L’archeologia industriale come esempio di cultura produttiva: il Serreinfestival alla scoperta della gloriosa storia di Mongiana

L’intrigante Museo delle reali ferriere di Mongiana ha ospitato il dibattito “Tra storia e archeologia industriale” promosso all’interno del Serreinfestival e pensato per riappropriarsi di una cultura produttiva di cui la Calabria era portatrice.
 
L’iniziativa è stata introdotta dal giornalista Biagio La Rizza, che ha contestualizzato la realtà socio-lavorativa del complesso siderurgico nel panorama ottocentesco mettendo in evidenza il grado di sviluppo raggiunto dalla Calabria rapportato allo scenario di quell’epoca.
 
Dopo i saluti istituzionali del sindaco Francesco Angilletta che si è soffermato sulla “crescita della comunità che valorizza la sua storia” e sulla necessità di “continuare a trasmettere lo spirito di ciò che c’era”, l’esperto e componente dell’Associazione italiana per il Patrimonio archeologico industriale Danilo Franco ha spiegato che “l’economia di ieri è stata trasformata in cultura di oggi”. “Mongiana - ha in particolare rilevato Franco - era al vertice di una piramide che affondava le radici in 2000 anni fa ed ha rappresentato l’ultima fase di un’industrializzazione, non voluta politicamente, del Regno delle Due Sicilie. Dall’industria calabrese sono nati i primi ponti in ferro sospesi. Dunque, Mongiana può essere il biglietto da visita per dimostrare che la Calabria era una regione che produceva e non l’ultima ruota del carro d’Europa”.
 
La docente dell’Università “Federico II” di Napoli, Mariolina Spadaro, ha relazionato sul “lavoro minorile e sulla condizione operaia nell’età liberale” confrontando la situazione esistente nel sito borbonico con quella delle altre aree. Nello specifico, per le ferriere di Mongiana esisteva un regolamento (fra i primi esempi di normativa scritta) già nel 1845, quando la struttura riusciva a raggiungere “i 2/3 della produzione del Regno delle due Sicilie”. Il Regolamento - ispirato alla logica militare coniugata però con alcune libertà - disciplinava “il lavoro dei minatori precisandone l’orario, distinguendo i lavoratori per fasce d’età, stabilendo compensi, misure di previdenza e cautele per i più deboli”. Scendendo nei dettagli, i garzoni (ragazzi di età non inferiore ai 12 anni) erano adibiti “al trasporto dei minerali, ma non impiegati nei lavori pericolosi” e “la paga era commisurata alla quantità di materiale trasportato”. Erano inoltre previsti “sistemi di sanzione per i trasgressori” ed i ricavi delle multe “venivano redistribuiti mensilmente tra i più meritevoli o a chi aveva subito una disgrazia e non poteva procacciarsi gli alimenti”. Quindi la condizione dei lavoratori di Mongiana era “migliore rispetto a quella degli omologhi inglesi e italiani”. Infatti, altrove i “carusi” (bambini dai 7 anni in sù) erano impiegati nelle gallerie e costretti ad una media di 29 viaggi giornalieri con pesi fino a 70 kg e guadagni risicati. Poi, a partire dal 1860, si impose ovunque “il modello inglese dello sfruttamento intensivo” che “guardava poco alla persona umana e molto alla produzione”. 
 
A margine del dibattito ha avuto luogo la mostra di antichi e moderni coltelli calabresi a cura di Salvatore Tarantino. 
 
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Achille Fazzari, "luci e ombre" di un garibaldino calabrese

In un articolo pubblicato ieri, Bruno Vellone si è occupato di un sonetto inedito, custodito a Mongiana, nel quale Garibaldi manifesta la sua amicizia al garibaldino Achille Fazzari. Per capire chi fosse, riproponiamo un’intervista rilasciataci, poco prima della scomparsa, dal ricercatore serrese Bruno De Stefano Manno, il quale definiva l’ex sarto di Stalettì, «personaggio tra luci e ombre, laddove le ombre assumono a tratti l’aspetto delle tenebre».

La definizione, da Lei data, nell’ambito della ricerca su “La Fabbrica di Cellulosa” di Serra San Bruno sorprende, perché Fazzari, almeno fino ad ora, era stato ritenuto personaggio senza macchia, di condotta irreprensibile. Una sorta di campione dell’umanità ammantato d’aura leggendaria.

