Serra e l’antico sapere di “andar per campi”

La primavera, bella per poeti e pittori, è stata tante volte amara, quando non addirittura ostile, per la gente comune. Mentre i primi, spesso, l’hanno tratteggiata con opere radiose in cui la natura riprende vita, i secondi l’hanno vissuta con ambasce poiché, il più delle volte, l’inizio della bella stagione coincideva con l’esaurimento delle scorte alimentari accumulate per superare l’inverno.

In attesa dei  nuovi raccolti, uomini e donne iniziavano, quindi, ad “andar per campi” in cerca di frutti ed erbe con cui combattere i morsi della fame. Quanto l’uso delle piante edibili spontanee fosse diffuso un tempo, lo testimonia uno scritto di Giacomo di Castelvetro che nel “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano”, apparso nel 1614, scrive: “gl’Italiani mangino più erbaggi e frutti che carne”.

Ancor più significativo il trattato “De Alimenti urgentia” con il quale, nel 1767, il naturalista fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti focalizza l’attenzione sulla “Alimurgia o sia modo di rendere men gravi le carestie”, ovvero la possibilità di utilizzare le piante spontanee “che tolgon la fame”. Nel trattato, scritto dopo la terribile carestia del 1764 che colpì buona parte dell’Italia - dal Granducato di Toscana al Regno di Napoli - Targioni Tozzetti chiama “alimurgia” la disciplina che si “occupa di ricercare quanto può essere utile in caso di necessità alimentare”.

Il termine – complice la scarsità di cibo provocata dalla Grande guerra e dall’epidemia di spagnola - sarà ripreso nel 1918 dal biologo piemontese Oreste Mattirolo, il quale chiamerà “Phytoalimurgia pedemontana”, il suo censimento delle specie alimentari della flora spontanea. Arricchita dal prefisso “fito” (dal greco phytón, ovvero "pianta"), l’alimurgia entrerà nel linguaggio scientifico con il lemma fitoalimurgia. L’espressione, usata ai nostri giorni, indica la disciplina che riconosce l'utilità di cibarsi di piante selvatiche – dette per l’appunto alimurgiche - soprattutto in tempi di carestie o semplicemente per scopi salutistici.

Gli ignari seguaci della fitoalimurgia non sono mai mancati a Serra San Bruno e nel suo circondario dove, con l’arrivo della bella stagione, le brave massaie di un tempo trasformavano in regine della cucina piante dai nomi e dalle forme più disparate. Tra le prime ad apparire sulla tavola c’erano sicuramente la borraggine (gurrajina) e le ortiche (ardichi), destinate ad essere consumate con pasta o riso. Era poi la volta della vitalba (ligunhii), impiegata per rendere più appetitosa la frittata, o degli asparagi selvatici (sparaci) da gustare anch’essi con la pasta o con le uova. Meno comuni, invece, i germogli del luppolo (luppura). Immancabili, poi, il ravanello selvatico (vruoccula di razzi) e il cavolo rapiciolla (rapisti) di cui, in entrambi i casi, si consumavano sia i broccoletti che le foglie (magari con i fagioli). Accanto ai fagioli finivano, spesso, anche il finocchietto selvatico (finucchiu) e il sedano d’acqua (schiafuni). Infine, tra i protagonisti assoluti delle tavoli serresi, c’erano la costolina o costole d’asino (viedhiruni) e il fiore del sambuco (pipi di maju), destinato alla tradizionale “pitta chjina”.

Ovviamente, l’attenzione di chi era uso ad “andar per campi” non si limitava alle sole piante edibili. Tra la primavera e l’estate, infatti, molti non disdegnavano la raccolta di aromatiche, come: timo, anice - entrambi facilmente reperibile nei boschi - e origano. Non mancava, infine, l’attenzione per piante officinali, quali la malva (marva) o il tiglio (tiggjiu). Un’attenzione nata da conoscenze antiche capaci di trasformare i saperi in sapori. Sapori e saperi che meriterebbero di essere riscoperti e valorizzati, magari con un festival tematico dedicato alle piante spontanee e al loro uso nella cucina tradizionale.

