Serre: le ferriere itineranti in età moderna

Ricca di acqua e legno, con discrete risorse di minerale di ferro, la Calabria vanta un vecchio legame con l’estrazione e la lavorazione dei metalli. Nell’area delle Serre l’attività fusoria affonda le radici in un passato piuttosto remoto. Quanto le operazioni fossero diffuse lo si può intuire, ancora oggi, da una serie di toponimi che hanno conservato traccia dell’attività che vi si svolgeva. In ogni caso, a dare conferma di ciò che altrimenti potrebbe essere solamente una valutazione di carattere indiziario è Benedetto Tromby, il quale nella “Storia critico-cronologica-diplomatica del Patriarca San Brunone e del suo ordine cartesiano”, riporta l’atto di donazione con il quale, nel 1094, Bruno di Colonia riceve, da Ruggero il Normanno, le miniere ed i forni presenti nel circondario di Stilo ed Arena. La donazione si accresce nel 1173, quando Guglielmo re di Sicilia, aggiunge “[…] et liberartibus minerae aeris ed ferri […]”,  concedendo alla Certosa alcuni contadini ed un mulino “in pertiunentiis Stili”. La lavorazione del minerale si sviluppa con svevi, angioni ed aragonesi che fiutano il vantaggio economico ed iniziano ad istituire “fondachi” e dazi. Le miniere di Pazzano crescono d’importanza durante il periodo angioino, tanto che un documento nel 1333, nel citare il lavoro nelle gallerie di Monte Stella, fa riferimento ad una fonderia di proprietà della Certosa attiva nel territorio di Pazzano. Sia le miniere che le ferriere, non vengono gestite direttamente. A mandarle avanti ci pena l’ “arrendario” , un concessionario che le sfrutta, pagando una rendita in manufatti e in denaro, al re ed al convento. Il periodo d’oro della metallurgia itinerante vive il suo primo declino intorno al 1450, quando gli Aragonesi per favorire i più importanti finanziatori del loro debito, ovvero i ricchi mercanti fiorentini che risiedono a Napoli, favoriscono l’importazione di ferro toscano imponendo dazi proibitivi all’estrazione, lavorazione e commercio del ferro grezzo. “Nel 1520 la ferriera di Stilo risulta inattiva”, mentre le semi abbandonate miniere di Pazzano forniscono il poco materiale necessario ad alimentare le ferriere di Campoli, Trentatarì, Castel Vetere, Spadola e Furno. Quasi sicuramente, a Spadola la lavorazione del ferro avveniva in un luogo, ancora oggi chiamato località “Firrera”, situato lì dove oggi sorge il cimitero. Nel 1523, quale riconoscimento dei servigi ricevuti l’imperatore Carlo V dona a Cesare Fieramosca le miniere e successivamente i forni fusori ed i boschi.  Il fratello del celebre Ettore, più votato alle armi che agli affari non s’interessa granché delle sue nuove proprietà. Tuttavia, l’importanza dell’attivata estrattiva e della lavorazione del ferro è testimoniata da un documento redatto nel XVI secolo, nel quale incaricato dalla Serenissima di tracciare un “Descrizione di tutta l’Italia e isole pertinenti” il frate domenicano Leando Alberti, riferendosi alla vallata dello Stilaro scrive: “dalla marina, lontano quattro miglia, sopra un alto colle si dimostra Stilo, nobile Castello, dietro al quale a man sinistra son le miniere di ferro ove se ne cava assai”. Dopo una annosa vertenza tra gli eredi Fieramosca e Ravascheri che gestiscono per due anni la ferriera di Stilo, la “Regia Camera” al fine di non interrompere l’attività, incarica un ufficiale d’artiglieria, tale capitano Castiello, di dirigerle “in nome e per conto della corte”. Non deve risultare strano la scelta di affidare la gestione delle ferriere ad un uomo d’arme. Quella è l'epoca in cui l’arte di eliminare il prossimo si serve sempre più di un’arma potente e temibile, il cannone. Nonostante ciò, anche in ragione delle fiorenti miniere del Nuovo Mondo, durante il periodo dei vicereami spagnoli, l’industria estrattiva “subisce una lenta contrazione”. Sono gli anni in cui lo stato cede la proprietà delle ferriere, tenendo per se solamente quella di Stilo. Nuovo impulso all’ “industria” siderurgica viene dato dopo il 1734, in seguito alla rinascita del Regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone. “La produzione nazionale di ferro si attesta intorno alle 10.000 cantaia, quella dell’acciaio intorno a 1.300. In Calabria se ne producono 2.400, di cui la metà a Stilo. […] tuttavia, l’antiquata tecnica di fusione  detta alla “catalana” non è più sostenibile dal momento che comporta un insostenibile dispendio di carbone. E’ la fine delle ferriere itinerante e l’inizio di una lunga incubazione che, nel 1771, porterà alla nascita del primo nucleo dello stabilimento proto-industriale di Mongiana.

