Serra: perché non istituire un parco letterario?

Scriveva Stanislao Nievo: “I Parchi Letterari assumono il ruolo di tutela letteraria di luoghi resi immortali da versi e descrizioni celebri che rischiano di essere cancellati e che si traducono nella scelta di itinerari, tracciati attraverso territori segnati dalla presenza fisica o interpretativa di scrittori. Un singolare percorso che fa rivivere al visitatore le suggestioni e le emozioni che lo scrittore ha vissuto e che vi ha impresso nelle sue opere.” Orbene Serra San Bruno ha avuto il privilegio di avere tra i suoi figli due grandi della letteratura: Sharo Gambino e Mastro Bruno Pelaggi, quest’ultimo addirittura recente voce della Treccani. Il Gambino, nei suoi saggi e nelle poesie dette voce alla gente delle Serre con descrizioni particolareggiate dei luoghi; il Pelaggi è stato l’anima rivoluzionaria dell’amara realtà postunitaria. Vien da sé che Serra merita l’istituzione di un parco letterario intitolato ai nostri Gambino e Pelaggi  non solo per custodire e divulgare le loro opere ma per salvaguardare  il territorio serrese attraverso la letteratura. Ciò permette di avvicinare il visitatore e il lettore all'ambiente descritto dai nostri autori e coinvolgerlo nella tutela dell’ambiente. Insomma un Parco letterario per conoscere e far conoscere l’evoluzione, o involuzione se volete, delle comunità, come Serra San Bruno, Mongiana, Fabrizia, Nardodipace, Brognaturo e le altre, attraverso le opere letterarie ed artistiche. Gambino e Pelaggi offrono un diverso codice di interpretazione dello spazio scelto, mille anni orsono, da san Bruno e danno un nuovo significato al territorio tra paesaggio, patrimonio culturale e attività economiche. È auspicabile che Serra San Bruno possa essere sede di un Parco Letterario “Sharo Gambino-Mastro Bruno Pelaggi”, e questo vuole essere un benevolo assist alla nuova Amministrazione comunale e alle altre associazioni presenti e operanti. Tra gli obiettivi realizzabili: una biblioteca specializzata sulla letteratura calabrese che  possa rappresentare il luogo della conoscenza; un museo ed un centro studi  che conservi e valorizzi le opere degli autori serresi; la rinascita della casa natale del Pelaggi; un percorso turistico attraverso i luoghi anche di altri autori e poeti dell’intero comprensorio, fatti conoscere da critici letterari ed esperti, per valorizzare pienamente le bellezze paesaggistiche e i tantissimi beni monumentali. Insomma ripensare il territorio alla luce delle tradizioni e della poesia.

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Torre Ruggiero: domani l’appuntamento con la poesia e le opere di Salvatore Filocamo

“Voci e valori del mio tempo”. È questo il titolo della preziosa raccolta delle opere in vernacolo e in lingua, componimenti e farse, dell’autore calabrese Salvatore Filocamo, data alle stampe da Franco Pancallo Editore,  che sarà presentata domenica 31 gennaio a Torre Ruggiero (Cz), per iniziativa della Biblioteca comunale gestita dall'Associazione culturale “I Sognatori”. Appuntamento alle ore 17 presso la Biblioteca e Sala consiliare di Palazzo Martelli. Interverrà Iolanda Filocamo, figlia dell’autore,  che converserà con la giornalista Patrizia Sanzo, portando testimonianza dell’ “incrollabile fede negli elementari valori dell’onestà e della dignità umana, del lavoro e della solidarietà tra gli uomini” che ne ispirarono l’attività artistica e  ne guidarono l’esperienza umana. La lettura di alcuni componimenti sarà curata da Antonio Pittelli. Gli intermezzi musicali da Gabriele Trimboli e Mimmo Marando. Nel corso della serata  un video omaggerà  la figura di Mimmo Martino, fine ricercatore e cantore delle tradizioni calabresi, fondatore e storico leader dei “Mattanza”, scomparso proprio il 31 gennaio di un anno fa. Il gruppo etnico popolare reggino  ha musicato il componimento “Ricchi e povari” di Salvatore Filocamo. Tra i critici, gli studiosi e personalità  che si sono interessati dell’opera di Filocamo vanno ricordati, tra gli altri: Saverio Strati, Pasquino Crupi, Giuseppe Falcone, Sharo Gambino, Mario La Cava, Antonio Piromalli, Giuseppe Mirarchi, Paola Radici Colace, Alfredo Lancellotti, Ugo Mollica, Rocco Ritorto, Salvatore Chierchia e Otello Profazio.