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I “Vascelli dei venti”, le mongolfiere giapponesi all’attacco dell’America

Il 5 maggio 1945 è una normale domenica. Il reverendo Archin Mitchel, sua moglie Elsie Winters e cinque ragazzi tra gli 11 e i 13 anni che frequentano la parrocchia, ne approfittano per fare un pic-nic nella foresta di Gearhat Montain, non lontano da Bly, in Oregon. Giunti a destinazione, mentre il reverendo si attarda a parcheggiare l’autobus, i ragazzi e la loro accompagnatrice s’incamminano su un sentiero. Lungo il tragitto s’imbattono in uno strano oggetto e decidono di raccoglierlo. Segue una terrificante esplosione che squarcia il silenzio in cui è ancora immerso il bosco. Il reverendo Mitchel si precipita, la scena che gli si para innanzi è agghiacciante. Al suolo, straziati dalla deflagrazione, giacciono i cadaveri della moglie ventiseienne e dei cinque ragazzi. Nonostante lo shock, riesce a chiedere aiuto. Insieme allo sceriffo, arrivano militari, polizia federale e servizi segreti.

A provocare la strage non è stato un oggetto qualsiasi, ma una bomba giapponese. Senza portaerei in grado di attraversare il Pacifico e con il progetto del primo bombardiere a largo raggio ancora sulla carta, i nipponici, in teoria, non avrebbero le capacità logistiche per colpire il suolo americano. Quello che a molti sembra un enigma, tale non è, almeno per i militari che, da qualche mese, sono in allarme per alcune esplosioni legate a ciò che nel primo numero del 1945, la rivista Newsweek aveva definito il “Balloon mistery”. Un mistero per molti destinato a rimanere tale per effetto della censura. I cittadini, infatti, non devono sapere che l’America e sotto attacco a casa propria. Dietro al “Balloon mistery” ci sono, infatti, i giapponesi che, il 3 novembre 1944, hanno dato l’abbrivio all’operazione “Fu-Go” con l’impiego, su larga scala, della prima arma intercontinentale della storia. La “nuova” arma, battezzata “Vascello del vento”, non ha niente in comune con le V1 e le V2, i razzi tedeschi usati per attaccare l’Inghilterra. Lo strumento impiegato dai giapponesi è, apparentemente, rudimentale, ma per poco non cambia l’esito della guerra. La loro arma segreta è una tutt’altro che banale mongolfiera. L’operazione è stata inizialmente pensata per lavare l’onta subita il 18 aprile 1942 con il raid “Doolittle”, quando 16 B-25 decollati dalla portaerei Hornet erano riusciti a bombardare Tokyo. L’incursione, irrilevante sotto il profilo militare, rappresentò un duro colpo per i giapponesi che ritenevano di non poter essere colpiti sul territorio metropolitano. Per rispondere all’affronto, il 9 settembre 1942, un piccolo idrovolante portato a ridosso della costa americana da un sottomarino, lancia bombe incendiarie sul Monte Emily, in Oregon. Non può bastare. Lo stato maggiore nipponico vuole un’arma in grado di colpire gli Stati Uniti con regolarità. Qualcuno, forse pensa all’operazione “Outwad”, con la quale gli inglesi hanno lanciato contro la Germania nazista decine di palloni armati di bombe incendiarie. Tuttavia, l’impresa di far viaggiare per oltre 6 mila chilometri una mongolfiera è piuttosto complessa. I giapponesi, però, non partono da zero. Nel 1933, infatti, hanno già studiato la possibilità d’impiegare un pallone a fini bellici. Ad occuparsene era stato il tenente generale Reikichi Tada, del Japanese military scientific laboratory. Interrotto nel 1935, il progetto viene rispolverato dal generale Sueyoshi Kusaba e dal maggiore Kiyoshi Tanaka del 9° Istituto di ricerca tecnica militare.

