Vecchia Calabria: Norman Douglas, le Serre e le "montagne che scappano"

E’ un viaggio lungo, attento, a tratti maniacale quello che, tra 1907 ed il 1911, Norman Douglas compie in Calabria. Un tour, al termine del quale, i fitti appunti vergati su decine di taccuini diventano un famoso libro, “Old Calabria”.

Pubblicato per la prima volta, nell’edizione inglese, nel 1915 ed in quella italiana nel 1962, il volume è ancora oggi considerato uno dei migliori e più avvincenti reportage di viaggio sulla Calabria.

Si tratta di una resoconto nel quale vengono meticolosamente riportate un’infinità di osservazioni raccolte, talvolta, in luoghi sperduti ed inaccessibili.

Animato dallo spirito del viandante, pur di saziare la sua curiosità, Douglas non si sottrae neppure alle imprese più dure. Il suo lento e paziente peregrinare lo porta anche sull’altipiano delle Serre.

Partito da Caulonia, il viaggiatore inglese, raggiunge Serra San Bruno, passando per Fabrizia. Lungo il tragitto, attraversando il “villaggio di Ragonà” e lasciando “quelli di San Nicola e Nardo di Pace sulla destra”, Douglas si lascia rapire dal “vigore gioioso” del paesaggio.

A colpirlo è la natura che circonda la “mulattiera [che] si snoda dentro e fuori tra le alture, attraverso prati fiorenti, brucati dal bestiame e pieni di insetti ronzanti e di farfalle”. Il percorso si “inerpica per le cime ricoperte d’erica e scende di nuovo attraverso radure fra castagni e lecci dai tronchi muscosi […] poi di nuovo fuori, nel sole del grano ondeggiante e dei papaveri.”

Il paesaggio descritto da Douglas, però, non è uniforme. Insieme all’elemento bucolico, richiama, infatti, il “lento e stretto” letto di un torrente, probabilmente l’Allaro, che attraversa una gola dove “nessuna brezza alita” e dove “il sole arde sopra il capo e le ore passano mentre si arranca attraverso quell’inferno infocato”.

Si tratta di “torridi deserti di ciottoli [che] fino a poco tempo fa erano le sole strade che portavano dalle piane alle zone montagnose”. Tuttavia, nonostante la fatica, a distanza di tempo, il paesaggio nel suo complesso suscita ancora“dolci” ricordi. Ricordi nei quali riaffiora dalla memoria “ la gloria degli oleandri tinteggianti di corallo, svettanti in solitari ciuffi di bellezza, o in aggruppamenti di fiamma, fuori della distesa pallida dei massi”.

Risalendo verso la vetta, Douglas nota il lavoro compiuto per “imbrigliare queste montagne che scappano”. Un lavoro “non semplice” fatto di “canaletti d’acqua [..] abilmente deviati dal loro corso naturale”, di piantumazione di “alberi e cespugli” che hanno il compito di “trattenere il suolo […] mediante le radici” e di “graticci” nei quali viene “raccolto il materiale che precipita verso il basso e permette ai semi delle piante, portati dall’aria, di radicarsi sulle mensole così formatesi”. Per quanto efficaci, le opere, frutto “dell’ingegnosità e della pazienza”, rischiano ogni giorno di essere “smantellate “ da un semplice “temporale”.

Il lungo tragitto culmina, dopo sei ore di viaggio, in una breve sosta a Fabrizia “il cui nome […] richiama associazioni non calabresi”. Nella cittadina che fu del principe Carafa, Douglas osserva la “nuova e pretenziosa chiesa” e le “stradine secondarie” caratterizzate “da un sudiciume indicibile”.

La visita, però, è piuttosto fugace, anche perché, per percorrere il tragitto che da Fabrizia conduce a Serra occorrono “ altre tre ore”. Un tragitto che si snoda attraverso “terre coltivate e pascoli e distese solitarie di felci, una volta coperti da boschi”.

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Il magico “tempio” del bosco di Santa Maria