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Le guerre alla Russia e l'eroismo della Guardia reale napoletana

 Non riesco a trovare un motivo serio per fare la guerra alla Russia. Lo ha deciso la NATO, ma non riesco a trovare un motivo serio per cui dobbiamo trovarci nella NATO. Abbiamo perso la Seconda guerra mondiale, è vero; ma per quanti altri secoli la dobbiamo perdere?  Ciò premesso, vediamo che guerra ci tocca, stavolta. L’Italia invierà 140 (e dico centoquaranta!) soldati in Lettonia. Se la guerra non si fa, inutili; se si fa, si troverebbero contro milioni di nemici. Tanto per saperlo.  Estonia, Lettonia e Lituania sono tre piccoli Stati baltici, nel 1918-20 resisi indipendenti dalla Russia; nel 1945 – saltiamo su alcuni particolari – sovietici; poi un’altra volta indipendenti, e passati alla NATO. La Lettonia confina con Estonia e Lituania, nostri alleati, e Russia e forse Bielorussia potenziali nemici. La Russia possiede una enclave con l’antica Koenisberg, patria di Kant, oggi Kalingrad. Insomma, un bel labirinto.  Ma qui voglio parlare delle altre due guerre italiane di Russia. Nel 1941, forse per prevenire un attacco sovietico, Hitler scatenò un’offensiva volta a spezzare in due il fronte di Stalin, e impadronirsi del territorio. Fallito il primo tentativo, la Germania ne ripetè molti altri, schierando milioni di uomini e immenso quantitativo di carri armati e aerei. Per capirci, se uno fosse riuscito, avrebbe spazzato via, dopo l’URSS, in una settimana gli Angloamericani da Italia e Francia, la cui presenza era insignificante rispetto ai “Gruppi di eserciti” sovietici e tedeschi.  Mussolini inviò dapprima un Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR), poi un’Armata (ARMIR); questa comprendeva, su richiesta germanica, un Corpo d’armata alpino, destinato al Caucaso, ma che non vi giunse mai. La superiorità sovietica, la sconfitta di Stalingrado e l’inverno causarono un disastro alle nostre truppe. È tutto purtroppo noto. Questi eventi si svolsero nel Sud, attuale Ucraina e Russia Meridionale.  Un reparto specializzato di nebbiogeni operò nel Baltico; aderì alla Repubblica Sociale, combatté a fianco dei Tedeschi fino al 1945.  Quasi dimenticata è invece la prima guerra di Russia, quella napoleonica del 1811, cui parteciparono molti italiani di tre appartenenze: di Piemonte, Liguria, Toscana e Roma, annessi direttamente all’Impero francese; di Trentino, Lombardia, Veneto, Romagna e Marche, sudditi del Regno d’Italia, re Napoleone e vicerè Eugenio Beauharnais, figlio di Giuseppina; e il Regno di Napoli di Gioacchino Murat, il quale però assunse il comando della cavalleria imperiale. L’offensiva si svolse a nord, con due direttrici, Mosca e San Pietroburgo. Come si sa, fallì per la strategia russa di attirare il nemico sempre più lontano dalle sue basi; e sopravvenne l’inverno. Napoleone raggiunse Mosca, ma San Pietroburgo e i territori baltici, da secoli fortificati, resistettero fino alla ritirata francese.  Il regno di Napoli schierava circa diecimila uomini, tutti meridionali, con ufficiali indigeni, e francesi che però Gioacchino aveva obbligato, con grande fastidio di Napoleone, a naturalizzarsi napoletani. La divisione napoletana fu posta al comando di Florestano Pepe e comprendeva una brigata al comando del Rosaroll e una al comando del D'Ambrosio, per un totale di quattro reggimenti. Ricordiamo anche Cianciulli, Costa,  Arcovito,  Roccaromana, Piccolellis, Campana. Coinvolta nella disastrosa ritirata, la Guardia reale napoletana si coprì di gloria respingendo i cosacchi, e salvando dalla cattura lo stesso Napoleone. La divisione partecipò poi alla lunga difesa di Danzica, assediata da truppe russe e prussiane. Con molte perdite, ottenne infine di ritirarsi con onore, e tornò in patria.  Buonaparte disse di loro: “Io partecipavo ad un pregiudizio di scarsa stima delle truppe napoletane: esse mi hanno colmato di meraviglia a Lutzen, a Bautzen, in Danzica e ad Hanau. I famosi Sanniti, loro avi, non avrebbero combattuto con maggior valore. Il coraggio è come l'amore, ha bisogno di alimento».  Ecco una frase su cui bisognerebbe riflettere, e si capirebbe anche il crollo del 1860: era venuto meno l’alimento! Ma questo è un altro discorso.