Il primo prototipo è testato nel marzo del 1943, quando un pallone di 6 metri di diametro attraversa il Giappone, percorrendo i mille chilometri che separano la costa orientale da quella occidentale. Il lancio è un successo. L’idea iniziale prevede, infatti, che la mongolfiera venga portata da un sottomarino a circa mille chilometri dalla costa Usa, gonfiato sul ponte e lanciato, previa attivazione del timer per il rilascio di una bomba. Per dare operatività al progetto, tre sommergibili vengono inviati nell’arsenale di Kure per essere sottoposti alle necessarie modifiche.

I lavori sono ad uno stadio avanzato, quando vengono repentinamente interrotti per destinare i battelli al rifornimento delle truppe sparse nell’immenso teatro del Pacifico. Il progetto, però, non viene accantonato. I risultati incoraggianti dei test hanno fatto nascere un’idea ancor più ambiziosa: sviluppare un pallone in grado di affrontare in autonomia l’intero volo intercontinentale. Dal 9° Istituto, si rivolgono all’Osservatorio meteorologico centrale di Tokyo, diretto dal dottor Arakawa, per sapere se esistono venti in grado di spingere una mongolfiera fin sulle coste Usa. I metereologi sono a conoscenza della presenza di una corrente che, nei mesi invernali, soffia sul Giappone tra i 2 ed i 300 Km/h ad un’altitudine di circa 12 Km. Ciò che è del tutto inesplorato, è il comportamento del vento sul Pacifico. Parte, quindi, uno studio che coinvolge sette stazioni meteo e alcune navi incaricate delle osservazioni in mare. Arakawa e il suo staff scoprono i “Fiumi d’aria in rapido movimento" - più tardi ribattezzati "Correnti a getto" - che, tra ottobre e marzo, spirano sul Pacifico al di sopra dei nove chilometri d’altitudine. I dati vengono suffragati dai risultati raccolti da 200 palloni meteo lanciati durante l'inverno 1943/44. A questo punto, gli ingegneri iniziano a lavorare al progetto ancor più alacremente. Gli ostacoli da superare sono molti, a partire da come far rimane in quota la mongolfiera durante la lunga traversata. L’idrogeno usato per gonfiare le sfere è piuttosto instabile. Di giorno, quando la temperatura supera i 30° il pallone rischia di prendere quota ed esplodere. La notte, invece, quando la temperatura scende anche sotto i 50°, la pressione atmosferica si abbassa, il gas si comprime ed il pallone inizia a scendere. Problemi di non poco conto, superati dal maggiore Otsuki, del Noborito research institute, con una soluzione brillante, ovvero una ruota d’alluminio con un dispositivo dotato d’altimetro che rilascia il gas quando il pallone supera gli 11 Km e libera la zavorra quando scende sotto i nove. Una volta caduti i 32 sacchi necessari per completare la traversata, un automatismo sgancia la bomba. La soluzione, efficace, ma troppo pesante, richiede un pallone più grande. I tecnici realizzano, quindi, una mongolfiera di dieci metri di diametro, costruita con carta di gelso tenuta insieme da un collante ricavato da un tubero, il konnyaku-nori. In vista dell’operazione, l’esercito allestisce un apposito Reggimento composto da 2.800 uomini, agli ordini del Colonnello Inoue. Le zone di lancio vengono individuate sulla costa orientale dell’isola di Honshu.