Chiacchiere frutto di una ricerca, ove mai c’è stata, basata solo su quei quattro o cinque scritti encomiastici lasciatici da suoi contemporanei, per lo più amici, compagni di merende, ospiti, se non addirittura parenti come nel caso del nipote Domenico La Russa, figlio di Gemma Fazzari. Costoro hanno messo in risalto solo le luci, non hanno fugato le ombre e hanno evitato di avventurarsi tra le tenebre del suo discutibilissimo modus operandi. D’altra parte pur volendolo, non avrebbero potuto farlo, se si tiene presente che loro unica fonte d’informazione era lo stesso Fazzari, un po’ spaccone forse, ma pronto a sfruttare le occasioni propizie per mettersi in mostra. Abile nel pubblicizzare meriti inesistenti e abilissimo nel nascondere quello che di cattivo, anzi di pessimo, andava combinando».

    Chiarisca meglio

    Premesso che nessuna ricerca organica è stata finora condotta su di lui, le poche notizie a disposizione derivano da un’intervista rilasciata in tarda età a Luigi Cunsolo, da un paio di articoli di Matilde Serao e di suo marito Edoardo Scarfoglio, dall’elogio funebre pronunciato da Vincenzo Vivaldi in occasione del primo anniversario della morte e soprattutto da un sintetico scritto agiografico, opera del nipote, straripante venerazione per il nonno. Da questo, e solo da questo, deriva la sua immagine pubblica. C’è chi ne apprezza le doti e lo esalta e chi, come il sottoscritto, lo ritiene un furbacchione matricolato con tendenza a delinquere, per di più, antesignano della mala genia dei politici nostrani di mano lesta. 

   Pertanto la fama dell’eroico garibaldino sarebbe usurpata?       

   Assolutamente no, quella non gliela toglie nessuno, fa parte delle luci. In alcuni casi troppo abbaglianti, distorte dalla trita agiografia garibaldina e non tutte controllate dal punto di vista storico, ma non si può affermare che fosse un pavido, anzi tutt’altro. Partecipò in prima linea alla campagna del ‘60, fu nel ‘62 in Aspromonte al seguito di Garibaldi, e per questo fu arrestato, fu ferito a Monte Libretti nel 1867 nel corso della spedizione conclusasi a Mentana sotto il micidiale fuoco degli Chassepots francesi. Uguale a Garibaldi fu ferito ad un piede e con lui condivise lo sprezzo del pericolo e la modestissima cultura. Fu legato da fraterna amicizia a Menotti e Ricciotti, figli di Garibaldi e all’eroe rese numerosi servizi d’ordine pratico. Per esempio: gli risolse il problema idrico del riarso orto di Caprera e con uno stratagemma, trovò il modo di liberarlo dall’increscioso matrimonio contratto con la fin troppo disinvolta contessina Raimondi. Fu testimone di nozze quando Garibaldi sposò Francesca Armosino, che egli stesso gli aveva procurato quale balia del figlioletto Lincoln, e ne divenne in qualche modo parente quando sua figlia Elsa sposò in successione Foscolo, Cairoli e Cino, tre dei sedici figli di Stefano Canzio e Teresa Garibaldi, figlia di Anita. Tentò, senza successo, di far recedere Garibaldi dalle posizioni anticlericali. Da deputato fu precursore della Conciliazione tra Stato e Chiesa, tant’è che finanche Mussolini, nel discorso letto alla Camera in occasione della firma dei Patti Lateranensi, se ne ricordò e gliene rese merito. 

  Ma, allora, le ombre in cosa consistono?