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Museo della fabbrica d'armi di Mongiana, tutto pronto per l'inaugurazione

Uno sogno che sta per diventare realtà. E' tutto pronto, infatti, per l'inaugurazione del "Museo della fabbrica d'armi reali ferriere di Mongiana". La cerimonia inaugurale, cui prenderanno parte numerose autorità, si svolgerà a partire dalle 16,30 di sabato 24 settembre. L'evento, che rappresenta un momento storico per tutto il comprensorio delle Serre, sarà allietato dalla banda della Reale Accademia filarmonica di Gerace.

I briganti nelle Serre, i nomi dei ricercati di Fabrizia

Divenuto padrone incontrastato dell’Europa continentale, dopo la vittoria conseguita ad Austerlitz  (2 dicembre 1805), Napoleone, decise di portare i vessilli del suo impero sul trono del Regno di Napoli. Per farlo si affidò, come spesso accadeva, ai parenti. Così ai “napoletani”, per poco meno di due anni, toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Ottenuta la corona di Spagna, il fratello di Napoleone, lasciò Napoli al cognato, Gioacchino Murat, marito della sorella Carolina, il cui regno si concluderà, il 2 maggio 1815, con la sconfitta a Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di stabilire il loro ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano scacciato i francesi e restaurato la monarchia. Nella guerra senza quartiere la Calabria fu in prima fila. Ad insidiare le truppe francesi i numerosi briganti che, favoriti dall’orografia e dalla fitta vegetazione, si cimentavano in continue azioni di guerriglia. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, i paesi situati sull’altopiano serrese diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. I boschi delle Serre divennero, quindi, rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Molti furono uccisi, altri arrestati, di altri ancora non si seppe più nulla. Tra i centri delle Serre dove la presenza brigantesca era piuttosto significativa, figura anche Fabrizia. La schiera dei “fabrizioti” fu particolarmente nutrita tra le fila di coloro i quali, nel maggio 1807, misero a ferro ed a fuoco Serra. Giova ricordare che, all’epoca, Fabrizia comprendeva anche i territori sui quali nasceranno successivamente i comuni di Mongiana e Nardodipace. E’ difficile dire quanti e chi fossero i briganti attivi nel circondario, tuttavia, almeno parzialmente la lacuna può essere colmata grazie alla “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta risale, molto probabilmente, ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma dell’Intendente Colletta ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa impossibile, abbandonata nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. Ad aprire la “Nota” un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Grazie alla “Nota” è possibile risalire all’identità dei 16 “fabrizioti”, 12 uomini e 4 donne, che tra il 1809 ed il 1810 si erano dati alla macchia. Questi i nomi: Ilario Jenco Gajaro e sua moglie, Domenico Cirillo, Domenico Gallace, Bruno Ciancio e sua moglie, Fortunato Masi alias Zio Bruno, Deodato Masi alias Petrichia, Stefano Aloe, Pasquale Monteleone Imiso e sua moglie, Pietro Monteleone, Giovanni Franzé alias Rici e sua moglie, Vincenzo Franzé alias Rici, Giuseppe Franzé.