L’ora “X”, scatta alle 5 del 3 novembre, il giorno in cui è nato l’ex Imperatore Meiji. Il lancio della prima arma intercontinentale della storia è accompagnato dal favore del vento. La notte del 4 novembre, infatti, l’equipaggio di una motovedetta della Us Navy ripesca, a circa 60 miglia dalla California, uno strano oggetto dotato di ricetrasmittente. Gli esperti, dopo un primo sommario esame, ritengono si tratti del frammento di un pallone meteo. Nei giorni successivi, però, sono segnalati ulteriori ritrovamenti e alcune misteriose esplosioni. L’11 dicembre, ad esempio, due taglialegna trovano i resti di un pallone dotato di bomba incendiaria a Kalispell, nel Montana, a 475 miglia aree dalla costa del Pacifico. Il 19, invece, una bomba provoca un enorme cratere a Thermopolis, nel Wyyoming. Della vicenda iniziano, quindi, ad occuparsi Fbi e militari. A preoccupare sono soprattutto le bombe incendiarie che potrebbero devastare le regioni forestali lungo la costa occidentale. Per scongiurare il pericolo, viene elaborato il "Firefly project" con il pronto impiego di tremila soldati e la partecipazione della Fourth air force in funzione anti incendio. Quanto gli Stati Uniti prendano sul serio la vicenda, lo dimostra proprio la riattivazione della Fourth air force, ovvero l’unità incaricata della difesa aerea della costa occidentale, posta in riserva nel 1943 con il venir meno del pericolo di un attacco. Inoltre, per scongiurare le conseguenza di un eventuale uso di armi biologiche viene attivato il “Lightning project”, con il coinvolgimento del Dipartimento dell’Agricoltura, incaricato di raccogliere eventuali segnalazioni relative a strane malattie al bestiame o alle colture. Un timore, si scoprirà nel dopoguerra, del tutto infondato, poiché a Tokyo non hanno mai pensato d’impiegare armi non convenzionali. Identificato il pericolo, gli americani devono fare i conti con un altro rompicapo, ovvero la provenienza delle mongolfiere. Inizialmente, ipotizzano siano lanciate da sommergibili in prossimità della costa. Successivamente, sospettano possano essere opera di prigionieri giapponesi rinchiusi nei campi di concentramento della West coast.

In attesa di scoprire l’arcano, le autorità, preoccupate dalle conseguenze del primo attacco aereo della storia subito “at home”, impongono la censura e il 4 gennaio 1945 danno disposizioni affinché non sia data alcuna notizia sulle esplosioni provocate dai palloni. Nel frattempo, viene analizzano il materiale recuperato. Tessera dopo tessera, partendo dal dettaglio più banale, gli esperti riescono a ricomporre il mosaico. A dare la risposta definitiva sulla provenienza dei palloni, sarà l'Us Geological survey, il cui capo mineralogista, Clarence Ross, analizzando la composizione della sabbia contenuta nella zavorra, scopre la presenza di molluschi e organismi microscopici presenti sulla sponda orientale dell’isola di Honshu. I risultati vengono comparati con quelli elaborati dai geologi canadesi i quali, nella zavorra di una mongolfiera caduta sul loro territorio, hanno trovato sabbia prelevata nelle vicinanze di un altoforno. A fugare qualunque dubbio, saranno le ricognizioni fotografiche condotte nelle vicinanze di Ichinomiya, non lontano da Tokyo, dove vengono individuati due dei tre impianti impiegati nella produzione dell’idrogeno destinato ai “Vascelli dei venti”. Parte quindi una campagna aerea che nell’aprile del 1945, culmina nella distruzione di entrambi i siti.

Solo poche settimane prima, una mongolfiera era stata sul punto di cambiare, se non il corso della guerra, sicuramente il suo l’epilogo. Il 10 marzo, infatti, una bomba incendiaria sganciata da un pallone era riuscita a mandare in tilt la centrale nucleare di Hanford, dove, dal dicembre 1944, si produceva il plutonio utilizzato per la costruzione della bomba destinata a Nagasaki. A scongiurare la fusione e quindi l’esplosione dei due reattori, fu il meccanismo di sicurezza che, seppur non ancora testato, entrò regolarmente in funzione, risparmiando agli Stati Uniti il primo disastro nucleare della storia. Solo a guerra finita, gli americani scopriranno i dettagli dell’operazione “Fu-go”, durante la quale erano stati lanciati 9 mila “Vascelli dei venti”, l’ultimo dei quali - del migliaio che si stima siano arrivati a destinazione - è stato rinvenuto nell’ottobre del 2014 in una foresta canadese della Columbia Britannica.