Alcune note biografiche: Francesco Salvatore Filocamo è nato a Siderno Superiore in provincia di Reggio Calabria, il 9 gennaio 1902, da famiglia contadina. Nel 1933, per consentire ai propri figli di proseguire gli studi e offrire loro così un futuro migliore, si  trasferì con la famiglia a Locri (allora ancora Gerace Marina), lavorando, in qualità di impiegato, alle dipendenze di varie ditte private. A Locri ha vissuto una tranquilla vecchiaia, circondato dall’affetto della sua famiglia, sebbene l’immatura scomparsa, nel 1972, della «cumpagna fidili», ispiratrice e consolatrice degli anni duri, con la quale ha sempre condiviso dolori e gioie ed a cui sono dedicate gran parte delle sue poesie, dalla tenue vena elegiaca. La sua esperienza terrena si è conclusa il 22 settembre del 1984. La passione per la poesia dialettale si manifestò sin dall’adolescenza, affondando le radici in una tradizione di cultura popolare che allora, molto più di oggi si respirava nell’aria. Le sue prime composizioni furono di carattere giocoso e satirico, traendo origine e spunto da episodi di vita vissuta. La prima raccolta di poesie “Ricchi e povari”  è stata pubblicata nel 1975 dalla Frama Sud di Chiaravalle Centrale con la prefazione di Saverio Strati, riscuotendo un immediato successo di pubblico e di critica. La maggior parte della sua produzione è sparsa su giornali e riviste. Nel 1985 è stata pubblicata postuma, dall’editore Rubbettino, l’opera “Farse Carnevalesche”. Nel 2014 è stato pubblicato il volume “Voci e valori del mio tempo” (Opera Omnia) a cura di Ugo Mollica e della figlia dell’autore Iolanda Filocamo.

Sharo Gambino: “Il sesso dei gatti e altri racconti”. Rubbettino pubblica la raccolta completa di tutti i racconti

Esce per Rubbettino “Il sesso dei gatti e altri racconti”, una raccolta postuma di tutti i 54 racconti scritti da Sharo Gambino nel corso della sua vita, più un inedito “Il Crocifisso”. Una silloge in cui convivono, e si valorizzano a vicenda, le due fasi letterarie dell’autore: l’ironia alla Jerome e il neorealismo che caratterizza la seconda parte della sua produzione culminata con il romanzo Sole nero a Malifà. Lo scrittore calabrese, a quasi sette anni dalla scomparsa, rivive in questi racconti. Se ne percepisce la voce schietta, l’ironia serafica e il sarcasmo spigliato; ne riecheggia la voce, tra le casupole di mattoni rossi e pietra, tra le stradine sterrate e i paesaggi aridi e fiammeggianti della sua Calabria. E con lui rivive anche una Calabria sconosciuta ai più, nascosta tra le pagine di cronaca e opacizzata dai cliché che una regione complessa come questa si porta dietro. Gambino rifugge dagli stereotipi e contemporaneamente delinea situazioni e caratteri in cui tutti possono rispecchiarsi, per empatia o grazie alla sua straordinaria capacità di rendere i dettagli così definiti da restituire al lettore una realtà comoda in cui immergersi. Comoda per l’immaginazione, ma sottilmente e piacevolmente sbilenca per il retrogusto amaro di certe storie. È qui che si fondono le due anime di Gambino, romantico ed illuminista insieme, ricercatore attento e narratore sublime, realista e magico, raccoglitore di voci sommerse, fine conoscitore della tradizione e della storia. Lontano dalle morali, dagli insegnamenti a piè di pagina, le storie di Gambino hanno una funzione catartica: per l’autore stesso, che attraverso la narrazione raggiunge l’immortalità; per i suoi personaggi, vinti e umili, emarginati e ribelli che con un guizzo, una trovata, o anche solo un’espressione conquistano la rivalsa; per i lettori che attraverso le piccole storie sono condotti, a volte per mano, a volte trascinati con foga, nei misteri della Storia. Gambino riesce a raccontare i luoghi in una molteplicità di colori che dal “locale” passa al “globale” e che chiarisce il rapporto di ogni calabrese con la sua terra, che è poi il rapporto dell’uomo con la sua casa: “Il paese si ama e si odia, ma l'odio raramente è definitivo, aspetta l'occasione per stemperarsi, addolcirsi fino a trasformarsi del tutto e assumere la tinta e la sostanza del suo contrario, com'è di quegli innamorati che finito il bisticcio, chiarito un equivoco che aveva provocato la frattura, tornano ad amare con raddoppiata intensità”



 