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Il 13 ottobre 1815 a Pizzo veniva fucilato Gioacchino Murat

Il 13 ottobre 1815 Gioacchino Murat venne fucilato a Pizzo, epilogo di una vita dai molti mutamenti. Avventuroso e coraggioso cavalleggero, percorse rapidamente i gradi dell’esercito rivoluzionario, poi napoleonico; sposò Carolina Bonaparte; venne elevato a granduca di Berg, e nel 1808 a re di Napoli. Napoleone, che ben conosceva la geopolitica e la storia, non osò pensare di annettersi il Meridione d’Italia come fece con Torino, Genova, Firenze e la stessa Roma; o di governarlo direttamente come con Milano, Venezia e Bologna; ma ne riconobbe l’identità con un sovrano indipendente. Cosa pensasse Napoleone delle indipendenze altrui, è facile immaginarlo. Altro era il pensiero di Murat, che appuntò le sue ambizioni a rendere davvero suo il Reame che gli era toccato quasi per caso; e tenere a bada l’ingombrante cognato. Per far ciò, sperò di potersi impadronire della Sicilia, dove regnava Ferdinando con l’invincibile sostegno navale britannico; e intanto usò l’appellativo di Due Sicilie, che nel 1816 diverrà effettivo con il Borbone. Deposta quest’ aspettativa, che poteva realizzarsi solo se Napoleone avesse sconfitto e occupato la Gran Bretagna stessa, mirò a rafforzarsi nel dominio effettivo che aveva. Gli occorreva un partito a suo sostegno, e lo cercò nella borghesia e nobiltà pervase di più o meno fondate ideologie illuministiche; e desiderose di mettere le mani sui beni ecclesiastici e demaniali. Creò un ceto di proprietari e latifondisti difesi dal Codice Napoleone, che tutelava soprattutto la proprietà privata. Per favorirli con ogni assetto legale, trasformò in Comuni quelli che prima erano solo casali delle “Universitates” maggiori; con sindaci e decurioni tratti dalla borghesia. Si avvide che il Meridione non aveva una classe dirigente, come non l’ha tuttora, e si diede a formarla, cominciando dall’esercito. Con un atto che irritò molto Napoleone, impose ai generali francesi del suo seguito di prendere la cittadinanza napoletana, o andarsene. In pochi anni, condusse ai gradi più elevati molti e valenti regnicoli, che diedero buona prova di sé e combattendo l’insorgenza borbonica e popolare, e nelle spedizioni in Russia, Germania, Lombardia e nell’ultimo scontro di Tolentino; i Pepe, Carascosa, Filangieri, Colletta... Ad altri si aprì la strada della carriera burocratica. La classe militare murattiana visse e operò fino al 1848-9, ma non fece discepoli, come ben si vide nel 1860; la burocrazia non si rinnovò. Dopo Lipsia, Murat tentò di separare il suo destino da quello di Napoleone, e nelle prime fasi del Congresso di Vienna i suoi rappresentati vennero ammessi alle trattative accanto a quelli di Ferdinando come re di Sicilia; accortosi che gli accordi tra Austria e Gran Bretagna erano per la rinuncia inglese alla Sicilia in cambio di Malta, e quindi per il ritorno del Meridione ai Borbone sotto la protezione austriaca, provò senza successo la guerra. Il colpo di testa che lo condusse alla morte fu forse una trappola delle due Casate borboniche di Parigi e di Napoli, che potevano avvertire entrambe la sua presenza come una minaccia. Fu condannato in maniera del tutto legale; la legge che lo ordinava era stata promulgata da lui e mantenuta, come molte altre, da Ferdinando.

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Serra ed i Briganti. I nomi dei serresi ricercati dai francesi