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Vaccino Covid: oltre 2 milioni di furbetti hanno saltato la fila

Draghi, con riferimento al vaccino Covid, si è chiesto: "Con che coscienza la gente salta la fila?". La domanda da porsi, però, dovrebbe essere un’altra: chi gli fa saltare la fila?

Dai dati sulla campagna vaccinale pubblicati sulla piattaforma del governo, emerge che i furbetti rappresentano la regola, non l’eccezione. Allo stato, infatti, ben 2.334.495 dosi sono state somministrate a persone classificate nella categoria ”Altro”, ovvero gente che non rientra in nessuna delle casistiche ritenute a rischio dal piano vaccinale.

I furbetti delle caste hanno messo le mani anche sui vaccini

Più che sul lavoro, la Repubblica italiana è fondata sul privilegio,  su un sistema di piccole e grandi caste i cui adepti hanno sempre una corsia preferenziale.

Che sia un concorso pubblico, una candidatura o una semplice visita medica, i bramini italici riescono sempre a sfangarla prima e meglio degli altri.

Ciò che per i comuni mortali è maledettamente difficile, per loro è semplice, quasi banale.

Non fa eccezione neppure il vaccino anti Covid, per il quale la gran parte degli italiani dovrà aspettare un turno che nessuno sa quando arriverà.

Quelli che Prezzolini chiamava i furbi, sono invece riusciti, ancora una volta, a trovare la scorciatoia per arrivare prima degli altri.

E’ il caso, ad esempio, del personale universitario che, nonostante gli atenei chiusi e l’anno accademico in dirittura d’arrivo, ha già ricevuto la propria dose di vaccino.

Con buona pace di categorie meno influenti e politicamente più deboli – come addetti alla grande distribuzione, postini e corrieri - rimaste in prima linea anche durante le fasi più virulente della pandemia.

La Juventus ora diverte, ma solo gli avversari

Doveva essere una rivoluzione, si è rivelata un’involuzione.

A maggio 2019 la dirigenza della Juventus decise, dopo due finali di Champions League ed una striscia di successi senza precedenti, di mettere alla porta Massimiliano Allegri.

La motivazione: dare alla squadra un gioco moderno, spumeggiante, che piacesse alla gente che piace.

Lo scettro del conte Max venne, quindi, messo in mano ad un signore dall’aspetto villico: Maurizio Sarri.

Nella sua breve parentesi sulla panca della Vecchia Signora, l’ex allenatore dell’Empoli riuscì, complice lo stop del campionato causato dal Covid, ad aggiudicarsi a fatica e senza mai brillare, lo scudetto. Pertanto, dopo l’inattesa sconfitta patita ad opera del Lione negli ottavi di Champions League, la dirigenza bianconera decise di affidare la nave ad un nuovo timoniere.

Quanto tutti parlavano di Pochettino, Zidane, Mancini o addirittura una riedizione di Allegri, Agnelli &Co tirarono fuori dal cilindro Andrea Pirlo.

Dirottato – senza esserci neppure arrivato - dall’Under 23 alla prima squadra, il “Maestro” ha provato ad introdurre il suo “calcio liquido”, inventando moduli che nessuno - forse neanche lui – ha mai capito.

Il risultato è stato un gioco stucchevole, caratterizzato dallo sterile possesso palla e da un pleonastico palleggio sviluppato per vie orizzontali, incapace sia di dare profondità alla manovra offensiva che di scardinare le retroguardie avversarie.   

Le partite dei bianconeri sono state quasi sempre noiose, soporifere, degne si una stagione fallimentare.

