Agguato a Catanzaro: è morto il presunto boss Domenico Bevilacqua

Domenico Bevilacqua, il presunto boss dell'organizzazione criminale legata ai rom di Catanzaro vittima stamattina di un agguato, è deceduto. Conosciuto con il soprannome di "Toro seduto, era stato raggiunto da diversi colpi di pistola calibro 9 davanti all'ingresso di un negozio nel quartiere "Aranceto", da sempre ritenuto un suo feudo. Le gravi ferite riportate al capo hanno reso inutile il trasporto in ospedale dove i medici nulla hanno potuto per strapparlo alla morte. Nel posto in cui è stato commesso l'omicidio sono giunti Carabinieri e Polizia per effettuare i rilievi necessari all'avvio dell'attività di indagine. Dai primi accertamenti risulterebbe che il 54enne sarebbe stato ucciso da due sicari in sella ad una potente motocicletta. Nell'aprile di dieci anni fa Bevilacqua si era salvato da un primo tentativo di togliergli la vita.

 

 

Mongiana ed il misterioso “delitto dell’amuleto"/ PARTE II

Il pezzo che segue è la prosecuzione un articolo pubblicato ieri al quale è possibile accedere cliccando qui:

Le indagini si muovono in tutte le direzioni. Gli inquirenti iniziano a scavare nel passato della vittima e scoprono che vent’anni prima Demasi era stato condannato ad otto anni di galera per aver ucciso con un colpo di fucile una donna, Carmela Gallace. La pista, però, si rivela piuttosto inconsistente. Demasi, infatti, aveva sempre sostenuto di aver sparato alla cieca tra gli alberi per intimorire quelli che pensava fossero ladri. Oltre ai giudici che comminano una pena piuttosto mite, credono alla tesi anche i parenti della donna che “riallacciarono con lui buoni rapporti”.

Si cerca, quindi, di capire se l’omicidio possa essere nato nell’ambiente familiare, ma “un contadino, Antonio Nesci - che era stato il primo ad accorrere udendo il pianto del figlio della vittima - testimoniò sul sincero dolore dell’Antonio”.

Non emerge nulla, neppure dalle indagini che riguardano “due altri fittavoli, Angelo Belcastro e Domenico Caré, pure vicini, [che] non avrebbero avuto ragione alcune per commettere quel delitto”.

Scartate tutte le altre ipotesi, le attenzioni si appuntano su un uomo, “tale Ilario Cavallaro”. A spingere le indagini in quella direzione, sono soprattutto le dichiarazioni rilasciate dai “congiunti dell’ucciso” che indicano il movente in dissapori di carattere familiare. Cavallaro, infatti, nel 1942, “aveva sposato con il solo rito civile una figlia del Demasi, Rosina, allora di diciassette anni, senza vivere neanche un solo giorno con lei. Gli sposi si sarebbero stabiliti insieme al ritorno del giovane. Le cose, però, andarono per le lunghe. L’Ilario, partito per la Libia, fu fatto prigioniero dagli inglesi e solo nel ’46 rivide l’Italia”.

Rientrato dalla prigionia, “la cerimonia religiosa fu rinviata” perché lo sposo “chiedeva al suocero che assegnasse in dote alla moglie una certa somma di denaro e, in più il terreno, sostenendo che quei beni, in fondo, erano solo un indennizzo per tutti gli assegni familiari che Demasi aveva percepito, attraverso la figlia sposata ad un militare, durante quattro anni”.

Il rifiuto era stato accompagnato dalla ferma decisione di “Rosina”, la quale “pentita delle nozze, non aveva alcuna voglia di vivere con il marito e fu solidale con il padre”. L’intera vicenda aveva avuto delle conseguenze di carattere giudiziario, tali da indurre i carabinieri ad arrestare Cavallaro con l’accusa di essere l’autore dell’omicidio. Insieme a lui vengono mandati in galera, “il padre, Bruno, e i fratelli Salvatore e Rocco, poi tutti rilasciati avendo potuto essi provare che quella notte si trovavano a Serra San Bruno, loro paese di residenza”.

Anche Ilario dichiara, inutilmente, di aver trascorso la notte dell’omicidio nel paese della Certosa. Nonostante l’assenza di prove contro di lui, sulla base di un “processo tipicamente indiziario”,  viene “condannato, oltre alle pene accessorie, a venticinque anni”.