  Era di umili origini e poverissimo: circostanze, è ovvio, che non sono ombre. Le ombre gravano sulle origini della sua improvvisa ed immotivata ricchezza dato che prima delle campagne garibaldine non aveva il becco d’un quattrino. Pesanti, le tenebre si addensano su una truffa organizzata a Napoli in danno di un banchiere credulone, truffa in cui, in combutta con due deputati maneggioni, riuscì a coinvolgere a sua insaputa un principe di casa reale. Ma non è tutto: all’epoca dello scandalo della Banca Romana, scandalo responsabile della caduta del primo governo Giolitti, la commissione d’inchiesta parlamentare appurò che, grazie a connivenze di sottogoverno, a Fazzari e a uno dei suoi ex complici della truffa napoletana erano stati concessi finanziamenti completamente privi di copertura. Ancor prima di codesti scandali il nostro eroe aveva dato prova di discutibile condotta: intorno al 1870, improvvisatosi appaltatore edile, riuscì ad aggiudicarsi i lavori per il traforo del promontorio di Copanello. Avviati i lavori,  si affrettò a comprare un fondo rustico che insisteva sul promontorio. Appena ratificato l’acquisto, citò in causa lo Stato per presunti danni derivati al fondo dai lavori che egli stesso conduceva nel sottosuolo. Non contento, allo Stato chiese anche il risarcimento del materiale cavato, materiale che egli stesso aveva scaricato a mare ai piedi del promontorio. Occorsero due differenti gradi di giudizio, con discesa in campo degli avvocati erariali dello Stato, per ricondurre alla ragione il bellicoso garibaldino.

   Come mai tutto ciò non emerse alla luce del sole?

   Bisogna tenere presente che alla sua epoca le notizie circolavano con difficoltà. Quanto di cattivo accadeva all’interno delle stanze del potere raramente raggiungeva l’opinione pubblica. Pochi erano i giornali antigovernativi e quei pochi, ad esempio “il Piccolo” e “il Mattino” di Napoli, erano diretti da amici di Fazzari, nella fattispecie da Rocco de’ Zerbi e da Edoardo Scarfoglio. Il primo, tra l’altro, era uno dei due complici napoletani nella truffa in danno del banchiere Rocca e fu l’unico a pagare con il suicidio il coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana.

  E Fazzari la fece franca?

  In effetti si. Riuscì a contrabbandare un’immagine del tutto avulsa dalla realtà presentandosi sempre come un disinteressato benefattore del suo elettorato. Finora, tanto per dirne una, si è sempre creduto che avesse regalato alla comunità certosina di Serra San Bruno i graniti occorrenti alla ricostruzione della Certosa. Lui stesso in più di un’occasione se ne vantò in pubblico. E invece, come attestano i carteggi conservati nell’archivio del monastero, i graniti non solo pretese che gli fossero pagati, ma riuscì finanche a farseli pagare a ripetizione. Cosa che, con pazienza certosina, gli venne contestata dal priore della Certosa. In sostanza Fazzari ebbe due facce: una pubblica, alla luce del sole ed irreprensibile ed una privata fatta di raggiri e sotterfugi. Spiace dirlo, spiace demolire un mito, ma tant’è. Le verità prima o poi vengono a galla. E pensare che in passato, segnatamente nella zona delle Serre, gli sono state intestate strade e che, di recente, qualcuno ha chiesto a gran voce d’intestargli una piazza.

  

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Le ferriere calabresi: dalle attività itineranti alle iniziative protoindustriali/PARTE II

Il pezzo che segue è la prosecuzione di un articolo pubblicato ieri ed al quale è possibile accedere cliccando sul link che segue:

https://www.ilredattore.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=1916:la-calabria-e-le-ferriere-itineranti&Itemid=953

 