Un fallimento condensato tanto nell’assenza di risultati, quanto in un gioco catatonico molto più affine ad una tazza di tisana che ad una coppa di champagne.

Certo, se con il licenziamento di Allegri, i dirigenti juventini si proponevano di portare la squadra ad esprimere un gioco divertente, l’obiettivo è stato centrato.

Con Sarri e Pirlo la Juventus ha finalmente iniziato a fare un gioco che piace, sí ai tifosi delle avversarie, gli unici a divertirsi.

L’ultima resa della Seconda guerra mondiale. Nel 1951 un gruppo di soldati giapponesi depone le armi sull'isola di Anatahan

Li hanno chiamati Zanryū nipponhei, Japanese holdouts, Stragglers, Ritardatari, Soldati fantasma o semplicemente Resistenti. Tanti nomi per indicare un unico fenomeno: quello dei militari nipponici che rifiutarono di deporre le armi alla fine del Secondo conflitto mondiale.

L’esponente più noto di una schiatta tutt’altro che sparuta, è stato indubbiamente Hiro Onoda, il tenente arresosi il 5 marzo  1974 nell’isola filippina di Lubang. Quella dell’ufficiale rimasto “in servizio”, a dispetto della fine della guerra, non è una storia isolata. I precedenti sono molteplici, ma uno, in particolare, merita di essere raccontato per almeno tre ragioni. La prima, perché non ha per protagonista un singolo soldato, ma un gruppo; la seconda, poiché si tratta dell’unica circostanza in cui tra gli Zanryū nipponhei figura anche una donna; la terza, perché rappresenta l’ultima resa della Seconda guerra mondiale.

Teatro della storia che ci accingiamo e narrare è Anatahan, un’isola dell’arcipelago delle Marianne passata sotto controllo giapponese al termine della Prima guerra mondiale. E’ in questo lembo di terra sperduto nella vastità dell’oceano, che nel giugno del 1944 trova scampo un gruppo di soldati del Sol Levante sopravvissuti all’affondamento di tre navi dirette a Truk, in Micronesia, dove aveva sede la principale base navale dell'impero del Tenno nel sud Pacifico. Toccata terra, con i vestiti laceri e l’animo in subbuglio, il manipolo di sopravvissuti si rende conto di essere approdato in un luogo piuttosto inospitale.

Posizionata a 75 miglia nautiche a nord di Saipan, a causa dell’elevata attività vulcanica, Anatahan era ed è tuttora disabitata. Poco più piccola di Ischia, caratterizzata da spiagge scoscese e ripidi pendii solcati da profonde gole coperte da vegetazione, l’isola presenta una piccola spiaggia solo nella parte meridionale. Al loro arrivo, i naufraghi trovano una donna, Hika Kazuko, originaria di Okinawa ed un connazionale al servizio di un’azienda attiva nella raccolta della copra destinata alla produzione del burro di cocco. La donna, da pochi giorni, era prigioniera dell’isola insieme al collega del marito, il quale, con l’avanzare delle truppe americane, non era riuscito a ritornare da Saipan, dove era andato nella speranza di mettere in salvo la sorella. Una volta approdati su quel fazzoletto di terra, i naufraghi fanno una ricognizione e si radunano non lontani dall’unica spiaggia, fiduciosi di poter essere recuperati nel volgere di qualche giorno. Un desiderio destinato a rimanere deluso in seguito alla sconfitta subita dai loro connazionali nella battaglia delle Marianne.

Tuttavia, la piccola comunità non si perde d’animo e non vedendo arrivare alcun soccorso, inizia ad organizzarsi come può: tira su capanne con fronde di palma e si nutre di noci di cocco, taro, canna da zucchero selvatica, pesci e lucertole. Acquisita la consapevolezza che la permanenza sull’isola non sarà breve, i militari giapponesi decidono di regalarsi qualche genere di conforto. Iniziano, così, a produrre il tuba, un distillato di cocco tipico delle Marianne, simile al Lambanóg filippino.