Nel 1955, però, in occasione del “giudizio di secondo grado” i magistrati vogliono approfondire la questione e decidono d’indagare tutti i punti oscuri delle vicenda. Cercano, quindi, di capire per quale motivo il cadavere sia stato appeso ad una trave, ma soprattutto che cosa possa rappresentare quello strano amuleto lasciato dall'assassino. Si rivolgono, quindi, a Raffaele Corso il quale nella sua perizia scrive: “ La testuggine non è riprodotta integralmente, ma nel guscio soltanto, cioè senza la testa, la coda e le zampe. Evidentemente, l’artefice non ha voluto ritrarre il rettile vivo, come si vede in un quadro del secolo XVI, dove esso figura come emblema dell’amore felice. […] Pertanto bisogna indirizzare le indagini verso pratiche magiche locali, tenendo presente che in Calabria, come in altre regioni i superstiziosi, per ricondurre all’amore i riottosi, ricorrono alle arti della strega, la quale mette in pratica, secondo l’occasione, filtri non comuni. Qualche abile strega locale, informata degli antichi usi, avrà suggerito al delinquente l’amuleto della gioia amorosa nella forma priva di vita e cioè del solo guscio”. Lo studioso aggiunge: “ La testuggine, che viva simboleggia la fecondità, morta starebbe la sterilità. Tanto e vero che la testuggine viva si mantiene tuttora nelle case delle popolane come simbolo della feconda pace e si ritiene segno di prossima disgrazia la sua scomparsa o la sua morte”. In altre parole, la conclusione dell’etnografo è che  “l’uccisore voleva indicare, anzi gridare di fronte a tutti che, colpito come uomo perché privato della sua donna, si era vendicato. Questo il filo sottile fra il delitto e l’amuleto”.

La spiegazione però, non convince “la Corte” che, in assenza di “prove precise”, assolve l’imputato.

Scarcerato il maggiore indiziato, l’omicidio resta, quindi, impunito con il risultato che la testuggine “rimarrà fra la gente di queste campagne come il simbolo del mistero che avvolge il fosco delitto dell’amuleto”.

 

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Mongiana ed il misterioso “delitto dell’amuleto"/ PARTE I

“In questa provincia v’è un Comune, Mongiana, il cui nome rimarrà negli annali della criminologia per uno strano delitto – rimasto finora impunito – che per la prima volta nella storia delle istruttorie giudiziarie, ha chiesto l’intervento di un perito non medico né chimico né psichiatra, ma studioso, e insigne etnografo: il professor Raffaello Corso, titolare di quella materia nell’istituto Superiore Orientale di Napoli. E a lui, infatti, che i giudici dell’Assise d’Appello di Catanzaro hanno chiesto di spiegare qual è il significato del misterioso amuleto appeso al collo di un contadino, Francesco Demasi, di settanta anni, trovato morto e legato ad una trave del suo casolare, in contrada S. Maria di Cropani”.

Inizia con queste parole, un dettagliato resoconto giornalistico, pubblicato nel maggio del 1956 sulla “Stampa “ di Torino.

Vergato da Crescenzo Guarino, l’articolo descrive l’ultima fase processuale di un omicidio perpetrato a Mongiana, il 27 luglio 1950.

Non si tratta del solito omicidio, di un assassinio come gli altri. Oltre alle modalità con le quali è stato consumato il crimine, di anomalo c’è un particolare: al collo della vittima, l’omicida ha appeso un ciondolo raffigurante una tartaruga.

Un simbolo che induce i magistrati della Corte d’Appello di Catanzaro a rivolgersi ad un illustre studioso per cercare di venire a capo del mistero. I giudici sperano, infatti, di capire quale possa essere stata la ragione per la quale l’assassino abbia lasciato quello strano oggetto.

La relazione presentata da Raffaele Corso rappresenta, però, solo l’epilogo di una vicenda iniziata qualche anno prima.

Siamo negli ultimi giorni nel luglio del 1950, fa caldo, è tempo di raccolto e le attività agricole fervono. Un contadino, Francesco Demasi, come ogni anno, con l’arrivo dell’estate si stabilisce nel suo fondo agricolo situato nella contrada Santa Maria di Cropani di Mongiana e vi trascorre tutto il tempo. La mattina bisogna iniziare i lavori prima che il sole sia alto. Per non perdere tempo, anziché fare ritorno nella sua casa di Mongiana, a fine giornata l’anziano si sdraia su un pagliericcio, fatto da una “coperta di lana grigia ed una giacca”, che ha allestito in una capanna senza porta. Accanto alla bicocca c’è un casolare nel quale l’uomo custodisce gli attrezzi ed altre povere cose. Trascorsa la notte, all’alba si sveglia, si alza e riprende le sue attività. Ogni giorno è uguale al precedente, fino al 27 luglio, quando “una guardia campestre, Bruno Monteleone, si recò alla stazione dei Carabinieri di Serra San Bruno per denunciare che, trovandosi a passare lungo la carrozzabile per Fabrizia, presso un fondo di Santa Maria di Cropani,  aveva udito delle grida di dolore e d’aiuto. Dalla voce riconobbe subito un suo amico, Antonio Demasi. Accorso nell’abitazione, si era trovato innanzi ad un fatto atroce: il corpo di Francesco, padre di Antonio, stava sollevato da terra, legato ad una fune che, girandogli sotto le ascelle, era sospesa al soffitto. Il vecchio, a piedi nudi, indossava dei pantaloni di tela blu ed una camicia di cotonina Kaki. Nell’interno del casolare, composto di una sola stanza, le poche cose alcuni recipienti di terracotta, due ceste del pane) tutte al loro posto dimostravano che non vi era stata lotta”.