L’ attività siderurgica calabrese riceve nuovo impulso dopo il 1734, in seguito alla rinascita del Regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone e dal suo dinamico primo ministro Bernardo Tanucci. “La produzione nazionale di ferro si attesta intorno alle 10.000 cantaia, quella dell’acciaio intorno a 1.300. In Calabria se ne producono 2.400, di cui la metà a Stilo. […] tuttavia, l’antiquata tecnica di fusione  detta alla “catalana” non è più sostenibile dal momento che comporta un insostenibile dispendio di carbone in rapporto alla quantità di itineranti. “ emblematica in tal senso è la storia della ferriera di Campoli, in territorio del Principe di Roccella, non distante da Pazzano. Distrutti i boschi limitrofi, è stata prima affiancata e poi sostituita da una nuova costruita a Bocca d’Assi da cui prende il nome. Con la ferriera di Assi si prova a dare impulso alle antiche ferriere del Piano della Chiesa. Dette ferriere, poste a nove miglia a ovest di Stilo, sono progenitrici di Mongiana e da esse proverranno i primi artefici dello stabilimento. Poco si sa sulla loro antica conformazione e, pur se di recente sono stati localizzati i ruderi dell’antica chiesetta, sappiamo solo che costituivano un articolato sistema di piccole entità produttive, ognuna a differente specializzazione, di cui le fonti citano tra le tante: fornace vecchia; fornace nuova; ferriera di Arcà; delle armi, della murata; del Maglietto; Acciarena; Molinelle inferiori; Molinelle superiori, ecc.”.  Tra il 1739 ed il 1742 cinque di queste ferriere vengono date in fitto ad un tale Cavallucci che, in cambio di 7.630 ducati annui, si impegna a consegnare alla dogana di Napoli 1.250 proiettili. Dal 1742 al 1750 la gestione viene assunta da un notabile di Stilo, don Giuseppe Lamberti che si obbliga a consegnare, ogni anno, 2.000 cantaia ( circa 180 quintali)  di “carronate da marina”. Nonostante l’assistenza di un ufficiale lorenese, la gestione di Lamberti si rivela disastrosa sia sotto il profilo finanziario che produttivo. Molte delle artiglierie prodotte sono difettose a tal punto da gettare discredito sulle maestranze che operano in Calabria. Reso diffidente dalla infelice prova delle imprese metallurgiche calabresi, constata l’arretratezza dei sistemi in uso, Carlo di Borbone decide di colmare il divario tecnologico e nel 1749, chiama a Napoli “due drappelli di sassoni e Ungheri […]Uffiziali istrutti nella metallurgia sotterranea, minatori, fabbri per costruire macchine, uomini esperti nel preparar metalli avanti la fusione, e quanti altri mai potessero abbisognare alla impresa di investigare e scavare miniere”. La pattuglia sassone è guidata dal consigliere Hermann, professore presso l’Accademia mineraria di Freyberg, mentre a capo degli ungheresi c’è un non meglio identificato Fuchs. Ai tecnici viene affidato il compito, da un parte, di effettuare prospezioni del sottosuolo, dall’altra d’istruire le maestranze, soprattutto quelle calabresi. “A Stilo prende dimora il sassone Bruno M. Schott” che dirige lo scavo di nuovi filoni. Intanto, a capo delle ferriere, viene posto un amministratore che alla dipendenza del Ministero delle Finanze ha l’incarico di riordinare la produzione. In Calabria viene inviato, anche, Giovanni Conty che, a causa delle difficoltà riscontrate, chiede di essere messo nella condizione di ristrutturare l’intero complesso o in alternativa di essere avvicendato. Con l’ultimatum Conty trasmette a Napoli la proposta di varare una norma a tutela del bosco ed un dettagliato piano di sviluppo. Il piano contiene la proposta di trasferire l’attività in località Cima, alla confluenza dei fiumi Ninfo e Allaro, al centro di fitti boschi equidistanti dalle due coste.

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La Calabria e le ferriere itineranti /Parte I

La Calabria vanta un vecchio legame con l’estrazione e la lavorazione dei metalli. Una storia  rimasta inesplorata, fino al pioneristico lavoro, nei primi anni Settanta, con il quale Gennaro Matacena e Brunello De Stefano Manno ricostruirono le vicende del più importante complesso industriale del Regno delle Due Sicilie. “ Le reali ferriere ed officine di Mongiana” ha permesso di fare luce su un complesso sistema produttivo che rappresenta “l’ultima testimonianza di un’attività fusiva che in Calabria risale al tempo degli insediamenti commerciali fenici”. Un’attività, nata in ragione di un vantaggio competitivo che affondava le radici nella disponibilità di tutte le materie prime necessarie. La presenza del ferro nelle miniere dei monti Stella e Cosolino che circondano il triangolo Stilo – Bivongi - Pazzano; i ricchi boschi di faggio di Monte Pecoraro e le inesauribili risorse idriche che solcano l’intero territorio. Mongiana, nasce, infatti, in tempi relativamente recenti ed è “una gemmazione” di precedenti piccole ferriere. Una gemmazione dettata da ragioni prettamente economiche. L’enorme consumo di carbone vegetale, “rendeva le ferriere industrie nomadi”, costrette ad inseguire i nuovi boschi dai quali ricavare il carbone necessario ad alimentare gli altiforni. Come ricordano gli autori delle “Reali ferriere ed officine di Mongiana”, “nel 1771, distrutto il bosco di Stilo, i forni giungono in località Cima, detta poi Mongiana dal nome di un ruscello che scorreva sulla Piana Stagliata-Micone. […] Giungono in un territorio apparentemente ricco di acque, sicuramente folto di selve e non troppo distante dai giacimenti. Intorno al primo nucleo di forni si svilupperà il paese e con l’introduzione delle  prime leggi di tutela forestale, la ferriere perderà il carattere itinerante e assumerà quello d’industria stabile.