Tutto è necessariamente autarchico, almeno fino al 3 gennaio 1945, quando sull’isola precipita un B29 americano di ritorno da una bombardamento su Nagoya, in Giappone. Lo schianto, non lascia scampo agli 11 membri dell’equipaggio, ma si rivela una vera fortuna per i giapponesi. Il relitto diventa, infatti, un’insperata miniera: le lamiere vengono modellate per ricavare utensili o coperture per le capanne, i paracadute sono trasformati in indumenti, i fili dell’impianto elettrico diventano lenze per la pesca. Recuperate le armi in dotazione all’equipaggio e smontate dall’aereo le mitragliatrici ed il cannone, i giapponesi, guidati dal loro ufficiale, costruiscono rudimentali postazioni difensive.

L’esistenza di quei novelli Robinson Crusoe sarebbe rimasta ignota se, nel febbraio del 1945, sull’isola non fosse arrivata una spedizione di chamorros (indigeni delle Marianne) inviata dal comando americano di stanza a Saipan per recuperare i corpi degli avieri precipitati con il B-29. Rientrati alla base, i chamorros fanno un dettagliato rapporto e comunicano di aver avvistato un gruppo di soldati nemici. I comandi statunitensi che, con la tattica del “salto della rana”, sono impegnati, isola dopo isola, ad avvicinarsi al territorio metropolitano dell’antica Yamato, non danno molta importanza a quel manipolo di uomini rimasti, come tanti altri, intrappolati su un’isola sperduta.

Nel frattempo, la vita della comunità procede tra non poche vicissitudini. Ai comprensibili disagi determinati da una situazione limite, si aggiunge un elemento eccezionale: la presenza di Hika. Quell’unica donna, su un’isola abitata da soli uomini, peraltro spesso preda dell’euforia provocata dal tuba, genera inevitabili attriti; tanto che cinque degli undici morti registrati durante i sette anni di permanenza dei naufraghi ad Anatahan, erano mariti di Hika, quattro dei quali ufficialmente deceduti in seguito ad incidenti di pesca. La circostanza, ovviamente, non sfuggirà ai giornali che al ritorno della donna in patria non si limiteranno a tratteggiare la "Robinson" femminile intenta a modellare abiti con i paracadute, mentre gli uomini procurano il cibo. La gran parte della stampa, si concentrerà, infatti, su quelle morti avvenute in "circostanze misteriose". Per alcuni rotocalchi, poi, l'isola sarebbe stata addirittura un “focolaio di passione ed assassinio”. Tuttavia, la versione dei fatti fornita dalla protagonista è piuttosto differente. Hika, infatti, nel sostenere di essere stata costretta a sposarsi dall'ufficiale superiore del gruppo, preoccupato sia per lei che per la disciplina degli uomini, ha sempre affermato con forza che i suoi mariti non sono stati assassinati, ma morti per malattie o incidenti. In ogni caso, mentre nell’isola si riproducono dinamiche che per la stampa scandalistica coniugano eroismo ed erotismo, il tempo passa e con una certa regolarità, le autorità americane inviano navi per cercare di convincere i giapponesi a lasciare l’isola.

Fedeli al precetto del Bushido che considera la resa un disonore, i soldati nipponici rifiutano di deporre le armi, nella convinzione che la guerra non sia ancora finita. La situazione si trascina fino al luglio 1950, quando ad aprire una breccia nell’ostinato muro eretto dai suoi connazionali è proprio Hika la quale, avvistata una nave americana - la Miss Susie - chiede di essere portata via dall’isola. All’arrivo a Saipan, la donna fa sapere ai comandanti statunitensi che ad Anatahan tutti credono che Giappone e Stati Uniti stiano ancora combattendo. Gli americani segnalano, quindi, la vicenda alle autorità di Tokyo che rintracciano i familiari degli Zanryū nipponhei, invitandoli a scrivere ai loro congiunti per convincerli ad arrendersi. Le lettere vengono lanciate sull’isola, ma i naufraghi credono sia un inganno orchestrato dalla propaganda dello zio Sam.

