal potere contro il quale si ribellò e indicato dopo la sua morte proprio da quel medesimo potere come “Figlio di Dio”. Nell’album non manca oltre al lato politico quello umano dell’impiegato-mostro, condannato e imprigionato, che scrive una lettera di addio alla fidanzata che invece ha deciso di aggrapparsi ai simboli del potere in cambio di una vita certa e predestinata. Il carcere, per De Andrè, rappresenta un elemento di unione, un luogo dove l’impiegato acquista una coscienza nuova quella collettiva e dove i carcerati tutti insieme, prima di mettere in campo una rivolta, comprendono di appartenere alla medesima classe si sfruttati. Il messaggio è chiaro, la via della liberazione passa attraverso il contributo di tutti e solo grazie alla protesta. Un messaggio che lo storico Piero Bevilacqua ha lanciato nel corso di un convegno a Serra San Bruno durante il quale è stato presentato il suo ultimo volume “La storia, le trasformazioni. Piero Bevilacqua e la critica del presente”. E se oggi gli intellettuali hanno il coraggio di dirlo vuol dire che ci potrà essere un domani.

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“Fabrizio De Andrè. A furia di essere vento”, venerdì a Petrizzi

Si svolgerà, a Petrizzi, venerdì 14 agosto alle ore 21.30, lo spettacolo “Fabrizio De Andrè. A furia di essere vento”. Scritto da Ulderico Nisticò per la regia di Alfredo Battaglia, lo spettacolo sarà interpretato da Antonella Paonessa, Gilda Mirarchi, Vittoria Santoro, Silvia Battaglia, Alfredo Battaglia, Gianluca Celia, Giuseppe Giorl e Pasquale Mosca.

Era calabrese la ‘Marinella’ di De Andrè

Maria Boccuzzi era una bambina calabrese come tante. Come le molte bimbe meridionali venute al mondo in una famiglia spoglia di ricchezze e di memoria, in un posto senza tempo e con un futuro senz’avvenire.

Era nata a Radicena (Taurianova) l’8 ottobre 1920 e con la famiglia si era trasferita nel ricco Nord in cerca di un lavoro, di una opportunità e nella speranza d’imboccare quell’incrocio ‘anomalo’ del destino che si chiama fortuna.

Nel 1953 il futuro cantautore genovese, Fabrizio De Andrè, aveva 13 anni ed era solito trascorrere, nell’astigiano, periodi di svago lontano dalla scuola dei Gesuiti dell’Istituto Arecco che frequentava insieme ai rampolli della ‘Genova-bene’.

Era il periodo in cui ascoltava il cantautore francese, George Brassens, e si sentiva fortemente attratto dai personaggi che popolavano le sue canzoni che, spesso, riusciva a ritrovare nei fatti di cronaca nera narrati tra le pieghe dei giornali locali.

Nacque da una di queste ‘letture’ il suo incontro con la ‘Marinella’ di origini calabresi, brutalmente uccisa a 33 anni dalle ‘carezze di un animale’ e successivamente scaraventata nel fiume Olona.

È grazie al volume ‘Il libro del mondo’ di Walter Pistarini, in cui è ricostruita la vicenda, che è possibile dare un nome alla protagonista dell’episodio di cronaca realmente accaduto, amata dal ‘re senza corona e senza scorta’ cantata nella canzone che determinò la sorte artistica del cantautore genovese.

“Se una voce miracolosa – era solito dire il cantautore - non avesse interpretato nel 1967 ‘La canzone di Marinella’, con tutta probabilità avrei terminato gli studi in legge per dedicarmi all’avvocatura. Ringrazio Mina per aver truccato le carte a mio favore e soprattutto a vantaggio dei miei virtuali assistiti”.

Lo stesso Fabrizio De Andrè raccontava di essersi ispirato ad una notizia di cronaca nera che aveva letto su un giornale locale quando era ragazzo e che lo aveva particolarmente colpito. La ricostruzione nel libro di Walter Pistarini si basa su una ricerca condotta dallo psicologo Roberto Argenta - cui aveva pubblicato un primo resoconto su ‘La Stampa’ (nelle pagine di Asti) del 13 gennaio 2007 - fatta di ore di lavoro in biblioteca.

Dalla tenacia del ricercatore era emerso un primo indizio sul fatto di sangue a cui il celebre cantautore si era ispirato per la sua canzone. Si tratta, appunto, della storia di Maria Boccuzzi, una prostituta di 33 anni che venne ritrovata morta nel 1953 nell’Olona alla periferia di Milano. La notizia portava il seguente titolo ‘Carica di vistosi gioielli all’appuntamento con la morte’ ma fin qui la fonte era frammentaria e narrava di una prostituta che dopo aver tentato la carriera di ballerina con il nome d’arte di Mary Pirimpò, si era innamorata di un personaggio equivoco ed aveva cominciato a prostituirsi.