La scena, macabra, si arricchisce di nuovi particolari quando le risultanze della “perizia necroscopica” evidenziano che l’uomo è stato soffocato nel sonno.

Qualcuno, quindi, nel cuore della notte, dopo averlo strangolato si è preso la briga di “trasportare” il cadavere nel “casolare”, di appenderlo con una fune ad una trave e di lasciargli addosso un misterioso amuleto.

Fosse stato consumato ai giorni nostri, il delitto avrebbe animato sicuramente una delle tante trasmissioni in cui si spettacolarizza, anche, la morte più violenta. Ma nell’Italia degli anni Cinquanta la vita, come la morte ha una sua sacralità.

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Donna uccisa con un colpo di pistola nel reggino

Omicio a Melito Porto Salvo (RC) dove, una donna, Patrizia Crivellaro, di 45 anni è stata trovata uccisa nella propria abitazione. La vittima, colpita con un colpo di pistola, era responsabile degli infermieri presso la clinica Villa Anya della cittadina reggina ed era sposata con un agente della polizia ferroviaria.  Da quanto è stato possibile apprendere, pare che la donna sia spirata all'ospedale Riuniti di Reggio Calabria dove era stata trasportata dai sanitari del 118. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della locale compagnia che stanno cercando di far luce su quanto accaduto.

 

Uomo trovato ucciso in casa a Bivongi

Il corpo senza vita di un uomo, Daniele Campanella, di 33 anni e' stato scoperto in una casa di campagna, in contrada Grappidà, a Bivongi, in provincia di Reggio Calabria. Secondo le prime indiscrezioni, la morte pare sia da ricondurre ad un atto di violenza. Sul posto sono intervenuti i carabinieri del Gruppo di Locri che hanno avviato le indagini per cercare di fare luce sull'omicidio.

Minorenne uccide la madre e si fa un tatuaggio per sviare le indagini

E' stato risolto dagli uomini della Squadra mobile il giallo di Donnici, il paese cosentino, dove l'1 aprile scorso era stato ritrovato il cadavere di una donna, Patrizia Schettini. La vittima, trovata morta nella sua abitazione, sarebbe stata uccisa dal figlio minorenne, il quale, per cercare di sviare le indagini, si sarebbe fatto fare un tatuaggio con su scritto "Nemmeno la morte ci potrà separare, ti amo mamma". Ad aiutare gl'inquirenti a fare luce sull'omocidio, alcune microspie che hanno raccolto le ammissioni che il ragazzo avrebbe fatto al padre. Secondo quanto ricostruito dagl'investigatori, il giovane avrebbe, prima, strangolato la madre per poi sbatterla contro un muro fino a romperle l'osso del collo, infine l'avrebbe fatta cadere da una rampa di scale per mettere in scena una caduta accidentale. Sentito dalla Procura per i minorenni di Catanzaro, il ragazzo avrebbe fatto delle ammissioni, raccontando che a causa dei continui rimproveri subiti, in preda ad un raptus avrebbe spinto la madre giù per le scale. La testimonianza non coinciderebbe, però, con gli elementi raccolti dalla polizia che gli ha notificato l'ordinanza d'arresto per omicidio aggravato dai futili motivi.

Boscaiolo ucciso a fucilate ad "Elce della Vecchia"

Un boscaiolo sessantenne, Pietro Procopio, è stato assassinato ad "Elce della Vecchia", una zona montuosa situata nella montagne di Guardavalle. Secondo la prima ricostruzione fatta dai carabinieri della Compagnia di Soverato, l'uomo, a bordo della sua auto, stava rientrando a casa, a Guardavalle, quando ignoti lo hanno bersagliato con numerosi colpi di fucile.

 

 

 

 

 

 

Giovane ucciso dopo una lite in discoteca

 Ci sarebbe una lite in discoteca all'origine dell'omicidio di Antonio Taranto, il ventiseienne ucciso a colpi di pistola a Cosenza. Secondo la ricostruzione operata dagli inquirenti, il ragazzo stava rientrando a casa dopo aver trascorso la serata in discoteca quando sarebbe stato raggiunto da alcune persone una delle quali gli avrebbe sparato un colpo di pistola che lo ha raggiunto alle spalle. Il giovane è stato soccorso e portato in ospedale dove è giunto cadavere. Sull'accaduto sono in corso le indagini della squadra mobile.

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