Dopo la vittoria ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, Napoleone, ormai padrone dell’Europa continentale, decise di porre fine alla monarchia borbonica invadendo il regno di Napoli. In seguito ad ogni conquista, l’imperatore d’Ajaccio metteva in moto un collaudato meccanismo di spartizione  che vedeva protagonisti i componenti del suo numeroso clan familiare. Ai “napoletani” toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Un regno breve, destinato a durare poco più di due anni, fino a quando il fratello maggiore di Napoleone, non venne incoronato re di Spagna. Al suo posto, venne inviato Gioacchino Murat i cui meriti di guerra erano stati accresciuti dalle nozze con Carolina Bonaparte. Il regno del cognato di Napoleone si concluderà il 2 maggio 1815 con la sconfitta di Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di ristabilire l’ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano restaurato la monarchia dopo aver scacciato i francesi. La cruenta lotta vide, quindi, in prima fila la Calabria dove i briganti, favoriti, dalla natura del territorio e dalla fitta vegetazione riuscivano a muoversi con disinvoltura tenendo in scacco i soldati francesi. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, la cittadina della Certosa ed i centri limitrofi diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “definendosi realisti, iniziarono a vivere di ruberie” ed in ”tanti iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. Fu così che da luoghi di preghiera e meditazione, i dintorni di Serra divennero rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Gli episodi più cruenti che interessarono direttamente la cittadina bruniana furono due. Il primo risale al 24 maggio 1807 quando, quattro giorni prima della Battagliata di Mileto, la guarnigione francese di stanza a Serra era andata a dare manforte ai propri commilitoni in vista dello scontro con l’esercito napoletano. Fu in quell’occasione che “150 briganti, guidati da un certo Giuseppe Monteleone, detto Ronca” cui “si erano uniti altrettanti fabrizioti che disarmati speravano di prendere parte al saccheggio” entrarono a Serra e per “otto giorni” compirono assassini e saccheggi. A mettere fine alle devastazioni furono i serresi che avevano combattuto con i francesi a Mileto. Dopo la battaglia, ottenuta l’autorizzazione da parte del comandante delle truppe napoleoniche, generale Reynier, tornarono precipitosamente a Serra e misero in fuga i briganti. Il secondo episodio, invece, risale al 1811 quando, in seguito all’uccisione di due soldati francesi, il generale Manhés, oltre a fare chiudere le chiese, fece esiliare a Maida i preti fin quando non fossero stati consegnati i briganti. Dei ricercati di cui i francesi pretendevano la consegna sono arrivati a noi, tramite la “Platea”, due soli nomi, quelli dei “due Pasquali”, ovvero Pasquale Catroppa e Pasquale Ariganello, gli irriducibili uccisi nel sonno, il 12 aprile 1811, da due pastori di Pazzano che gli avevano dato ospitalità. I briganti serresi, attivi tra il 1806 ed il 1811, furono però molti di più. Complessivamente si tratta di trentadue persone i cui nomi sono contenuti in un documento, la “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta verosimilmente risale ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma apposta da Colletta in qualità d’Intendente ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa giudicata impossibile ed abbandonata proprio nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. La “Nota” si apriva con un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Per quanto riguarda Serra, la “nota” riporta complessivamente 32 nominativi i cui cognomi, in molti casi, sono ancora presenti nella cittadina della Certosa. Di seguito i nomi, in alcuni casi corredati dai soprannomi, dei briganti Serresi attivi fino al 1811: Pasquale Ariganello e Pasquale Catroppa (i “due Pasquali”), Bruno Barbara, Antonio Pace Spito, Pietro Valente del Cardeo, Giuseppantonio Tosto, Rocco Scoleri, Annibale Tedesco, Raffaele Pisani dello Zoppo, Domenico dell’Apa Fociliere, Domenico Crispo Lupo, Bruno Mannella, Rocco e Fortunato Pisano, Gennaro e Giuseppe Raghiele, Biagio Pelaja, Rocco Vellone, Giuseppe Figliuzzi, Salvatore Pasquino, Salvatore Tucci, Raffaele Scrivo, Biagio e Salvatore di Francesco, Biagio e Raimondo Greco, Pasquale e Francesco Zaffino, Domenico Rizza Tirri, Michele e Francesco Condeloro, Pasquale Purria,

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La storia del Mezzogiorno borbonico inizia a Bitonto, intervista a Ulderico Nisticò

Suscita curiosità la commemorazione che si tiene, il 18 luglio, a Bitonto. Ne abbiamo chiesto a chi ne sa non solo come storico, ma come protagonista della manifestazione, Ulderico Nisticò.

 Quest’anno non ci sarò: il 18, programmata da mesi, terrò la presentazione del libro della Fazio e don Galeone. C’ero nel 2004, quando Laricchia s’inventò la celebrazione della battaglia che diede inizio alla nostra storia moderna.