Le ferriere itineranti

Nella “Storia critico-cronologica-diplomatica del Patriarca San Brunone e del suo ordine cartesiano”, Benedetto Tromby riporta l’atto di donazione con il quale, nel 1094, Bruno di Colonia riceve, da Ruggero il Normanno, le miniere ed i forni presenti nel circondario di Stilo ed Arena. La donazione si accresce nel 1173, quando Guglielmo re di Sicilia, aggiunge “[…] et liberartibus minerae aeris ed ferri […]”,  concedendo alla Certosa alcuni contadini ed un mulino “in pertiunentiis Stili”. La lavorazione del minerale si sviluppa con svevi, angioni ed aragonesi che fiutano il vantaggio economico ed iniziano ad istituire “fondachi” e dazi. Le miniere di Pazzano crescono d’importanza durante il periodo angioino, tanto che un documento nel 1333, nel citare il lavoro nelle gallerie di Monte Stella, fa riferimento ad una fonderia di proprietà della Certosa attiva proprio nel territorio di Pazzano. Sia le miniere che le ferriere, non vengono gestite direttamente. A gestirle ci pena l’ “arrendario” , un concessionario che le sfrutta, pagando una rendita in manufatti e in denaro, al re ed al convento. Il periodo d’oro della metallurgia itinerante vive il suo primo declino intorno al 1450, quando gli Aragonesi per favorire i più importanti finanziatori del loro debito, ovvero i ricchi mercanti fiorentini che risiedono a Napoli, favoriscono l’importazione di ferro toscano imponendo dazi proibitivi all’estrazione, lavorazione e commercio del ferro grezzo. “Nel 1520 la ferriera di Stilo risulta inattiva”, mentre le semi abbandonate miniere di Pazzano forniscono il poco materiale necessario ad alimentare le ferriere di Campoli, Trentatarì, Castel Vetere, Spadola e Furno. Nel 1523, quale riconoscimento dei servigi ricevuti l’imperatore Carlo V dona a Cesare Fieramosca le miniere e successivamente i forni fusori ed i boschi.  Il fratello del celebre Ettore, più votato alle armi che agli affari, non s’interessa granché delle sue nuove proprietà. Tuttavia, l’importanza dell’attivata estrattiva e della lavorazione del ferro è testimoniata da un importante documento redatto nel XVI secolo, nel quale incaricato dalla Serenissima di tracciare un “Descrizione di tutta l’Italia e isole pertinenti” il frate domenicano Leando Alberti, riferendosi alla vallata dello Stilaro scrive: “dalla marina, lontano quattro miglia, sopra un alto colle si dimostra Stilo, nobile Castello, dietro al quale a man sinistra son le miniere di ferro ove se ne cava assai”. Dopo una annosa vertenza tra gli eredi Fieramosca e Ravascheri che gestiscono per due anni la ferriera di Stilo, la “Regia Camera” al fine di non interrompere l’attività, incarica un ufficiale d’artiglieria, tale capitano Castiello, di dirigerle “in nome e per conto della corte”. Non deve risultare strano la scelta di affidare la gestione delle ferriere ad un uomo d’arme. Quelli sono gli anni in cui l’arte di eliminare il prossimo si serve sempre più di un’arma potente e temibile, il cannone. Nonostante ciò, anche in ragione delle fiorenti miniere del Nuovo Mondo, durante il periodo dei Vicereami spagnoli, l’industria estrattiva “subisce una lenta contrazione”. Sono gli anni in cui lo Stato cede la proprietà delle ferriere, tenendo per sé solamente quella di Stilo. Nuovo impulso alla “industria” siderurgica viene dato dopo il 1734, in seguito alla rinascita del Regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone e dal suo dinamico primo ministro Bernardo Tanucci.

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