Così, nel gennaio del 1951, a rivolgersi ai sopravvissuti è il governatore della prefettura di Kanagawa il quale, con un ennesimo messaggio, li informa della sconfitta del Giappone e dei buoni rapporti nel frattempo instaurati con gli Stati Uniti. Il governatore scrive, inoltre, che tutti i soldati sono stati rimpatriati e conclude: “Ora non ci sono altri militari giapponesi nel Pacifico, tranne voi”. Ovviamente, non tutte le lettere arrivano ai destinatari, pertanto il recapito viene ripetuto più volte, fino al 26 giugno 1951, quando i naufraghi di Anatahan decidono di arrendersi. Pochi giorni dopo, il 30 giugno prende il via l’operazione “Rimozione". Da Saipan salpa il rimorchiatore oceanico Uss Cocopa. Una volta a destinazione, dalla nave viene calato in mare un gommone che porta sull’isola l’interprete Ken Akatani ed il tenente comandante James B. Johnson, al cospetto del quale i 19 soldati superstiti depongono le armi. Saliti a bordo della nave, con i loro pochi averi sistemati in un pandano intrecciato, vengono condotti a Guam da dove, nel giro di una settimana, un aereo della Marina degli Stati Uniti li condurrà a Tokyo. E’singolare che l’ultima guarnigione giapponese lasci le Marianne lo stesso giorno in cui la gestione dell’Amministrazione americana del Territorio delle isole del Pacifico passa dai militari ai civili.

Segno che la Seconda guerra mondiale è definitivamente finita, anche se Zanryū nipponhei isolati, continueranno la pugna fino alle soglie degli anni Ottanta.

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Per proporre un 'banale' lockdown non serve uno scienziato

Da persone comuni, saremmo portate a pensare che gli esperti del Cts e del Ministero della Salute dovrebbero lavorare per trovare, o quanto meno studiare, soluzioni adeguate a farci convivere, per quanto possibile, con il coronavirus.

Invece, a distanza di un anno, appena l'indice Rt sale di un decimale, i consulenti del governo non fanno altro che proporre la solita ricetta della chiusura generalizzata.

A questo punto, è lecito chiedersi: ma per proporre un 'banale' lockdown, serve uno scienziato?

Siamo tutti uguali, ma non sempre

Non passa giorno senza che le Vestali del politicamente corretto non entrino in azione per denunciare atti discriminatori, veri o presunti, ai danni di qualche minoranza. Basta un commento sopra le righe o un post non in linea con i canoni stabiliti dalla nuova inquisizione, per essere scaraventati nel tritacarne social-mediatico.

Il meccanismo riprovatorio, ovviamente, presenta diverse sfumature. La gravità della pena comminata varia, infatti, in funzione dell’imputato e della vittima. In molti casi, poi, il tribunale del politically correct non s’indigna e non fomenta alcuna riprovazione. Non solo, in non poche circostanze, i suoi estimatori ricorrono allo stesso armamentario contestato ai reprobi che dicono di combattere. In queste ore, ad esempio, spopolano i commenti beceri all’indirizzo di Renato Brunetta, il neo ministro del governo Draghi, reo di essere basso.

Sulla sua statura, i commenti di cattivo gusto si susseguono impunemente, senza che i campioni dei diritti un tanto al chilo trovino nulla da obiettare. Eppure, il “Body  Shaming”, ovvero la pratica con la quale una persona viene ripetutamente insultata per la diversità fisica, fino a farla vergognare del proprio corpo, è a tutti gli effetti una forma di discriminazione.

Una forma di discriminazione che, senza scomodare Lombroso, ha  molto in comune con il razzismo. Ma, con tutta evidenza, l’antirazzismo dei paladini del politicamente corretto è come le leggi di Giolitti: “ si applica con i nemici e s’interpreta con gli amici”.

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