Tra il 1907 ed il 1911, il viaggiatore inglese Norman Douglas visita la Calabria. Il suo, però, più che un giro turistico è una vera e propria esplorazione. Animato da spiccata curiosità intellettuale, si muove con i mezzi più disparati pur di raggiungere la propria destinazione. Per cercare di conoscere da vicino una terra selvaggia, abitata, come diceva Dumas da “streghe e maghi”, Douglas non si sottrae a nessuna fatica. Nel corso del suo lungo e paziente peregrinare raggiunge anche le Serre. Partito da Caulonia, arriva nel paese della Certosa dopo aver attraversato Fabrizia. Di Serra, definita “uno dei luoghi più bigotti di Calabria”, non scrive niente di originale. Il racconto della sua brevissima permanenza inizia con una banale: “Può benissimo dirsi che la cittadina sia sorta attorno, o piuttosto vicino, alla tanta decantata abbazia dei certosini”. Dopo aver raccontato, con non poche imprecisioni, l’episodio accaduto nel marzo 1811, quando il generale francese Manhés fece chiudere le chiese e proscrivere i preti dopo l’uccisione, da parte dei briganti, di due soldati transalpini, ritorna a parlare fugacemente del “ monastero”, del “ laghetto artificiale” e della “rinomata cappella di Santa Maria”. Si tratta di brevi annotazioni nelle quali viene rilevata la ricostruzione, “su schemi moderni”, della Certosa che “conserva ben poco della struttura originale “ antecedente al terremoto del 1783. La curiosità lo spinge, però, ad occuparsi più dei certosini che del convento. Pertanto scrive:  “Ho gironzolato […] in compagnia di due monaci francesi in tonaca bianca, sforzandomi di ricostruire non il convento come era ai suoi tempi più giovani, ma ‘loro’”. Da uno dei due, “il più vecchio” che “aveva conosciuto il mondo”, apprende che, per ovviare alla prescrizione della regola che impone l’astinenza dalla carne, la “divina confraternita ha un contratto affinché il pesce venga portato su quotidianamente, per mezzo del servizio postale dalla lontana Soverato”. Indagate le abitudini alimentari dei certosini, quel che più di ogni altra cosa sorprende Douglas è la “maestosa foresta” che si trova sul “retro del monastero”, che “nella luce fioca del mattino madido di rugiada” appare come un “tempio” che racchiude “una magia più naturale e più sacra, che non negli ambulacri dei chiostri poco lontani”. Quel che ha permesso allo “aggruppamento di alberi solenni” di svilupparsi sono “ le rare condizioni del suolo e del clima”. “ La regione – scrive – è alta; il suolo è perennemente umido e intersecato da un’orda di ruscelli che riuniscono le loro acque per formare il fiume Ancinle; frequenti scrosci di pioggia scendono dall’alto. Serra ha un regime di precipitazioni piovose di insolita abbondanza”. Del centro abitato, che forse non ha neppure visitato, dice soltanto che “ sta in una vallata che occupa il bacino di un lago pleistocenico”. Ansioso di lasciare Serra per raggiungere la vita “lussuosa” e gli “agi” offerti dalla città di Crotone, Douglas, prima di partire, osserva quello che definisce uno “spettacolo benedetto per l’utilitarista”, ovvero la “fabbrica che trasforma il legno in carta”. Con tutta evidenza si riferisce alla fabbrica di cellulosa che ha operato a Serra tra il 1892 ed il 1928.

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Nelle Serre “le montagne che scappano”

E’ un viaggio lungo, attento, a tratti maniacale quello che, tra 1907 ed il 1911, Norman Douglas compie in Calabria. Un tour, al termine del quale, i fitti appunti vergati su decine di taccuini diventano un famoso libro, “Old Calabria”. Pubblicato per la prima volta, nell’edizione inglese, nel 1915 ed in quella italiana nel 1962, il volume è ancora oggi considerato uno dei migliori e più avvincenti reportage di viaggio sulla Calabria. Si tratta di una resoconto nel quale vengono meticolosamente riportate un’infinità di osservazioni raccolte, talvolta, in luoghi sperduti ed inaccessibili. Animato dallo spirito del viandante, pur di saziare la sua curiosità, Douglas non si sottrae neppure alle imprese più dure. Il suo lento e paziente peregrinare lo porta anche sull’altipiano delle Serre. Partito da Caulonia, il viaggiatore inglese, raggiunge Serra San Bruno, passando per Fabrizia. Lungo il tragitto, attraversando il “villaggio di Ragonà” e lasciando “quelli di San Nicola e Nardo di Pace sulla destra”, Douglas si lascia rapire dal “vigore gioioso” del paesaggio. A colpirlo è la natura che circonda la “mulattiera [che] si snoda dentro e fuori tra le alture, attraverso prati fiorenti, brucati dal bestiame e pieni di insetti ronzanti e di farfalle”. Il percorso si “inerpica per le cime ricoperte d’erica e scende di nuovo attraverso radure fra castagni e lecci dai tronchi muscosi […] poi di nuovo fuori, nel sole del grano ondeggiante e dei papaveri.” Il paesaggio descritto da Douglas, però, non è uniforme. Insieme all’elemento bucolico, richiama, infatti, il “lento e stretto” letto di un torrente, probabilmente l’Allaro, che attraversa una gola dove “nessuna brezza alita” e dove “il sole arde sopra il capo e le ore passano mentre si arranca attraverso quell’inferno infocato”. Si tratta di “torridi deserti di ciottoli [che] fino a poco tempo fa erano le sole strade che portavano dalle piane alle zone montagnose”. Tuttavia, nonostante la fatica, a distanza di tempo, il paesaggio nel suo complesso suscita ancora “dolci” ricordi. Ricordi dai quali riaffiora dalla memoria “ la gloria degli oleandri tinteggianti di corallo, svettanti in solitari ciuffi di bellezza, o in aggruppamenti di fiamma, fuori della distesa pallida dei massi”. Risalendo verso la vetta, Douglas nota il lavoro compiuto per “imbrigliare queste montagne che scappano”. Un lavoro “non semplice” fatto di “canaletti d’acqua [..] abilmente deviati dal loro corso naturale”, di piantumazione di “alberi e cespugli” che hanno il compito di “trattenere il suolo […] mediante le radici” e di “graticci” nei quali viene “raccolto il materiale che precipita verso il basso e permette ai semi delle piante, portati dall’aria, di radicarsi sulle mensole così formatesi”. Per quanto efficaci, le opere, frutto “dell’ingegnosità e della pazienza”, rischiano ogni giorno di essere “smantellate “ da un semplice “temporale”. Il lungo tragitto culmina, dopo sei ore di viaggio, in una breve sosta a Fabrizia “il cui nome […] richiama associazioni non calabresi”. Nella cittadina che fu del principe Carafa, Douglas osserva la “nuova e pretenziosa chiesa” e le “stradine secondarie” caratterizzate “da un sudiciume indicibile”. La visita, però, è piuttosto fugace, anche perché, per percorrere il tragitto che da Fabrizia conduce a Serra occorrono “ altre tre ore” di viaggio. Un viaggio che si snoda attraverso “terre coltivate e pascoli e distese solitarie di felci, una volta coperti da boschi”.

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