Questa storia ha trovato successivamente un riscontro in un articolo de ‘La Nuova Stampa’ del 30 gennaio 1953 - giorno successivo a quello del rinvenimento del corpo - intitolato ‘La mondana trovata uccisa nell’Olona’, che narra la vicenda cosi: “Quella di Maria Boccuzzi…è la storia di una vita torbida troppo presto conclusasi. Venuta a Milano con i genitori dal piccolo centro calabrese di Radicena, dov’era nata l’8 ottobre 1920, Maria Boccuzzi abbandonava la famiglia e il modesto lavoro di operaia alla nostra Manifattura tabacchi, per inseguire la chimera dell’arte scenica. Ma cadde sempre più in basso, fino ad essere fermata una notte dalla squadra buoncostume”. Altri dettagli sull’omicidio raccontano: “sei ferite d’arma da fuoco inducono a ritenere che l’assassino abbia anche infierito sulla disgraziata e, deciso a rendere quanto più perfetto il delitto, abbia provveduto a cancellare ogni possibile traccia del suo crimine…s’impadronì di tutti i suoi documenti, tra cui doveva esserci…una polizza di assicurazione sulla vita che garantiva un capitale di 300.000 lire a beneficio degli eredi eventuali”.

Dalle notizie emerse dalle indagini fatte all’epoca pare che la donna avesse manifestato al suo amante, un ballerino sospettato dell’omicidio, di voler abbandonare quella vita disordinata.

A proposito di questa storia, in una intervista a Vincenzo Mollica Fabrizio De Andrè disse che l’ispirazione per ‘La canzone di Marinella’ gliela aveva fornita “un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte”.

 

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Quella serata serrese con Fabrizio De André

A volte la storia, anche quella piccola, minuta, quella con la “s” minuscola prende strade strane e porta alla ribalta episodi e fatti, altrimenti, destinati a rimanere nell’anonimato, a scivolare nell’oblio.

È per uno di questi sentieri accidentati che è arrivato fino a noi, un dettaglio verificatosi a Serra San Bruno a margine della festa dell’Assunta del 1984.

Un dettaglio che i suoi protagonisti hanno fatto diventare un pezzo di storia serrese.

Il 14 agosto di oltre 30 anni fa, le due confraternite, di Spinetto e Terravecchia, si misuravano in una singolare competizione. Un paese, due feste.

Da una parte, la congrega posta al di là del fiume, dall’altra quella collocata nella parte più antica della cittadina.

Il momento centrale della serata era, inevitabilmente, quello destinato ai “cantanti”, la manifestazione musicale con la quale i seggi priorali mostravano i muscoli e misuravano la riuscita della festa, la loro festa.

Nella centralissima piazza San Giovanni la confraternita dell’Assunta di Terravecchia aveva fatto le cose in grande. Ospite della serata Dori Ghezzi.

In maniera discreta, quasi invisibile per le vie della cittadina si aggirava il suo compagno, Fabrizio De André. L’atmosfera esaltante, il clima caldo e le luci delle luminarie erano talmente abbacinanti che solo in pochissimi percepirono la presenza dell’illustre personaggio. Anche perché, De Andrè, forse non amando particolarmente il caos della folla vociante, in attesa della conclusione dello spettacolo, aveva preferito rifugiarsi nei locali del circolo “Unione”.

Fu in quell’ambiente spartano ed insolito che due, allora giovanissimi, serresi incrociarono l’autore di “Bocca di Rosa” e “Via del campo”.

«Lo incontrammo – ha raccontato qualche anno addietro uno dei protagonisti - seduto ad un tavolo, era impegnato a bere un cognac da una bottiglia con in bocca l’ennesima sigaretta. Gli chiedemmo da dove arrivasse la sua musica, quali erano le fonti di tanta ispirazione. Lui rispose con sincerità ed intelligenza. “Viene dal fiume e soprattutto dalle storie di paese”.

Quieto e sorridente aggiunse: “ ho visto che anche qui c’é un fiume che attraversa il paese è come dire che anche voi avete una Spoon river e sicuramente non mancano, nella vostra comunità, i servi disobbedienti alla legge del branco, rifiutati dal potere vestito di umana sembianza”.

Un incontro eccezionale, non solo per la caratura e l’imprevedibilità dell’artista, quanto per la sua curiosità, il suo desiderio di conoscere il patrimonio nascosto di un popolo, quello che herdeianamente pensava fosse custodito nella lingua. Non già in quel codice linguistico convenzionale ed a volte estraneo, rappresentato dall’idioma nazionale, quanto dal dialetto, la lingua del popolo.

«La cosa che non potrò mai dimenticare – prosegue il racconto – è stata la sua richiesta di rispondergli in dialetto. Era curioso di sentire la parlata locale». Un interesse per la lingua, al contempo, intesa come strumento di imperio, di dominio ma anche di disubbidienza e ribellione. Prima di congedarsi, con la bottiglia di cognac «ormai vuota ed il portacenere colmo delle sue sigarette, ci fece notare che le lingue della resistenza al potere, che usa sempre la lingua colta, sono sempre più divertenti e genuine».

Chissà, quale potrebbe essere la lingua della resistenza oggi, nel tempo in cui il potere, incarnato dai tecnocrati della finanza, si esprime in inglese.

Ma oggi, forse, più che di una lingua, la ribellione e la disubbidienza avrebbero bisogno d’interpreti.

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