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Quando c'era il carnevale

La festa del Carnevale ha avuto, fino alla seconda metà del Novecento in Calabria, importanza e centralità nelle comunità calabresi e nonostante ciò, lo studio e l’interesse rivolto ad esso è sempre stato marginale rispetto al lavoro dedicato ad altri aspetti della cultura subalterna delle classi popolari. La scomparsa del Carnevale “tradizionale” ne rende ancora più difficile la ricostruzione. Un patrimonio perduto fatto di riti, suoni, sapori e “spirito”. Il Carnevale abbracciava un lungo periodo che solitamente andava dal 17 gennaio, (festa di S. Antonio Abate) identificato nella festa come Sant’Antuoni di lu puorcu al martedì grasso. Marti di lazata (lazari in serrese vuol dire conservare) o marti di l’azata (l’alzata del gomito per salutare le feste carnevalesche e conservare le carni del maiale appena “sacrificato”). Pochi sanno che le domeniche di Carnevale, nelle Serre e nelle pre-Serre erano quattro: quella degli amici, quella dei compari, quella dei parenti (o dei denti) e quella di Carnevale. Grande protagonista della festa restava comunque il maiale. Attorno a lui, simbolo dell’abbondanza alimentare, riserva familiare di carni salate e grassi utilizzati poi nella cucina, quando ancora il colesterolo non si era insinuato nelle nostre vene, la festa veniva costruita. Il grande abate Padula da Acri in una sua raccolta di scritti sociali, ci lascia questo detto popolare :

Amaru chi lu puorcu non s’ammazza,

cà e vide e li desidera i sazizzi.

E ancora

Miegliu criscere ‘u piorcu ca ‘nu figliu

Puru l’ammazzi e ti n’unti lu mussu.

Ai più indigenti infatti, veniva consigliato “Di lardaruolu ‘mpignati ‘u figghjiuolu”, pur di non rimanere senza carne di maiale in questi giorni di festa.  Lardaluoru era il giovedì grasso, giorno in cui il carnevale vero e proprio aveva inizio, festa che si concludeva poi con lo “scoppio” della pancia di Carnilivari rimpilzatosi d’ogni ben di Dio. Una sorta di esorcismo alla fame, agli stenti che erano compagni di viaggio della stragrande maggioranza dei calabresi. La farsa, ( come i Maggi e le Buffonate) è il teatro povero di strada spesso improvvisato e sempre di tradizione orale delle quali le testimonianze scritte sono davvero esigue, era presente in tutte le comunità, essa costituisce un genere antico risalente alle commedie latine.  Imprescindibile per capire lo spirito del Carnevale è l’opera di, Michele De Marco, (Ciardullo) che nei suoi scritti dedica ampio spazio alla festa e allo sfortunato suino “protagonista forzato” della stessa. Amori ostacolati o testamenti scherzosi, figure come Pulcinella o lo studente calabrese (spesso caratterizzato negativamente), propri della commedia napoletana, tornano ricorrenti nelle farse calabresi. In tanti paesi le farse erano riti esercitati dall’intera comunità con modalità espressive di classi sociali diverse. La contrapposizione non era solamente di tipo locale e classista. La satira era diretta a tutte le categorie sociali, ma anche a forestieri, dei quali spesso si prendeva di mira ridicolizzandolo il dialetto diverso, agli abitanti di un paese vicino (esempio lampante in Serra le poesie di Mastro Bruno dedicate ad esempio ai brognaturesi) ma anche agli abitanti di un'altra zona del paese e, spesse volte, ironica nei confronti degli appartenenti al proprio gruppo sociale. Gli attori, che nelle piazze inscenavano anche più atti, con delle vere e proprie scenografie anche se scarnite e minimali, provenivano spesso dagli ambienti più poveri. Non vi erano comici di mestiere ma “stabili recitatori”. I recitatori, i suonatori, erano spesso contadini, braccianti artigiani che una volta appalesata la loro bravura nell’imitare e nel far ridere, erano chiamati in altre occasioni conviviali durante l’anno come matrimoni o battesimi. L’ondata di migrazione degli anni Cinquanta, segna la fine dell’antica festa. La cultura tradizionale subisce un’inarrestabile declino e una grave e profonda trasformazione. Il Carnevale già in quegli anni si disgrega, diventa simbolo dell’erosione radicale dell’antica ritualità contadina. Da qui, parte la trasformazione della festa fino a scivolare in quella che oggi rappresentiamo anche in Calabria alle nuove generazioni.  Un ruolo decisivo svolgono gli emigrati che ritornano e infatti, se da una parte rimangono custodi della tradizione, congelata nei loro ricordi al momento della partenza, dall’altra introducono nuovi usi e diventano inventori di nuove tradizioni. La festa contadina muore quando gli emigrati (e quelli che sono rimasti) realizzano gli antichi sogni alimentari, soddisfano una antica fame di carne e di pane bianco che li perseguita da secoli ottenendo quella quantità di cibo che un tempo eccitava i loro sogni, la loro fantasia, il loro spirito carnevalesco, che gli permetteva di ridere delle propria fame e dei propri bisogni e di sfidare la miseria. Carnilivari, festa dell’abbondanza e del cibo, che aveva valore propiziatorio e fondante, si avvia alla fine, come quando il martedì sera veniva bruciato il suo fantoccio fatto di paglia e di stracci.  

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