 Non è che i libri di testo si dilunghino molto sull’argomento…

Già. È un episodio della Guerra di successione polacca, in realtà combattuta per togliere all’Austria l’eccessiva potenza in Italia. Un esercito spagnolo, guidato da Josè Carrillo conte di Montemar, sconfisse gli Austriaci, e portò sui troni di Napoli e Sicilia il duca di Parma, Carlo di Borbone. I trattati di pace del 1738 lo riconobbero sovrano indipendente dei sue Regni.

 Chiariamo per i lettori: sono intricate faccende dinastiche?

 Carlo era figlio di Filippo V di Borbone, che, pronipote di Luigi XIV, era stato riconosciuto re di Spagna; e della sua seconda moglie, Elisabetta Farnese duchessa di Parma. La Spagna rivendicava i suoi antichi possessi, ma si dovette contentare di un re sovrano: anzi i trattati sancirono esplicitamente che i troni italiani non dovevano mai più essere uniti a quelli spagnoli. Infatti quando Carlo nel 1759 diverrà re di Spagna, lascerà il figlio Ferdinando IV come re di Napoli e III come re di Sicilia.

 Dunque la storia del Mezzogiorno borbonico inizia a Bitonto.

 Merito di Francesco Laricchia, medico e storico, che volle la commemorazione, e, in vario modo ogni anno la ripete. Ricordiamo – dico le volte in cui mi è possibile esserci – la battaglia e le sue conseguenze storiche e politiche. A Bitonto si celebra anche il miracolo dell’apparizione della Madonna, che ordinò agli Spagnoli di non saccheggiare la città. Gli scettici insinuano che la città pagò un riscatto.

 Venne, molti anni dopo, eretto un solenne monumento con quattro eleganti lapidi in latino. Troppo lungo sarebbe qui il discorso

 Ce ne parlerà ancora in altra occasione?

 Volentieri. Ora basti un cenno a quella che afferma la valenza storica della battaglia, con l’espressione che Carlo affermò con la vittoria “Italicam libertatem”.

 L’indipendenza d’Italia? Accidenti, nel 1734!

 Vero; intanto rivendicando, sia pure nominalmente, Parma e la Toscana; poi quasi riprendendo la funzione di Napoli ai tempi del vicereame, centro dei domini spagnoli. Un’affermazione diciamo oggi virtuale, ma politicamente interessante.

 Fermiamoci, per ora, alla commemorazione dei Caduti austriaci.

 Laricchia la volle nel 2010; prese contatto con la Croce Nera di Vienna, istituto per le onoranze ai Caduti, e, ottenutane la partecipazione, pensò a una lapide e incaricò me di scriverla. È quella che è stata pubblicata qualche numero fa.

 Torneremo a trattare di re Carlo e di Bitonto?

 Sarà un piacere… e un dovere borbonico.

 

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Un'altra storia è possibile, anche al Sud

Francesco Laricchia, medico con la passione della storia meridionale, è il creatore della commemorazione della battaglia di Bitonto del maggio 1734, quella che portò Carlo di Borbone sui troni di Napoli e della Sicilia, e restituì loro e a tutta Italia la “libertas”, l’indipendenza. Così recita la lapide dell’Obelisco carolino. Ma Laricchia, combattente cavalleresco, non si è dimenticato del nemico, l’esercito austriaco; e, già nel 2010, dopo aver preso contatto con l’Istituto Viennese per le celebrazioni dei Caduti, ha voluto che il sacrificio dei vinti venisse degnamente celebrato. È stata affissa un’elegante lapide, con un’iscrizione in latino come sono le lapidi dell’Obelisco; ha dettato il distico Ulderico Nisticò, così versificando:

«Caesaris haud fausto quae paruit Austria Marti Pubes, fata diem, non rapuere decus»

(Alla gioventù d’Austria, che obbediva, pur senza fortuna, al comando di guerra dell’imperatore, il destino tolse la vita, non l’onore).

La commemorazione verrà ripetuta il 18 agosto. Nisticò, da noi sentito, si duole di non potersi recare a Bitonto perché impegnato nella presentazione del volume di don Franco Galeone e Maria Rosaria Fazio “Uomini e donne nella Bibbia”. Ma su Bitonto ci ha promesso un approfondimento. 

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